Parte dodicesima L’agente

1

Munn Li Compor, consigliere di Terminus, tese con aria incerta la mano destra a Trevize.

Trevize fissò con occhi duri quella mano e non la strinse. Disse, come parlando all’aria: — Non posso permettermi il lusso di creare un guazzabuglio tale da farmi arrestare per disturbo della quiete pubblica, su questo pianeta straniero, ma me lo permetterò, quel lusso, se questo individuo si avvicinerà di un solo passo.

Compor si arrestò di colpo, esitò, ed alla fine, dopo aver lanciato un’occhiata incerta a Pelorat, disse sottovoce: — Posso parlare un attimo? Spiegarmi? Mi starai ad ascoltare?

Pelorat, corrugando la fronte, guardò prima Trevize, poi Compor.

— Che significa tutto questo, Golan? — disse. — Abbiamo per caso incontrato su questo pianeta sperduto una persona che conoscete?

Trevize continuò a fissare Compor, ma girò leggermente il busto, in modo che fosse chiaro che si rivolgeva a Pelorat.

— Questo... individuo — disse, — perché in effetti dall’aspetto si è costretti a definirlo tale, una volta, su Terminus, mi era amico. Come faccio sempre con gli amici, mi fidavo di lui. Gli ho confessato le mie opinioni, che non erano proprio di quelle che si possono gridare ai quattro venti. Lui è andato a raccontare tutto alle autorità, a quanto sembra con dovizia di particolari, e non si è nemmeno preoccupato di dirmi che avesse fatto la soffiata. Così sono caduto in pieno in una trappola ed adesso mi trovo in esilio. Ed ora questo essere pretende che gli getti le braccia al collo.

Girò di nuovo il busto verso Compor e si passò le dita fra i capelli, riuscendo solo a scompigliarsi di più i ricci.

— Senti, tu, dimmi piuttosto una cosa. Che cosa ci fai qui? Con tutti i pianeti che ci sono nella Galassia come mai sei finito proprio su questo? E come mai adesso?

La mano di Compor, che era rimasta tesa per tutta la durata del discorso di Trevize, ricadde lungo il fianco. Il sorriso scomparve dal suo volto, insieme con l’aria di sicurezza che gli era così caratteristica; Compor d’un tratto apparve più giovane dei suoi trentaquattro anni, e abbastanza afflitto. — Posso spiegarti — disse, — ma solo se accetti che cominci la storia dall’inizio.

Trevize si guardò un attimo intorno. — Qui? Vuoi davvero parlare della cosa qui, in un luogo pubblico? Vuoi proprio che te le suoni di santa ragione davanti a tutti, dopo aver ascoltato le tue bugie?

Compor alzò le mani, tenendo le palme una davanti all’altra. — È il posto più sicuro, credimi. — Poi, intuendo che cosa l’altro si accingesse a dire, si corresse ed aggiunse: — O non credermi, non importa. Sto dicendo la verità, però. Mi trovo su questo pianeta da un po’ più di tempo di te ed ho fatto i miei controlli. È un giorno particolare oggi, su Sayshell. È, pare, una giornata dedicata alla meditazione: quasi tutti si trovano, o dovrebbero trovarsi, a casa. Vedi com’è vuoto questo posto, no?

Non penserai che sia così tutti i giorni, vero?

Con un cenno di assenso, Pelorat disse: — Mi stavo proprio chiedendo perché fosse così vuoto. — Avvicinò la bocca all’orecchio di Trevize e sussurrò: — Perché non gli lasciate dire quel che deve dire, Golan? Ha un’aria così afflitta, poverino, e sembra intenzionato a scusarsi con voi. Mi pare ingiusto non dargli la possibilità di farlo.

— Il dottor Pelorat sembra ansioso di ascoltarti — disse Trevize. — Sono disposto a fargli la cortesia che mi chiede, ma tu farai a me la cortesia di essere breve: questo potrebbe essere il giorno più adatto per perdere la pazienza. Se è vero che tutti sono assorti in meditazione, forse i tutori della legge non arriveranno in caso io faccia un po’ di casino. Domani potrei non essere altrettanto fortunato, perché perdere una così bella occasione?

Con voce tesa, Compor disse: — Senti, se vuoi darmi un pugno, fallo. Non tenterò nemmeno di difendermi. Fallo, ma ascoltami!

— Parla, allora. Per un po’ accetto di starti a sentire.

— Innanzitutto, Golan...

— Chiamami Trevize, per piacere, poche confidenze, tra di noi.

— Innanzitutto, Trevize, devo dire che tu mi convincesti anche troppo dell’esattezza della tua teoria...

— Hai saputo nasconderlo bene: avrei giurato che le mie opinioni ti facessero ridere.

— Cercai di buttarla sul ridere per nascondere a me stesso di essere turbato dalle tue idee. Senti, sediamoci vicino al muro. Anche se il posto è vuoto, non vorrei che a quei pochi che entrano apparissimo troppo vistosi.

I tre uomini attraversarono lentamente la grande sala. Compor aveva di nuovo abbozzato un sorriso, ma si teneva prudentemente a una certa distanza da Trevize. Si sedettero su poltrone che sotto il loro peso cedettero, morbide, accompagnando la forma dei fianchi e delle natiche. Pelorat apparve sorpreso e fece per alzarsi.

— Rilassatevi, professore — disse Compor. — Ho già avuto modo di studiare la faccenda. In alcuni settori, qui, sono più progrediti di noi: è un mondo che crede nelle piccole comodità.

Si girò verso Trevize, posando un braccio sullo schienale della poltrona e parlando finalmente senza troppa tensione. — Mi avevi turbato. Mi avevi convinto dell’esistenza della Seconda Fondazione, e questo mi era parso terribile. Pensai che se era vero che la Seconda Fondazione esistesse, questa poteva intervenire in qualche modo e toglierti di mezzo in quanto personaggio scomodo. E che se mi fossi comportato come uno che condividesse le tue idee, sarei stato tolto di mezzo anch’io.

Capisci il mio punto di vista?

— Capisco che sei un codardo.

— A che sarebbe servito fare l’eroe da libro di scuola? — disse Compor con foga, spalancando indignato gli occhi azzurri.

— Come possiamo, tu od io, tener testa ad un’organizzazione capace di plasmare la mente ed i sentimenti? Innanzitutto, per combatterla, dovremmo preoccuparci di nasconderle che sappiamo.

— Tu l’hai fatto e ti sei salvato, eh? Eppure ne hai parlato col sindaco Branno. Un bel rischio.

— Sì, ma ho pensato che ne valesse la pena. Se ne avessimo parlato solo fra di noi, forse avremmo ottenuto unicamente di farci controllare la mente o di farci cancellare la memoria. Ho pensato che se invece avessi parlato col sindaco... Sai, conosceva bene mio padre. Mio padre e io siamo emigrati da Smyrno ed il sindaco aveva una nonna che...

— Sì, sì — disse Trevize spazientito, — e risalendo indietro di molte generazioni arrivi a trovare le tue ascendenze nel Settore Sirio. L’hai già raccontato a tutte le persone che conosci. Avanti dunque, Compor!

— Bene, ho chiesto alla Branno di ricevermi. Mi sono detto che se fossi riuscito, con le tue argomentazioni, a convincere lei, la Federazione forse avrebbe preso qualche provvedimento. Non siamo più così indifesi come all’epoca del Mulo. Poi ho pensato che, nella peggiore delle ipotesi, diffondendo maggiormente le tue teorie pericolose il rischio l’avrebbero corso più persone e non solo noi due.

Trevize disse, ironico: — Mettere in pericolo la Fondazione pur di garantire a se stessi l’incolumità: che patriottismo!

— Ho detto nell’ipotesi peggiore: io speravo in quella migliore. — Compor aveva la fronte lievemente imperlata di sudore. L’atteggiamento di disprezzo di Trevize sembrava metterlo a dura prova.

— E non mi hai mai parlato di questo tuo astuto piano, eh?

— No, e me ne dispiace, Trevize. Il sindaco mi ha ordinato di non farlo. Ha detto che voleva tirar fuori da te tutto quello che sapevi, ma tu ti saresti bloccato e non avresti detto niente se avessi saputo che le tue opinioni fossero state rese note.

— Ed aveva pienamente ragione!

— Io non sapevo, non potevo immaginare assolutamente che stesse progettando di arrestarti e di spedirti in esilio.

— Stava semplicemente aspettando la congiuntura politica giusta, il momento in cui la mia condizione di consigliere non fosse sufficiente a proteggermi. Come mai non l’hai previsto?

— Come potevo? Nemmeno tu l’hai previsto.

— Se avessi saputo che fosse al corrente di ciò che pensavo, l’avrei previsto sicuramente.

— È facile dirlo adesso, col senno di poi — disse Compor, con una nota improvvisa d’insolenza.

— Ed adesso, qui, cos’è che vuoi da me? Cos’è che vuoi, adesso che hai anche tu un po’ di senno di poi?

— Riparare il malfatto. Farmi perdonare per il torto che ti ho involontariamente, involontariamente, bada bene, fatto.

— Come sei buono! — disse Trevize, secco. — Come sei gentile! Ma non hai risposto alla domanda iniziale. Come mai sei capitato qui? Non è singolare che ti trovi sullo stesso pianeta su cui mi trovo io?

— La risposta non è difficile — disse Compor. — Ti ho seguito.

— Attraverso l’iperspazio? Hai seguito una nave come la mia, che ha compiuto i Balzi uno dietro l’altro?

Compor scosse la testa. — Non è strano come pensi. Ho lo stesso tipo di nave che hai tu, con lo stesso tipo di computer. Sai che ho sempre avuto l’abilità di intuire la direzione presa da una nave al momento di entrare nell’iperspazio. Oddio, di solito l’intuizione è abbastanza approssimativa, diciamo che tendo a indovinare una volta su tre, ma col computer ci riesco molto meglio. E tu hai esitato parecchio, all’inizio, e mi hai dato il modo di calcolare la direzione e la velocità che avresti preso nel Balzo.

Ho fornito al computer i dati e le mie estrapolazioni di natura intuitiva, e lui ha fatto il resto.

— E sei arrivato in città prima di me?

— Sì. Tu non hai usato i motori gravitazionali, io sì. Ho immaginato che saresti venuto nella capitale, così sono andato a colpo sicuro, mentre tu... — Compor descrisse con l’indice il breve movimento a spirale di una nave che seguisse un fascio direzionale.

— Hai corso il rischio di avere grane grosse con i funzionari della dogana.

— Be’... — Compor fece un sorriso così aperto e affascinante che Trevize si sentì per un attimo meno diffidente nei suoi confronti. — Non sono un codardo sempre ed in qualsiasi circostanza.

Trevize riprese immediatamente il suo atteggiamento rigido.

— E come mai hai una nave uguale alla mia?

— Per lo stesso motivo per cui tu hai la tua: me l’ha assegnata la vecchia signora, ovvero il sindaco Branno.

— Perché?

— Voglio essere completamente sincero con te: me l’ha assegnata con l’incarico di seguirti. Voleva sapere dove andassi e cosa avresti fatto.

— E tu, ligio, le hai fatto regolarmente rapporto, suppongo. O hai per caso tradito anche il sindaco?

— Ho fatto rapporto. In realtà non avevo scelta: mi ha messo a bordo della nave un iper-relé che in teoria non avrei dovuto trovare, ma che in effetti ho trovato.

— Allora?

— Purtroppo è collocato in modo che non possa rimuoverlo senza bloccare la nave. Od almeno, non so trovare la maniera di toglierlo. Di conseguenza la Branno sa dove mi trovo e dove ti trovi tu.

— Metti che non fossi riuscito a seguirmi, in quel caso non avrebbe saputo dove mi trovo: ci hai pensato?

— Certamente. Ho pensato che avrei potuto riferire semplicemente che ti avessi perso di vista, ma lei non lo avrebbe creduto, ti pare? E non sarei stato più in grado per chissà quanto tempo di tornare su Terminus. Non sono come te, Trevize, non sono una persona spensierata, senza legami: su Terminus ho una moglie, una moglie incinta, e voglio tornare da lei. Tu puoi permetterti il lusso di pensare solo a te stesso, io no. E poi non ho rinunciato a seguirti anche per poterti avvertire. Per Seldon, è da quando ci siamo visti che sto cercando di fare questo, e tu non mi dai retta, continui a parlare d’altro.

— La tua improvvisa sollecitudine nei miei riguardi non mi commuove affatto.

Contro che cosa puoi mettermi in guardia? Secondo me, sei tu l’unica cosa contro cui debba essere messo in guardia: mi hai tradito una volta e adesso mi segui per tradirmi una seconda. Non c’è nessun altro che mi stia minacciando, in questo momento.

Compor disse, serio: — Piantala di fare la vittima, amico. Tu non sei che un parafulmine. Sei stato spedito in avanscoperta a cercare tracce dell’esistenza della Seconda Fondazione... ammesso che esista una cosa come la Seconda Fondazione.

Ho una discreta intuizione e non solo quando si tratti di indovinare la direzione che prenderà una nave entrando nell’iperspazio; sono sicuro che la Branno intenda usarti come esca. Se tenti di trovare la Seconda Fondazione, questa se ne renderà conto, prima o poi, e cercherà di neutralizzarti. Così facendo però, è facile che si tradisca e sveli la propria ubicazione. E quando lo farà, il sindaco Branno sarà pronta ad attaccarla.

— Peccato che la tua famosa intuizione non si sia messa in moto quando la Branno ha progettato di farmi arrestare.

Compor arrossì e mormorò: — Sai che non funziona sempre.

— Ed adesso ti dice che la Branno stia progettando di attaccare la Seconda Fondazione, eh? Non oserebbe mai attaccarla, invece.

— Io credo di sì. Ma non è questo il punto, il punto è che adesso la Branno ti sta usando come esca.

— E allora?

— E allora non cercare la Seconda Fondazione, per la Galassia! Alla Branno non importerebbe niente se tu fossi ucciso nel corso delle ricerche, ma a me importa la tua incolumità. Me ne sento responsabile e ci tengo a che tu rimanga in vita.

— Sono commosso — disse Trevize in tono secco, — ma si dà il caso che al momento abbia un’altra missione da compiere.

— Davvero?

— Pelorat e io stiamo cercando la Terra, il pianeta che alcuni ritengono sia il luogo d’origine della razza umana. È vero, Janov?

Pelorat annuì. — Sì, è una missione di natura squisitamente scientifica: si tratta di un interesse di vecchia data, per me.

Per un attimo Compor apparve smarrito. — Cercate la Terra? — disse poi. — Ma perché?

— Per studiarla — disse Pelorat. — È il mondo su cui gli esseri umani si sono evoluti, probabilmente da forme di vita inferiori. Negli altri pianeti invece questa evoluzione non c’è stata; c’è stata solo una colonizzazione da parte di esseri umani già civilizzati. La Terra, insomma, è un esemplare unico, e quindi interessante da analizzare.

— Ed è anche un mondo dove forse posso imparare di più sulla Seconda Fondazione — disse Trevize. — Dico forse, bada bene.

— Ma la Terra non esiste — disse Compor. — Non lo sapevate?

— Ah, la Terra non esiste? — disse Pelorat, che aveva assunto l’espressione vacua di quando si preparava ad un’accanita discussione. — Intendete dire che non sia mai esistito il pianeta su cui la specie umana si è evoluta?

— Oh, no, il pianeta d’origine è esistito, naturalmente, questo è fuori discussione.

Non esiste più adesso: non c’è più una Terra abitata, la popolazione è scomparsa.

Pelorat disse, impassibile: — Ci sono leggende che...

— Scusate un attimo, Janov — disse Trevize, interrompendolo. — Come fai a sapere queste cose, Compor?

— Come sarebbe a dire? Lo so per via delle mie ascendenze, naturalmente. I miei antenati provenivano dal Settore Sirio, se mi è consentito ripeterlo senza annoiarti. Là si sa tutto sulla Terra perché essa fa parte di quel settore, il che significa che non appartiene alla Federazione della Fondazione. Per questo, credo, su Terminus la snobbino. Però resta il fatto che si trova là.

— Sì, questa è una delle ipotesi — disse Pelorat. — la cosiddetta “Alternativa Sirio” godeva di una grande popolarità, all’epoca dell’Impero.

— Non si tratta di un’alternativa, ma di un fatto — disse Compor con foga.

— E se vi dicessi che più di un pianeta della Galassia è, od era, chiamato Terra dalle popolazioni abitanti nei suoi dintorni stellari? — disse Pelorat.

— Ma quello che dico io è il pianeta vero — replicò Compor. — Il Settore Sirio è quello abitato da più lunga data, lo sanno tutti.

— Sì, questo è quanto sostengano i siriani — disse Pelorat, impassibile.

Compor appariva frustrato. — Vi assicuro che...

— Dicci cosa sia successo alla Terra — lo interruppe Trevize. — Come mai non è più abitata?

— Per via della radioattività: l’intera superficie planetaria è radioattivata a causa di reazioni nucleari che sfuggirono al controllo, oppure di esplosioni nucleari, non so bene... In una parola, la vita non è più possibile, sul pianeta.

I tre si guardarono l’un l’altro per un po’. Alla fine Compor ritenne opportuno ribadire la sua opinione. — Non esiste la Terra come mondo abitato, ve l’assicuro — disse. — Non ha senso mettersi a cercarla.

2

Una volta tanto, la faccia di Janov Pelorat non era inespressiva. Non che vi si leggesse qualche passione, o una delle emozioni più trepide. Vi si leggeva solo una sorta di fiera intensità, che invadeva ogni più piccola parte del volto e che era data dal restringersi degli occhi.

Con tono di voce in cui non si avvertiva minimamente il consueto approccio conciliante, lo studioso disse: — E come le sapete, voi, queste cose?

— Ve l’ho già detto — disse Compor. — Per via delle mie ascendenze.

— Non diciamo sciocchezze, giovanotto — Siete un consigliere, ciò significa che dovete essere nato su uno dei pianeti della Federazione. Ed infatti mi pare che prima abbiate detto di essere originario di Smyrno.

— Esatto.

— E allora di che ascendenze mi parlate? Non vorrete mica darmi ad intendere di possedere geni siriani che vi diano una conoscenza innata dei miti siriani riguardanti la Terra, vero?

— No. No, naturalmente, — disse Compor, colto di sorpresa.

— Allora che cos’è che intendete dire con la storia delle ascendenze?

Compor restò un attimo in silenzio, come per raccogliere le idee. — La mia famiglia possiede antichi libri di storia siriana — disse poi. — La mia è un’eredità esterna, non interna. Di queste cose non parliamo con gli estranei, specie se desideriamo avanzare nella carriera politica. Trevize sembra credere che io pensi solo alla carriera, ma non vi parlerei di un simile argomento se non vi considerassi amici.

C’era una traccia di amarezza nella sua voce. — In teoria — continuò, — tutti i cittadini della Fondazione sono uguali, ma quelli provenienti dai mondi più antichi della Federazione sono più uguali di quelli provenienti dai meno antichi, e quelli che traggono la loro origine dai pianeti estranei alla Federazione sono i meno uguali di tutti. Ma non importa. A parte il discorso dei libri, una volta ho visitato i mondi colonizzati per primi. Trevize... ehi, dove vai?

Trevize si era diretto verso un angolo della sala e si era messo a guardare da una finestra triangolare, concepita così per lasciar vedere all’osservatore più cielo che città e per esaltare in lui più le esigenze interiori che quelle mondane. Si alzò in punta di piedi per vedere meglio sotto, poi ritornò dagli altri due attraversando la sala vuota.

— Ha una struttura interessante quella finestra — disse. — Mi hai chiamato, consigliere?

— Sì. Ti ricordi il giro che feci dopo la laurea?

— Me lo ricordo benissimo. Eravamo amici per la pelle, allora; la nostra era una Fondazione nella Fondazione, noi ne eravamo gli unici membri, legati da una fiducia reciproca assoluta che ci faceva da scudo contro il resto del mondo. Tu partisti per il tuo viaggio, io entrai in Marina, traboccante di patriottismo. Per qualche motivo non mi andava di fare quel giro con te; un qualche istinto mi disse di non farlo. Peccato che questo istinto non mi sia rimasto, in seguito.

Compor non raccolse la provocazione. — Visitai Comporellon, disse. — Nella mia famiglia si è sempre detto che i nostri avi venissero di là, almeno il ramo di mio padre. Ai vecchi tempi i miei antenati governavano Comporellon, prima che l’Impero li assorbisse; il mio nome, od almeno così si dice nella mia famiglia, viene appunto da quel pianeta. La stella intorno a cui gira Comporellon ha un nome antico ed assai poetico: Epsilon Eridani.

— Che cosa significa? — chiese Pelorat.

Compor scosse la testa. — Non so, non credo che abbia alcun significato. È solo un nome che deriva dalla tradizione. Là la tradizione è molto importante perché è un mondo antico. Hanno una documentazione minuziosa ed esauriente sulla storia della Terra, ma nessuno ne parla molto: sono superstiziosi. Ogni volta che menzionano la Terra, alzano le mani incrociando l’indice e il medio: è un gesto fatto per tenere lontana la sventura.

— Avete raccontato a nessuno questo fatto, quando siete tornato?

— No, naturalmente: a chi poteva interessare? Non avevo alcuna intenzione di costringere la gente ad ascoltare una storia del genere. Figuriamoci! Avevo una carriera politica davanti a me, e l’ultima cosa che volevo era mettere l’accento sulle mie origini straniere.

— Ed il satellite? — disse Pelorat, brusco. — Provate un po’ a descrivermi il satellite della Terra.

Compor apparve sbalordito. — Non ne so niente.

— Ne ha uno.

— Non ricordo di avere mai letto o sentito dire che abbia un satellite. Ma sono sicuro che se consulterete i documenti che ci sono su Comporellon, avrete la risposta.

— Ma voi non ne sapete nulla?

— No, del satellite no. Od almeno non ricordo proprio.

— Uhm. E come ha fatto la Terra a diventare radioattiva?

Compor scosse la testa e rimase zitto.

— Pensateci bene — disse Pelorat. — Ne avrete pur sentito parlare.

— Il viaggio lo feci sette anni fa, professore. Allora non sapevo che un giorno mi avreste rivolto queste domande. Mi pare che ci fosse una specie di leggenda, che loro consideravano storia...

— Che leggenda?

— Una leggenda che raccontasse come la Terra, un mondo radioattivo boicottato e maltrattato dall’Impero e con una popolazione sempre più scarsa, si accingesse in qualche modo a distruggere l’Impero stesso.

— Un mondo in decadimento che si accinga a distruggere l’Impero? — disse Trevize, intervenendo nella conversazione.

— Ho detto che si tratta di una leggenda — si scusò Compor. — Non ricordo i dettagli. So che nella storia c’entrasse Bel Arvadan.

— Chi è?

— Un personaggio storico, ho controllato nei documenti. Era un archeologo fedele alla Galassia, vissuto ai primi tempi dell’Impero: sosteneva che la Terra si trovasse nel Settore Sirio.

— L’ho sentito nominare — disse Pelorat.

— Su Comporellon è considerato un eroe popolare. Sentite, se volete sapere tutte queste cose, andate su Comporellon. Non ha senso che stiate qui a ciondolare.

— In che modo la Terra avrebbe potuto distruggere l’Impero? — chiese Pelorat.

— Non lo so — disse Compor, con tono leggermente infastidito.

— C’entravano in qualche modo le radiazioni?

— Non lo so. Certe storie parlano di un espansore mentale messo a punto sulla Terra. Un sinapsificatore, o qualcosa del genere.

— E questo aggeggio sarebbe stato in grado di creare supermenti? — chiese Pelorat con tono di assoluta incredulità.

— No, non penso. Da quanto ne sappia non funzionava: la gente diventava più intelligente, però moriva giovane.

— Si tratta probabilmente di una leggenda con scopi di edificazione morale — disse Trevize. — Se si vuole troppo, si perde anche ciò che si ha...

Pelorat si rivolse a Trevize con aria infastidita. — Che ne sapete, voi, di leggende edificanti?

Trevize alzò le sopracciglia. — Non sarò molto forte nel vostro campo, Janov, ma questo non significa che sia completamente ignorante.

— Cos’altro ricordate a proposito del sinapsificatore, consigliere Compor? — domandò Pelorat.

— Niente, e non intendo sottostare ulteriormente a questo interrogatorio. Sentite, vi ho seguito dietro ordine del sindaco. Non mi è stato ordinato di avvicinarvi e parlarvi. L’ho fatto solo per avvertirvi che eravate seguiti e per dire a te, Trevize, che la Branno ti sta usando come esca per i suoi fini, quali che siano. Non avrei dovuto discutere di nient’altro con te, ma mi hai sorpreso tirando fuori d’un tratto l’argomento Terra. In ogni modo lascia che ti ripeta che Bel Arvadan, il sinapsificatore e tutto il resto, se mai sono esistiti, non hanno più nulla a che vedere col presente. La Terra è un mondo morto, te lo ripeto per l’ennesima volta. Ti consiglio di andare su Comporellon, dove saprai tutto quello che vuoi sapere. Vai via di qui, ed in fretta.

— E naturalmente tu, ligio, riferirai al sindaco che siamo diretti su Comporellon e ci seguirai per assicurarti che così sia veramente. Ma forse il sindaco lo sa già.

Immagino che ti abbia dato precise istruzioni, che ti abbia fatto imparare a memoria le cose che ci hai appena detto: è lei, è la Branno che ci vuole su Comporellon per i suoi scopi, vero?

Compor impallidì. Si alzò in piedi e per poco non balbettò, nel tentativo di controllare il tono di voce. — Ho cercato di spiegarti le mie ragioni. Ho cercato di rendermi utile. Non avrei dovuto nemmeno provare: per me puoi anche andare a buttarti in un buco nero, Trevize.

Girò sui tacchi e si allontanò in fretta, senza voltarsi indietro.

Abbastanza sconcertato, Pelorat disse: — Siete stato poco diplomatico, Golan, amico mio. Avrei potuto tirargli fuori altre notizie...

— No — disse Trevize, serio — Non gli avreste tirato fuori niente che non fosse già disposto a farvi sapere. Janov, non avete idea di che razza d’uomo sia Compor, e fino ad oggi, nemmeno io avevo idea di chi fosse veramente.

Pelorat aveva paura di disturbare Trevize, che sedeva immobile assorto nei suoi pensieri.

Alla fine però si decise a parlare. — Dobbiamo starcene seduti qui tutta la sera, Golan?

Trevize trasalì. — No, Janov, avete perfettamente ragione: staremo molto meglio in mezzo alla gente. Venite!

Pelorat si alzò. — Gente ne troveremo poca — disse. — Compor ha detto che oggi è un giorno dedicato alla meditazione, se ho capito bene.

— Ha detto così? Per la strada, venendo qui, abbiamo incontrato traffico?

— Sì, abbastanza.

— A me sembra che fosse parecchio. E quando siamo entrati in città, l’abbiamo trovata deserta?

— No, non particolarmente. Però dovete ammettere che questo centro turistico sia ben poco frequentato.

— Sì, me ne sono accorto. Ma andiamo adesso, Janov. Ho fame. Ci sarà pure qualche posto dove si mangi: possiamo permettercene uno buono. In ogni caso, uno dove si mangino specialità sayshelliane lo troveremo sicuro. E se ci perderemo d’animo potremo sempre cavarcela con i tipici menu galattici. Venite, una volta che saremo in un ambiente sicuro, vi dirò la mia opinione sull’accaduto.

3

Trevize si appoggiò allo schienale della sedia con animo piacevolmente rinfrancato. Il ristorante non era caro, almeno secondo gli standard di Terminus, ma era sicuramente insolito. Era riscaldato in parte da un fuoco allo stato libero, sopra il quale veniva cotto il cibo. La carne, che veniva servita in piccolissime porzioni ed era accompagnata da varie salse piccanti, andava raccolta con le dita. Per evitare di scottarsi e di ungersi, i clienti usavano, per prendere il cibo, foglie verdi, fredde ed umide al tatto e che sapevano vagamente di menta.

Per ciascun pezzetto di carne ci si serviva di una foglia intera, che andava mangiata anch’essa. Il cameriere aveva spiegato con cura come si svolgesse l’operazione. Abituato chiaramente a clienti di altri pianeti, aveva sorriso con aria paterna quando Trevize e Pelorat avevano raccolto con cautela i pezzetti di carne bollente, ed aveva contemplato con gioia il sollievo mostrato dai due clienti quando questi avevano scoperto che le foglie impedivano alle dita di scottarsi e raffreddavano anche la carne mentre si masticava.

— Deliziosa! — disse Trevize, e alla fine ne ordinò una seconda porzione. Pelorat fece altrettanto.

Poi indugiarono sopra un dolce soffice e per nulla stucchevole, e su una tazza di caffè che aveva il sapore amarognolo dello zucchero caramellato. Scossero la testa perplessi e vi aggiunsero un po’ di sciroppo, al che fu il cameriere a scuotere la testa perplesso.

— Allora, qual è la vostra opinione su quanto è accaduto al centro turistico? — disse Pelorat.

— Intendete dire con Compor?

— Perché, abbiamo per caso discusso con qualcun altro?

Trevize si guardò intorno. Si trovavano in un séparé che consentiva loro di mantenere una privacy discreta anche se limitata. Il ristorante però era affollato, ed il brusio di fondo offriva un’ottima copertura.

— Non è strano che ci abbia seguito fin qui? — disse Trevize.

— Ha detto di avere una particolare intuizione; riesce persino ad indovinare la direzione che stia per prendere una nave che entri nell’iperspazio.

— Sì, all’università era campione di inseguimento nell’iperspazio, e fino ad oggi questo non mi era mai parso strano. In effetti, si può capire dove uno sia diretto da come si prepari per il Balzo, basta avere riflessi pronti ed una buona esperienza. Ma come si può pensare che uno possa intuire la dinamica di una serie di Balzi? Ci si può preparare solo per il primo: è il computer che programma tutti gli altri. L’inseguitore può indovinare quindi la prima tappa, ma per quale magia potrà mai indovinare cosa abbia progettato il computer?

— Però Compor l’ha fatto, Golan.

— Sì, certo — disse Trevize — e questo gli poteva riuscire solo in un caso: nel caso che sapesse già dove saremmo andati. Che lo sapesse, non che ci arrivasse con ragionamento o l’intuizione.

— Ma è assolutamente impossibile — disse Pelorat, dopo avere riflettuto. — Come poteva saperlo? Abbiamo scelto la nostra destinazione solo dopo essere saliti a bordo della “Far Star”.

— Lo so. E che ne dite di questa “giornata della meditazione”?

— Compor non ci ha mentito: il fatto ci è stato confermato dal cameriere.

— Sì, però il cameriere ci ha anche spiegato perché il ristorante non fosse chiuso.

«Sayshell City non è la brughiera: qui non chiudiamo», ha detto. In altre parole, la gente medita, sì, ma non nelle città grandi, dove è smaliziata e non devota come nei paesi. Ecco perché c’è traffico e c’è folla. Meno traffico e meno folla degli altri giorni, forse: ma l’ambiente è sempre vivace.

— Però non è entrato nessuno al centro turistico, a parte noi. L’avete notato, Golan?

— Sì. Ad un certo punto sono anche andato a guardare fuori dalla finestra per vedere come fosse la situazione nel resto della città, ed ho constatato che nelle strade del centro il movimento fosse più che discreto. Eppure lì dov’eravamo noi non è entrato nessuno. La giornata della meditazione ha fornito un’ottima copertura. Certo, non ci sarebbe parsa strana tutta la privacy che ci è stata elargita se io avessi deciso di fidarmi di quel figlio di due stranieri...

— Allora che conclusioni si possono trarre da questa storia? — disse Pelorat.

— Conclusioni semplici, Janov: Compor conosce la nostra meta un attimo dopo che l’abbiamo scelta, anche se ci troviamo su astronavi diverse. E se vuole parlare in santa pace con le persone con cui deve parlare, riesce anche a far restare vuoto un edificio aperto al pubblico.

— Non vorrete farmi credere che sappia compiere i miracoli?

— Certo, può ben compierli se è un agente della Seconda Fondazione ed è in grado di controllare le menti e di leggere in esse anche quando si trovino su astronavi lontane. Ed uno che può passare da una stazione di dogana in un attimo, atterrare gravitazionalmente senza incorrere nelle ire delle pattuglie di confine che lo hanno visto infischiarsene dei fasci direzionali, influenzare la mente delle persone così da indurle a non entrare in un certo edificio, è molto facile che sia un agente della Seconda Fondazione.

«Per tutte le stelle — continuò Trevize, senza nascondere la rabbia, — se penso al passato, capisco tante cose. Ricordo che all’epoca del suo viaggio io non desideravo andare con lui. Forse influenzò la mia mente perché non lo seguissi: doveva partire solo, evidentemente. Per andare dove, in realtà?

Pelorat scostò i piatti, come se volesse fare spazio intorno a sé per pensare più liberamente. Quel gesto fece scattare il robocameriere, un tavolo semovente che si avvicinò loro ed aspettò che gli posassero sopra i piatti sporchi.

Quando l’operazione fu terminata, Pelorat disse: — Ma è assurdo. Niente di ciò che è successo richiede una spiegazione che non sia naturale. Se uno si mette in testa che qualcuno controlli gli avvenimenti, finisce per interpretare tutto quanto alla luce di questa convinzione e per dubitare di ogni cosa. Su, amico, non avete nessuna prova, si tratta soltanto di un’idea: non fatevi prendere dalla paranoia.

— Non intendo nemmeno farmi prendere dall’ottimismo ingenuo.

— Be’, esaminiamo un po’ la faccenda con gli strumenti della logica. Supponiamo che Compor sia davvero un agente della Seconda Fondazione. Perché allora avrebbe corso il rischio di sollevare i nostri sospetti mantenendo vuoto il centro turistico? In fondo, non ha detto niente di così importante da non poter essere sentito da estranei.

Tanto più che gli estranei che fossero entrati sarebbero stati certo maggiormente interessati ai fatti loro che ai nostri.

— È facile rispondere alla vostra obiezione. Janov. Compor doveva tenere le nostre menti sotto stretta osservazione e l’interferenza di altre menti sarebbe stata deleteria. Non voleva rumore di fondo, confusione.

— È una spiegazione arbitraria, Golan. Che cosa c’era di tanto importante nella conversazione che abbiamo avuto? È assai più ragionevole pensare che ci abbia avvicinato solo per spiegare quello che avesse fatto, per scusarsi e per avvertirci dei possibili pericoli che ci aspettino. Non è più sensato credere che ci abbia detto la verità? Che bisogno c’è di arzigogolare tanto sulla questione?

Il piccolo quadrante sull’orlo del tavolo brillò con discrezione e sopra vi comparvero, luminose, le cifre del conto. Trevize cercò sotto la fusciacca la carta di credito della Fondazione, che era valida in tutta la Galassia e in generale in qualunque luogo un cittadino della Fondazione potesse andare. La infilò nell’apposita fessura.

L’operazione di pagamento richiese solo un attimo. Trevize, con la cautela che gli era innata, controllò la carta prima di rimetterla in tasca.

Si guardò intorno con noncuranza per assicurarsi che nessuna delle persone ancora presenti nel ristorante fosse interessata a lui, poi disse: — Che bisogno c’è di arzigogolare, dite? Dimenticate che Compor ha parlato anche della Terra. Ci ha detto che è un pianeta morto e ci ha invitato caldamente a recarci su Comporellon. Secondo voi dovremmo andarci?

— Ci ho riflettuto sopra, Golan — ammise Pelorat.

— E pensate che sia il caso di andarcene di qui?

— Possiamo tornare dopo avere controllato il Settore Sirio.

— Non vi viene in mente che Compor possa averci parlato unicamente per allontanarci da Sayshell, per farci visitare qualsiasi posto ma non questo settore?

— E perché dovrebbe desiderare di allontanarci da Sayshell?

— Non so. Vedete, si aspettavano che andassimo su Trantor, era quello che volevate fare voi e forse erano sicuri che ci dirigessimo lì. Io ho mandato a monte i loro piani insistendo perché venissimo qui, cosa che non desideravano assolutamente.

Adesso il loro scopo è quello di spedirci via da Sayshell.

Pelorat aveva un’aria chiaramente afflitta. — Ma Golan, le vostre sono affermazioni arbitrarie: perché non dovrebbero volere che rimaniamo su Sayshell?

— Non lo so, Janov. Ma mi è sufficiente sapere che ci vogliono lontano di qui per essere determinato a restare: non mi muoverò.

— Ma... Sentite, se quelli della Seconda Fondazione intendessero farci partire, non basterebbe loro influenzare la nostra mente così da farci decidere di partire?

Perché mai dovrebbero disturbarsi a discutere con noi?

— Ora che ci penso, non è proprio così che hanno agito con voi, professore? — disse Trevize, stringendo gli occhi con aria sospettosa. — Non è forse vero che adesso siate intenzionato a partire?

Pelorat lo guardò sorpreso. — Mi sembra semplicemente ragionevole, tutto qui.

— Se siete stato influenzato, è naturale che la pensiate così.

— Ma io non sono stato...

— Chiunque fosse stato influenzato sarebbe pronto a giurare di non esserlo stato.

— Se mi chiudete con le parole ogni via d’uscita, non ho modo di confutare le vostre asserzioni: che cosa faremo, allora?

— Rimarrò su Sayshell, e ci rimarrete anche voi. Non potete pilotare la nave senza di me: se Compor vi ha influenzato, ha influenzato la persona sbagliata.

— Benissimo Golan. Resteremo su Sayshell finché la nostra decisione di partire non sarà autonoma. Dopotutto, la cosa peggiore che possiamo fare, peggiore che restare o andarcene, è litigare. Via, amico mio, se fossi stato condizionato dall’esterno potrei cambiare così facilmente idea ed assecondarvi allegramente, come sto facendo adesso?

Trevize rifletté un attimo e poi, come se internamente si fosse scrollato di dosso qualcosa, sorrise e tese la mano. — D’accordo, Janov. Ora torniamo alla nave e decidiamo il programma per domani, se ci riesce di pensarne uno.

4

Munn Li Compor non ricordava quando fosse stato reclutato, in primo luogo perché all’epoca in cui questo era successo era un bambino e in secondo luogo perché gli agenti della Seconda Fondazione cancellavano il più possibile ogni traccia del loro intervento.

Compor era un Osservatore, e per un appartenente alla Seconda Fondazione era subito riconoscibile come tale.

Essere Osservatori significava conoscere la mentalica e saper conversare con i membri della Seconda Fondazione nella maniera usata da loro, ma significava anche trovarsi ai gradi più bassi della gerarchia. Compor era in grado di entrare in parte nella mente degli altri, ma non di influenzarla. L’addestramento che aveva ricevuto non gli aveva consentito di arrivare oltre un certo punto: era un Osservatore, non un Operatore.

Nella migliore delle ipotesi quindi era una persona di seconda classe, ma questo non gli importava molto: era conscio del proprio ruolo nello schema delle cose.

Nei primi secoli della sua esistenza, la Seconda Fondazione aveva sottovalutato l’entità del compito che l’attendesse. Aveva creduto che i suoi pochi membri potessero controllare l’intera Galassia, e che per mantenere in funzione il Piano Seldon bastassero solo piccoli interventi saltuari.

Il Mulo le aveva tolto quest’illusione. Venuto fuori dal nulla, aveva preso la Seconda Fondazione (e naturalmente anche la Prima, benché ciò importasse poco) completamente di sorpresa, e l’aveva ridotta in suo potere. Ci erano voluti cinque anni per organizzare il contrattacco e quando questo c’era stato, il costo in vite umane si era rivelato troppo alto.

Alla fine, con Palver, ci si era ripresi del tutto, anche se ad un prezzo elevato.

Palver aveva preso i provvedimenti giusti; aveva pensato che la Seconda Fondazione dovesse estendere enormemente la sua rete di operazioni, evitando però di farsi individuare: per questo aveva istituito il corpo degli Osservatori.

Compor non sapeva quanti Osservatori ci fossero nella Galassia e nemmeno quanti ce ne fossero su Terminus. Era una cosa che non lo riguardava. In teoria non dovevano esserci collegamenti tra due diversi Osservatori, perché la perdita dell’uno non comportasse anche quella dell’altro. Tutti i collegamenti avvenivano con le squadre di livello superiore, che si trovavano su Trantor.

L’aspirazione di Compor era quella di andare un giorno su Trantor. Riteneva estremamente improbabile di riuscirci, però sapeva che a volte qualche Osservatore veniva condotto là e promosso. Certo, questo avveniva raramente; le qualità necessarie ad uno come lui erano le stesse che davano diritto ad entrare a far parte della Tavola.

Tra i fortunati c’era Gendibal a esempio, che aveva quattro anni meno di Compor.

Era stato reclutato da bambino, proprio come lui, ma era stato condotto direttamente su Trantor e adesso era diventato Oratore. Compor sapeva che questa fortuna aveva la sua ragion d’essere e non si faceva illusioni su se stesso. Negli ultimi tempi era stato molto in contatto con Gendibal ed aveva sperimentato la sua forza mentale. Non avrebbe mai potuto tenergli testa, neanche per un secondo.

Raramente Compor si sentiva frustrato per la propria posizione di inferiorità anche perché non aveva quasi mai motivo di rifletterci su. Dopotutto, la sua posizione (come quella degli altri Osservatori) era inferiore solo secondo il metro di Trantor.

Gli Osservatori riuscivano ad ottenere facilmente alte cariche nei loro mondi non-trantoriani e nelle loro società non-mentaliche.

Lui, ad esempio, non aveva avuto difficoltà a frequentare buone scuole e a trovare buone compagnie. Per accrescere le sue capacità intuitive innate (quelle che, ne era convinto, avevano indotto la Seconda Fondazione a reclutarlo) aveva usato la mentalica, naturalmente nel modo più semplice, ed era riuscito così a diventare una stella dell’inseguimento iperspaziale. All’università era diventato una specie di eroe e questo gli aveva permesso di muovere i primi passi in politica. Una volta che il periodo di crisi fosse finito, probabilmente sarebbe riuscito ad avanzare nella carriera, e non di poco.

Se la crisi si fosse risolta felicemente, il che era pressoché certo, si sarebbero dovuti ricordare che era stato lui, Compor, a notare per primo Trevize. A notarlo non come essere umano (cosa che chiunque era in grado di fare), ma come mente...

Compor aveva incontrato Trevize per la prima volta all’università ed in un primo tempo l’aveva considerato soltanto un compagno allegro ed intelligente. Un giorno, però, mentre era assorto nel flusso di coscienza che s’accompagna a quella terra di nessuno che è il dormiveglia aveva provato rammarico per il fatto che Trevize non fosse stato reclutato.

Trevize non avrebbe mai potuto essere reclutato, ovviamente, perché era nato su Terminus; non era, come Compor, oriundo di un altro pianeta. E in ogni caso, a parte quello, aveva già superato i termini posti dall’età. Solo i giovanissimi erano abbastanza malleabili da poter essere educati alla mentalica; l’applicazione, dolorosa, di quell’arte (poiché era più di una scienza) al cervello adulto, cristallizzato nella sua struttura, era stata fatta soltanto nei cinquant’anni susseguenti alla morte di Seldon.

Trevize dunque non avrebbe mai potuto in alcun modo essere reclutato dalla Seconda Fondazione. Eppure Compor, nei suoi pensieri, si era rammaricato di questo.

Come mai?

La volta successiva in cui l’aveva incontrato, era penetrato nel profondo della sua mente ed aveva scoperto quello che l’aveva incuriosito e turbato. La mente di Trevize aveva caratteristiche che non si conciliavano con le regole che erano state insegnate a Compor. Riusciva a sfuggire all’analisi e presentava come dei vuoti, che non erano però vuoti reali, frammenti di non-essere. Si trattava piuttosto di punti in cui la struttura mentale scendeva così in profondità da non poter più essere seguita.

Compor non aveva modo di stabilire cosa significasse quel fatto, ma osservando il comportamento di Trevize alla luce di quanto aveva scoperto, aveva cominciato a sospettare che il suo compagno d’università avesse la singolare capacità di arrivare alle conclusioni giuste partendo da quello che pareva un numero insufficiente di dati.

Si era chiesto se questo avesse qualcosa a che vedere con i vuoti, e aveva concluso di non essere all’altezza di dare una risposta. Occorrevano conoscenze mentaliche ben superiori alle sue. La sua impressione era che i poteri decisionali di Trevize fossero così vasti da non essere interamente noti nemmeno a Trevize stesso.

Questo fatto, si era detto, poteva essere pericoloso, anche se non sapeva spiegarsene il perché. Pensando che Trevize potesse essere estremamente importante, aveva deciso di agire e di affrontare il rischio di essere giudicato inadatto al titolo di Osservatore.

Dopotutto, se la sua intuizione fosse stata giusta, avrebbe potuto ottenere dei vantaggi.

Volgendosi ora indietro a considerare l’accaduto, non riusciva quasi a capacitarsi di come avesse trovato il coraggio di proseguire nei suoi sforzi. Penetrare oltre la barriera burocratica che circondava la Tavola era impossibile. Così, rassegnandosi all’idea che la sua reputazione potesse soffrirne irreparabilmente, si era risolto (con un senso di disperazione) a rivolgersi al membro più giovane della Tavola, il quale, alla fine, aveva risposto al suo appello.

Stor Gendibal l’aveva ascoltato pazientemente e da allora si era instaurato fra loro un rapporto di collaborazione. Era stato dietro istruzioni di Gendibal che Compor aveva mantenuto viva la sua relazione di amicizia con Trevize e scatenato gli eventi che avevano portato all’esilio del consigliere. Ed era sempre attraverso Gendibal che Compor poteva ancora sperare di perseguire il suo sogno di un futuro su Trantor.

Secondo i piani, però, Trevize si sarebbe dovuto recare su Trantor. Il suo rifiuto di scegliere Trantor come meta aveva colto completamente di sorpresa Compor e probabilmente (pensava lo stesso Compor) non era stato previsto nemmeno da Gendibal.

In ogni modo, Gendibal adesso stava arrivando lì in gran fretta, fatto che acuiva il suo senso di disagio. Fu con quello stato d’animo combattuto che Compor spedì il suo ipersegnale.

5

Gendibal si sentì toccare la mente e si svegliò. Il tocco era efficace, ma per niente fastidioso. Era diretto solo verso il centro del risveglio, che infatti fu l’unico a reagire.

Gendibal si tirò su a sedere nel letto, e il lenzuolo, scivolando, gli lasciò scoperto il busto ben fatto e muscoloso. Aveva riconosciuto il tocco; i mentalisti riconoscevano quel genere di sfumature allo stesso modo in cui le persone che comunicavano coi suoni riconoscevano le voci.

Rispose con il segnale standard chiedendo se ci fosse urgenza, e ricevette risposta negativa.

Cominciò allora le operazioni del mattino senza fretta. Era ancora sotto la doccia (l’acqua usata della nave finiva nei meccanismi di riciclaggio) quando si rimise in contatto col suo corrispondente.

— Compor?

— Sì, Oratore.

— Avete parlato con Trevize ed il suo compagno?

— Si chiama Pelorat, Janov Pelorat. Sì, Oratore.

— Bene. Datemi altri cinque minuti e stabilirò il contatto visivo.

Gendibal passò accanto a Sura Novi mentre si dirigeva verso i comandi. La hamiana lo guardò con aria interrogativa e stava per parlare, ma lui portò l’indice alle labbra invitandola a tacere. Gendibal avvertiva ancora un certo disagio davanti all’intensa adorazione ed al grande rispetto che coglieva nella mente di lei. Però era quasi giunto a considerare quei sentimenti primitivi come parte integrante (e nemmeno spiacevole) dell’ambiente che lo circondava.

Aveva collegato una piccola fibra della propria mente con le fibre di lei ed adesso nessuno avrebbe potuto influenzare la mente dell’uno senza influenzare anche la mente dell’altra. La semplicità della mente di Sura (e Gendibal non poteva negare che contemplarne la simmetria disadorna procurasse un enorme piacere estetico) impediva nel modo più assoluto ad un campo mentale estraneo di avvicinarsi senza essere individuato. Era contento di essersi comportato gentilmente con la donna, dopo l’attacco di Rufirant, perché la sua gentilezza l’aveva indotta a tornare da lui proprio nel momento in cui gli si era rivelata di grande aiuto.

— Compor? — disse.

— Sì, Oratore?

— Rilassatevi, prego. Devo studiare la vostra mente. Senza offesa, è un controllo necessario.

— Come volete, Oratore. Posso chiedervi il perché di questo controllo?

— Devo assicurarmi che non siate stato influenzato.

— So che avete degli avversari politici alla Tavola, Oratore, ma certo nessuno di loro...

— Lasciate stare le elucubrazioni. Rilassatevi. No, la vostra mente non è stata toccata. Ora, se collaborerete con me, stabiliremo il contatto visivo.

Il contatto visivo era, nel senso comune della parola, un’illusione, dal momento che solo un membro della Seconda Fondazione, educato alla mentalica, avrebbe potuto distinguere qualcosa con i sensi o con apparecchi di rilevamento.

Si traeva un’immagine dai contorni della mente: l’immagine di un viso. Non era facile, anche il migliore dei mentalisti a volte riusciva a produrre soltanto una forma vaga ed indistinta. Il volto di Compor adesso era proiettato nello spazio ed appariva al suo corrispondente come dietro ad un velo in movimento. Allo stesso modo il volto di Gendibal appariva a Compor.

Con le iperonde fisiche la comunicazione visiva che si poteva produrre fra persone che si trovassero a migliaia di parsec di distanza era così perfetta, da creare l’impressione di un normale contatto diretto. E la nave di Gendibal aveva le apparecchiature necessarie a quel tipo di comunicazione. Ma la visione mentalica presentava dei vantaggi, primo fra tutti quello di non poter essere intercettata dai congegni tecnici della Prima Fondazione. D’altra parte, nemmeno un membro della Seconda Fondazione poteva intercettare la visione mentalica di un altro. Era, sì, possibile captare la rappresentazione della mente, ma non cogliere i sottili mutamenti di espressione che costituivano il succo della comunicazione.

Quanto agli Anti-Muli... Be’, il fatto che la mente di Novi fosse intatta dimostrava che non ci fossero pericoli incombenti.

— Compor — disse Gendibal, — raccontatemi esattamente, al livello mentale, la conversazione che avete avuto con Trevize e con quel Pelorat.

— Certo, Oratore — disse Compor.

Non ci volle molto. La combinazione di suoni, espressioni e mentalismo condensava notevolmente la materia, nonostante il fatto che ci fossero ben più cose da dire a livello mentale che a livello di linguaggio di suoni.

Gendibal osservò attentamente l’immagine di Compor. Nella visione mentalica la ridondanza era minima, se non addirittura nulla. Nelle visioni vere, od anche in quelle trasmesse nello spazio attraverso le iperonde, le unità informative erano enormemente sovrabbondanti rispetto a quante fosse strettamente necessario per la comprensione, e se uno ne perdeva anche un gran numero non rischiava con questo di lasciarsi sfuggire sfumature importanti.

Nella visione mentalica, invece, si aveva sì l’assoluta sicurezza di non essere intercettati, ma non ci si poteva permettere il lusso di lasciarsi sfuggire qualche unità informativa. Tutte erano sommamente significanti.

Gli istruttori, su Trantor, amavano raccontare agli studenti storie orrorifiche che avevano lo scopo di far capire loro l’importanza della concentrazione. Quella più famosa era anche la meno credibile. Parlava dei primo rapporto riguardante le imprese del Mulo ricevuto prima che questi conquistasse Kalgan. Il rapporto era stato ricevuto da un funzionario di grado piuttosto basso, il quale aveva creduto che il messaggio parlasse di un equino: non aveva infatti veduto o afferrato la piccola sfumatura visiva che significava “nome della persona”. Aveva quindi pensato che l’informazione fosse troppo poco importante per essere trasmessa a Trantor. Quando era arrivato il messaggio successivo, ormai era troppo tardi per intraprendere un’azione immediata ed erano passati cinque anni amari prima della ripresa.

Il fatto quasi sicuramente non era mai successo, ma questo non importava. Era una storia paradossale che incitava gli studenti ad abituarsi alla concentrazione più assoluta. Gendibal si ricordava ancora di quando, da ragazzo, aveva commesso un errore nella ricezione di un messaggio e aveva interpretato male un particolare che gli era parso tanto insignificante quanto incomprensibile. Il suo insegnante, il vecchio Kendast, un tiranno che tormentava la mente fino alle radici del cervelletto, si era limitato a dire con un sogghigno: — Un equino, eh, Pivello Gendibal? — E questo era bastato a far precipitare Gendibal negli abissi della vergogna.

Compor terminò il suo resoconto.

— Quali sono state secondo voi le reazioni di Trevize? — disse l’Oratore. — Lo conoscete meglio di me, meglio di chiunque altro...

— Le indicazioni mentaliche erano inconfondibili — disse Compor. — Trevize ha dedotto dai miei discorsi e dal mio comportamento che sono ansioso di spedirlo su Trantor o nel Settore Sirio, in una parola in qualsiasi posto che non sia quello da lui scelto. Ciò significa, a mio avviso, che rimarrà dove si trova. Il fatto che gli abbia consigliato caldamente di spostarsi altrove gli ha fatto pensare che questo sia il mio interesse e l’ha indotto ad agire in un modo che crede contrastante con esso.

— Ne siete certo?

— Certissimo.

Gendibal ci rifletté un poco, e decise che Compor avesse ragione. — Sono soddisfatto — disse. — Avete proceduto ottimamente. Siete stato abile a scegliere quella storia della distruzione radioattiva della Terra; così avete prodotto la reazione giusta senza bisogno di ricorrere alla manipolazione mentale diretta. Bravo!

Per un breve attimo Compor parve lottare con se stesso.

— Oratore, — disse, — non posso accettare le vostre lodi. La storia non l’ho inventata: è vera. C’è sul serio un pianeta chiamato Terra nel Settore Sirio, ed è considerato sul serio il pianeta d’origine dell’umanità. È radioattivo. Non so se sia stato così fin dall’inizio o se lo sia diventato; so solo che la radioattività è cresciuta sempre di più, finché ogni forma di vita è scomparsa. Anche l’espansore mentale è esistito davvero, benché non abbia prodotto conseguenze. Tutto questo è considerato storia sul pianeta da cui provengono i miei antenati.

— Ah sì? Interessante — disse Gendibal, che però appariva non troppo convinto.

— Meglio ancora, dunque. È bene sapere quando una verità ci può servire, visto che è impossibile servirsi di una bugia con la stessa convinzione con cui si usi il suo contrario. Palver una volta ha detto: «più la menzogna è vicina alla verità, più è efficace, e la verità stessa, quando la si può usare, è la menzogna migliore».

— C’è un’altra cosa da aggiungere — disse Compor. — Ho seguito le vostre istruzioni ed ho fatto di tutto per tenere Trevize nel Settore Sayshell fino al vostro arrivo, ma i miei sforzi sono stati tali, che è ormai inevitabile che mi ritenga sotto l’influenza della Seconda Fondazione.

Gendibal annuì. — Date le circostanze, credo che questo sia effettivamente inevitabile. Trevize è così fissato con l’idea della Seconda Fondazione, che ne vedrebbe le tracce anche se non ci fossero. Dobbiamo semplicemente prendere atto della cosa e tenerne conto.

— Oratore, se è assolutamente necessario che Trevize resti dove sia finché voi non arriviate, sarebbe forse utile che vi venissi incontro, vi prendessi a bordo della mia nave e vi riportassi indietro: impiegherei meno di un giorno. ..

No, Osservatore — disse Gendibal, brusco. — Non fatelo. Quelli di Terminus sanno dove vi troviate: avete a bordo un iper-relé che non potete rimuovere, vero?

— Sì, Oratore.

— E se sanno che siete atterrato su Sayshell lo saprà anche il loro ambasciatore su Sayshell, il quale saprà pure della presenza di Trevize sul pianeta. Tramite il vostro iper-relé verrebbero subito avvertiti della vostra partenza per un luogo specifico lontano centinaia di parsec, ma l’ambasciatore li informerebbe della permanenza di Trevize sul pianeta. Che conclusioni potrebbero trarre da questo fatto? Il sindaco Branno è, a detta di tutti, una donna scaltra, e l’ultima cosa che desideriamo è metterla in allarme ponendola di fronte ad enigmi oscuri. Non vogliamo che conduca fin qui parte della sua flotta. Tra l’altro, le probabilità che lo faccia comunque sono spiacevolmente alte.

— Con tutto il rispetto, Oratore... — disse Compor. — Che motivo abbiamo di temere una flotta se siamo in grado di tenere sotto controllo il suo comandante?

— Per quanto ci sia poco da temere, c’è da temere ancor meno se la flotta non è qui. Restate dove siete, Compor. Quando arriverò, verrò a bordo della vostra nave e allora...

— E allora, Oratore?

— Allora subentrerò a voi, naturalmente.

6

Terminato il contatto visivo, Gendibal rimase seduto a riflettere per parecchi minuti.

Durante il viaggio verso Sayshell, un viaggio inevitabilmente lungo su quella nave che non poteva competere in alcun modo con quelle tecnologicamente avanzatissime della Prima Fondazione, aveva esaminato ogni singolo rapporto su Trevize. I rapporti abbracciavano un periodo di quasi dieci anni.

Considerando la questione nel suo complesso ed alla luce degli avvenimenti più recenti, risultava chiaro che Trevize sarebbe stato una recluta meravigliosa per la Seconda Fondazione, se dall’epoca di Palver non fosse stata adottata la regola di non toccare i nativi di Terminus.

Non era possibile fare una stima di quante reclute di grande valore avesse perduto la Seconda Fondazione per quel motivo; non era possibile valutare le qualità di tutti gli esseri umani della Galassia, che era popolata da quadrilioni di individui. Era però improbabile che esistesse qualcuno dotato come Trevize e certamente non esisteva nessuno che come lui avesse, oltre alle capacità eccezionali, una posizione-chiave.

Gendibal scosse leggermente la testa. Benché nato su Terminus, Trevize non avrebbe mai dovuto passare inosservato, e bisognava riconoscere a Compor il merito di essersi accorto della sua particolarità, nonostante che gli anni, plasmandolo, l’avessero reso meno riconoscibile.

Ormai naturalmente Trevize non poteva essere di alcuna utilità alla Seconda Fondazione: era troppo vecchio per essere educato alla mentalica, eppure possedeva un’intuizione innata, la capacità di pervenire ad una soluzione partendo da quantità di dati dei tutto insufficienti. Possedeva qualcosa, un quid innato.

Il vecchio Shandess, che per quanto non più nel fiore degli anni era in complesso un buon Primo Oratore, pensava che Trevize fosse l’elemento-chiave della crisi, ed a questa conclusione era giunto senza avere a disposizione i dati e le connessioni elaborati da Gendibal durante il viaggio.

Come mai il consigliere si era recato su Sayshell? Che piano aveva in testa? Che cosa si accingeva a fare?

E non lo si poteva toccare: Gendibal non aveva dubbi su quel punto. Finché non si fosse saputo esattamente quale fosse il suo ruolo, sarebbe stato deleterio cercare di influenzarlo anche di poco. Data la presenza degli Anti-Mulo (qualunque fosse la loro identità), una mossa sbagliata con Trevize, soprattutto con Trevize, poteva provocare una reazione inaspettata e di enorme gravità.

Gendibal sentì una mente vagare nelle vicinanze della propria e, distratto, la allontanò come avrebbe potuto allontanare con la mano un fastidioso insetto trantoriano. Avvertendo di colpo il flusso di dolore della mente estranea, alzò gli occhi.

Sura Novi aveva portato una mano alla fronte.

— Scusatemi, Maestro, sono colpita da improvviso mal di testa.

Gendibal si sentì in colpa. — Scusatemi voi, Novi. Ero distratto... O meglio, ero troppo concentrato in un certo pensiero. — Sciolse subito, con delicatezza, il groviglio di fibre mentali creatosi in Novi.

Novi sorrise, illuminandosi tutta. — È passato d’incanto. Il suono gentile delle vostre parole ha un effetto benefico su di me, Maestro.

— Bene — disse Gendibal. — Ditemi, c’è qualcosa che non va? Come mai siete qui? — Evitò di entrare più a fondo nella mente di lei per scoprire da solo le ragioni che avevano condotto la hamiana lì. Provava sempre più riluttanza ad invadere la sua privacy.

Novi esitò e si protese leggermente verso di lui. — Ero preoccupata. Avevate lo sguardo fisso nel vuoto, emettevate mugolii ed il vostro viso era scosso da tic. Sono rimasta impalata a guardarvi, timorosa che steste decadendo, voglio dire... che vi steste ammalando, e non sapevo cosa fare.

— No, sto benissimo, Novi, non dovete aver paura. — Le batté un colpetto rassicurante sulla mano. — Non c’è di che aver paura. Capito?

La paura, ed in genere le emozioni forti, deformavano e rovinavano in parte la simmetria della sua mente. Gendibal la preferiva calma, pacifica e felice, quella mente, ma aveva qualche ritegno a renderla tale con il proprio intervento. Novi aveva creduto che il mal di testa le fosse passato per via delle parole gentili di lui, e Gendibal era contento, in fondo, che restasse nella sua convinzione.

— Novi — disse, — potrei chiamarvi Sura?

Lei alzò gli occhi a guardarlo con aria improvvisamente afflitta. — Oh, Maestro, non fatelo!

— Ma Rufirant vi chiamava così, il giorno in cui ci conoscemmo. Ormai vi conosco abbastanza bene da...

— Sì, è vero, mi chiamava così, Maestro. È così che si parla a una ragazza che non ha un uomo, un fidanzato, a una ragazza che non è... completa. La si chiama per nome. Io mi sento più rispettata se mi chiamate Novi: è un fatto che mi onora. E se è vero che non ho un uomo, è però vero che ho un maestro, e ne sono felice. Spero non sia offensivo per voi chiamarmi Novi.

— No, certo che non lo è, Novi.

La mente di Novi a quelle parole tornò meravigliosamente simmetrica e Gendibal ne fu felice. Troppo felice: non era un po’ strano che fosse tanto felice?

Con una punta di vergogna, si ricordò che il Mulo, almeno così si raccontava, avesse provato sentimenti del genere per quella donna della Prima Fondazione, Bayta Darell, e che proprio questo l’avesse portato alla rovina.

Certo, il suo caso era diverso. La hamiana rappresentava la sua difesa contro le menti degli Anti-Muli ed a lui premeva solo che assolvesse la sua funzione nel modo migliore.

No, non era vero. Un Oratore degno della propria carica non poteva di colpo smettere di comprendere i meccanismi della propria mente o, peggio, analizzarli male apposta per evitare di riconoscere la verità. La verità, nel suo caso, era che la mente di Novi gli piaceva quando era calma e serena di per sé, senza bisogno del suo intervento. E la mente di Novi gli piaceva semplicemente perché gli piaceva Novi.

Dei resto (pensò con un senso di sfida) non c’era niente di male in questo.

Disse: — Sedetevi, Novi.

Lei ubbidì, sistemandosi timidamente sull’orlo della sedia e scegliendo il posto più lontano da Gendibal. La sua mente era piena di rispetto.

— Quando mi avete visto emettere mugolii in realtà stavo parlando con una persona che si trovava a grande distanza da me. Gli studiosi sanno fare questo, sapete.

Con gli occhi a terra e l’aria triste. Novi disse: — Capisco che gli studiosi fanno tanti prodigi che io non comprendo e non immagino neanche, Maestro. È un’arte difficile la vostra, come scalare una montagna altissima. Mi vergogno di essere venuta da voi con l’animo di diventare studiosa: come mai non mi avete riso dietro?

— Non c’è niente di male nell’aspirare a qualcosa, anche se questo qualcosa sia irraggiungibile — disse Gendibal. — Voi siete troppo vecchia ormai per diventare una studiosa del mio tipo, ma non si è mai così vecchi da non poter imparare di più di quello che si sappia e da non poter fare di più di quello che si faccia. Vi insegnerò un po’ di cose su questa nave: quando arriveremo a destinazione, sarete quasi un’esperta.

Gendibal si sentiva assai soddisfatto. Perché no? Stava rifiutando deliberatamente l’idea stereotipa che la Seconda Fondazione aveva degli hamiani. Con che diritto, d’altra parte, i membri della Seconda Fondazione si definivano tanto superiori? I giovani da loro educati non arrivavano poi così spesso a coprire cariche importanti. I figli degli Oratori non possedevano quasi mai le qualità necessarie a farli diventare a loro volta Oratori. C’erano state le tre generazioni dei Linguester, tre secoli prima, ma restava il sospetto che l’Oratore della generazione di mezzo non fosse in realtà un Linguester. E se il sospetto era fondato, come potevano gli Oratori, ed in genere i membri della Seconda Fondazione, mettersi su un piedistallo e guardare dall’alto in basso gli hamiani?

Gendibal la guardò: aveva gli occhi brillanti e la cosa gli fece piacere.

— Cercherò con tutte le mie forze di imparare quello che mi insegnerete, Maestro

— disse.

— Ne sono sicuro — disse Gendibal. D’un tratto gli venne in mente che durante la sua conversazione con Compor non aveva accennato per nulla al fatto di avere un compagno di viaggio di sesso femminile.

Forse però la presenza di una donna non era così strana; per lo meno, Compor non se ne sarebbe certo stupito. La singolarità però era data dalla presenza di una hamiana...

Per un attimo, nonostante tutta la sua buona volontà, Gendibal tornò vittima dello stereotipo e si consolò pensando che Compor non era mai stato su Trantor e non poteva quindi accorgersi che Novi fosse una hamiana. Poi però si liberò di quel residuo di condizionamento. Se anche Compor, o chiunque altro, avesse capito che Novi fosse una hamiana, non gli importava proprio niente. Lui era un Oratore della Seconda Fondazione e poteva agire come gli pareva, purché nel rispetto del Piano Seldon: nessuno aveva il diritto di interferire.

— Quando raggiungeremo la nostra destinazione dovremo dividerci, Maestro? — disse Novi.

Lui la guardò e disse, forse con più foga di quanto avesse inteso metterci: — No, non ci divideremo, Novi.

E la hamiana sorrise timidamente, proprio come avrebbe sorriso qualsiasi altra donna della Galassia.

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