La nave era ancora più bella di quanto si aspettasse Trevize, che ricordava la grossa campagna pubblicitaria che era stata fatta all’epoca in cui era stato prodotto il nuovo tipo di incrociatore.
A colpire non erano le dimensioni, perché la nave era piccola. Era stata progettata in modo da essere manovrabile e veloce, concepita per motori esclusivamente gravitazionali e, soprattutto, per un alto grado di computerizzazione. Le grandi dimensioni quindi non servivano, anzi erano antifunzionali.
Pilotabile da una sola persona, l’incrociatore era in grado di sostituire vantaggiosamente le navi più vecchie, cui occorreva un equipaggio di una dozzina di uomini o più. Con una seconda od una terza persona a bordo, capaci di garantire un’equa distribuzione dei turni, una nave del genere poteva surclassare una flottiglia di navi assai più grandi, non appartenenti alla Fondazione. In più, batteva in velocità qualsiasi altra astronave esistente e le era facile quindi la fuga.
Aveva un che di lustro e perfetto: non c’era un solo millimetro che non fosse stato sfruttato nel modo giusto, non c’erano curve o linee superflue, né fuori, né dentro.
Ciascun metro cubo di volume era utilizzato al massimo, sicché all’interno, paradossalmente, si aveva un’impressione di spaziosità. Nessuno dei discorsi del sindaco sull’importanza della missione aveva impressionato Trevize quanto il vedere la nave con cui quella missione sarebbe stata compiuta.
Branno la Bronzea, pensò Trevize mortificato, era riuscita con le sue manovre ad invischiarlo in un’impresa indubbiamente pericolosa. Forse non avrebbe accettato con tanta determinazione se lei non avesse disposto le cose in modo da fargli desiderare di mostrare che cosa sapesse fare.
Quanto a Pelorat, era pieno di meraviglia. — Mi credete se vi dico che non sono mai stato nemmeno vicino ad un’astronave? — disse toccando con un dito la carena, poco prima di salire all’interno.
— Vi credo, professore. Ma come mai?
— Ad essere franco non lo so, caro amic... cioè, caro Trevize. Credo che sia successo perché ero troppo preso dalle mie ricerche. Quando uno nella propria casa ha un computer veramente eccellente, in grado di raggiungere altri computer in qualsiasi parte della Galassia, non ha praticamente bisogno di spostarsi, capite. Per qualche motivo mi aspettavo che le astronavi fossero più grandi di questa.
— Questa è un modello piccolo, tuttavia riesce lo stesso ad essere, dentro, più spaziosa di qualsiasi altra astronave della medesima grandezza.
— Come può essere? Non approfitterete mica della mia ignoranza per prendermi in giro, vero?
— No, no, dico sul serio: questo è uno dei primi modelli completamente gravitazionalizzati.
— Che significa? Non ditemelo, però, se questo comporta complicate spiegazioni di fisica. Vi prenderò in parola, come mi avete preso in parola voi quando abbiamo discusso del pianeta d’origine e dell’unicità della specie umana.
— Proverò a spiegarmi, professor Pelorat. Nella storia millenaria del volo spaziale, abbiamo avuto motori chimici, motori ionici, motori iperatomici, e tutti quanti occupavano molto spazio. L’antica Marina Imperiale aveva navi lunghe cinquecento metri, con uno spazio abitabile pari soltanto a quello di un piccolo appartamento. La Fondazione, non disponendo di risorse materiali ingenti, si è dovuta specializzare attraverso i secoli nella miniaturizzazione: questa nave rappresenta il culmine delle ricerche compiute finora. Usa l’antigravità, e il congegno che rende possibile tale uso non occupa praticamente niente spazio e di fatto è incluso nella carena. Senza di esso dovremmo ricorrere ancora ai motori iperatomici e...
Si avvicinò loro una guardia della Sicurezza. — Dovete salire a bordo, signori.
Il cielo stava diventando sempre più chiaro, benché mancasse una buona mezz’ora all’alba.
Trevize si guardò intorno. — Hanno caricato il mio bagaglio?
— Sì, consigliere: sulla nave, come vedrete, c’è tutto.
— Compresi vestiti non della mia taglia, né di mio gusto, immagino.
La guardia d’un tratto sorrise con espressione quasi infantile. — Credo che invece li troverete di vostro gusto — disse. — Nelle ultime trenta-quaranta ore, il sindaco ci ha fatto fare dello straordinario. Siamo stati attenti a prendere vestiti che si adattassero bene a ciò che già avevate. Potevamo spendere quello che volevamo. — Si guardò intorno come per assicurarsi che nessuno notasse la sua aria complice, poi aggiunse: — Sapete, voi due siete fortunati: avete la miglior nave del mondo, perfettamente equipaggiata, a parte le armi. Si può dire che nuotiate nella panna montata.
— Panna acida, forse — disse Trevize. — Be’, professore, siete pronto?
— Con questo, sì — disse Pelorat, mostrando un oggetto quadrato di circa venti centimetri di lato, chiuso in una busta di plastica argentata. Trevize si rese conto solo allora che dal momento in cui era uscito di casa Pelorat aveva tenuto sempre in mano l’oggetto, senza mai deporlo nemmeno quando si erano fermati per consumare una rapida colazione.
— Che cos’è quello, professore?
— La mia biblioteca. L’indice è per argomento e per fonte: tutto lo scibile in una tavoletta di silicio. Un’intera biblioteca, tutto quello che ho raccolto! Non è meraviglioso?
— Bene — disse Trevize. — Forse nuotiamo veramente nella panna montata.
Trevize ammirò l’interno della nave. Lo spazio era stato utilizzato ingegnosamente. C’era una dispensa dove erano accumulati provviste di cibo, abiti, pizze di film e giochi. Poi c’erano una palestra, un salottino e due camere da letto quasi identiche.
— Questa dev’essere la vostra, professore — disse Trevize. — Lo deduco almeno dal fatto che contiene un Lettore FX.
— Bene — disse Pelorat. soddisfatto. — Che stupido sono stato ad evitare finora il volo spaziale: sento di poter vivere molto tranquillamente qui, caro Trevize.
— È più spaziosa di quanto pensassi — disse Trevize, compiaciuto.
— Ed i motori sono proprio nella carena, come avete detto?
— Per lo meno, i congegni di controllo sicuramente. Non abbiamo bisogno di immagazzinare combustibile da usare nel corso del viaggio. Sfruttiamo la naturale riserva di energia dell’Universo, sicché il combustibile e i motori sono tutti... là — e fece un gesto vago.
— Ma, ora che ci penso, e se si verifica un qualche guasto?
Trevize alzò le spalle. — So navigare nello spazio, ma non ho mai provato a viaggiare su questo tipo di nave: se si verifica qualche guasto al congegni gravitazionali, temo di non poterci fare niente.
— Ma sapete come funziona? Sapete pilotarla?
— Me lo sto chiedendo io stesso.
— Pensate che sia automatizzata? — disse Pelorat. — Forse siamo soltanto dei passeggeri, ed il nostro compito consiste nello stare qui seduti senza toccare un bottone.
— A volte sono così i traghetti che collegano i pianeti con le stazioni spaziali del medesimo sistema solare, ma non ho mai sentito parlare di viaggio iperspaziale automatizzato, almeno fino ad ora.
Si guardò intorno di nuovo, con un filo di apprensione. Che quella vecchiaccia della Branno fosse riuscita a tenere nascosta la cosa a lui e ad altri come lui? Forse la Fondazione aveva sul serio messo a punto il volo interstellare automatizzato, e lui sarebbe stato depositato su Trantor contro la sua volontà e non avrebbe avuto modo di dire nulla, non più di quanto potessero farlo i mobili di bordo...
Disse, con una vivacità che non sentiva: — Sedetevi, professore. Il sindaco ha detto che questa nave è completamente computerizzata. Se nella vostra stanza c’è un Lettore FX nella mia dovrà esserci un computer: mettetevi comodo e lasciate che dia un’occhiata in giro da solo.
Pelorat divenne di colpo ansioso. — Trevize, amico caro, non avrete mica intenzione di scendere dalla nave, vero?
— Non ci penso neanche lontanamente, professore. E se poi tentassi di farlo, state certo che qualcuno mi fermerebbe: il sindaco non ha alcuna intenzione di farmi scendere. Desidero soltanto sapere come si pilota la “Far Star”. — Sorrise. — Non vi abbandonerò, professore.
Stava ancora sorridendo quando entrò in quella che aveva giudicato la sua camera da letto, ma appena richiuse la porta alle proprie spalle assunse un’espressione seria.
Doveva esserci per forza il mezzo di comunicare con l’eventuale pianeta che si fosse trovato nelle vicinanze della nave. Non si poteva nemmeno pensare ad una nave tagliata fuori deliberatamente da ciò che la circondava; perciò da qualche parte, magari in una nicchia collocata in una parete, doveva esserci un contattore. Trevize avrebbe potuto usarlo per chiamare l’ufficio del sindaco e chiedere dove fossero i comandi.
Esaminò con cura le pareti, la testiera del letto ed i mobili dalle linee semplici e pulite. Se non fosse riuscito a trovare niente lì, avrebbe ispezionato il resto della nave.
Stava per andarsene, quando notò uno scintillio sulla superficie liscia, color marrone chiaro, della scrivania. Era un tondo luminoso, con lettere ben distinguibili che dicevano: istruzioni computer.
— Ah!
Il cuore però gli batté forte lo stesso: c’erano computer e computer, e c’erano programmi che si impara a conoscere a fondo solo dopo molto tempo. Trevize non aveva mai commesso l’errore di sottovalutare la propria intelligenza, ma d’altro canto sapeva di non essere un Gran Maestro in materia. Alcune persone erano nate per usare il computer, altre invece non erano molto portate per quel genere di cose, e Trevize era perfettamente conscio di rientrare nella seconda categoria.
Nel periodo in cui aveva prestato servizio nella Marina della Fondazione, aveva raggiunto il grado di tenente, ed ogni tanto gli era capitato di essere l’ufficiale di giornata e di doversi servire del computer della nave. Non gli era mai successo però di essere l’unico responsabile del computer, e nessuno aveva mai preteso da lui che sapesse qualcosa di più delle operazioni di routine richieste agli ufficiali di giornata.
Con un senso di scoraggiamento ricordò i volumi che corrispondevano ai tabulati di un programma descritto dettagliatamente, e ripensò al sergente tecnico Krasnet seduto alla consolle del computer della nave: pareva davanti allo strumento musicale più complesso della Galassia, però lo usava con tranquilla noncuranza, come se la sua semplicità lo annoiasse. Tuttavia persino lui a volte era stato costretto a consultare i volumi, imprecando fra sé per l’imbarazzo.
Esitante, Trevize piazzò un dito sul cerchio luminoso, e subito la luce si diffuse su tutta la superficie del tavolo. Sopra di essa erano disegnati i contorni di due mani, destra e sinistra. Con un movimento repentino ma dolce, la scrivania s’inclinò, formando un angolo di quarantacinque gradi.
Trevize si sedette davanti al tavolo. Non erano necessarie parole. Era chiaro che cosa si volesse da lui.
Fece combaciare le mani con lo schema sulla scrivania, collocato in modo da non fargli fare alcuno sforzo. La superficie del tavolo era morbida, quasi vellutata, e quando lui la toccò le sue mani sprofondarono un poco.
Trevize le guardò stupefatto, perché nonostante i sensi gli dicessero che erano sprofondate in un materiale tiepido e cedevole, gli occhi gli mostravano che non era vero, che la scrivania era esattamente come prima.
Ed adesso che cosa sarebbe successo? Era tutta lì la storia?
Si guardò intorno, poi chiuse gli occhi, come in risposta ad un suggerimento.
Con le orecchie non sentì niente, non udì niente. Tuttavia nel suo cervello si formò un pensiero. Un pensiero che sembrava essersi trovato lì per caso ed essere nato però nella sua stessa mente. «Chiudete gli occhi, per favore. Rilassatevi: ora ci colleghiamo».
Attraverso le mani? Per qualche motivo Trevize aveva sempre pensato che se si fosse dovuto comunicare mentalmente con un computer, si sarebbe usata una cuffia, con elettrodi collegati agli occhi e al cranio.
Le mani?
E perché non le mani? Si sentì fluttuare lontano e avvertì una certa sonnolenza, ma non perse minimamente la sua lucidità mentale. Perché non le mani?
Gli occhi erano solo organi di senso. Il cervello era unicamente il quadro di comando centrale, racchiuso nel cranio e lontano dalla superficie operativa del corpo, la superficie operativa era rappresentata dalle mani: erano le mani che tastavano e manipolavano l’Universo.
Gli esseri umani pensavano con le mani. Erano le mani la risposta alla curiosità intellettuale, erano esse a toccare, stringere, rivoltare, alzare, sollevare. C’erano animali dal cervello piuttosto grande, che però erano privi di mani, e la differenza era importante, molto importante.
Così, mentre Trevize faceva combaciare le proprie mani con quelle del computer, la mente umana e la mente elettronica si trovarono in contatto, ed il fatto che lui tenesse o meno gli occhi aperti non ebbe più alcuna importanza: se li teneva aperti la sua visione delle cose non migliorava, né peggiorava se li chiudeva.
In entrambi i casi vedeva la stanza con estrema chiarezza e non solo la parte verso la quale era rivolto, ma tutto quanto, la parete alle sue spalle, quelle ai lati, il soffitto.
Poi vide le altre stanze dell’astronave ed anche il paesaggio, fuori: il sole si era levato, ma la sua luce era lievemente offuscata dalla nebbia mattutina.
Riusciva a guardarlo direttamente senza venirne abbagliato, perché il computer automaticamente filtrava le onde di luce.
Sentì la lieve brezza, la temperatura, i suoni del mondo intorno all’astronave.
Individuò il campo magnetico del pianeta e percepì le minuscole cariche elettriche sulle pareti della nave.
Si rese conto di dove e come fossero i comandi senza bisogno di averli presenti alla mente in modo dettagliato. Capì semplicemente che se voleva far decollare l’astronave, o se voleva accelerare, virare, servirsi di uno qualsiasi dei suoi congegni operativi, doveva usare soltanto la volontà, come se avesse dovuto dare un ordine al proprio corpo.
Tuttavia la sua volontà non era del tutto indipendente, il computer era in grado di dominarla. Al momento, per esempio, si era formata una frase precisa nella mente di Trevize, una frase che gli permetteva di sapere esattamente quando e come la nave avrebbe decollato. Riguardo a quel fatto, lui non aveva voce in capitolo. In seguito, invece, sarebbe stato normalmente in grado di decidere, in piena autonomia.
Mentre proiettava fuori la sua coscienza accresciuta dal computer, Trevize si accorse di poter percepire la parte superiore dell’atmosfera, di poter osservare l’andamento del clima, di poter scorgere le altre astronavi, fra le quali alcune erano in partenza ed altre in arrivo. Di tutti questi elementi bisognava tenere conto e il computer appunto ne stava tenendo conto. Se non l’avesse fatto, sarebbe toccato a Trevize ordinargli di farlo, e la macchina avrebbe obbedito.
I volumi che il sergente Krasnet era stato costretto in passato a consultare non c’erano più: erano divenuti superflui. Trevize sorrise: aveva letto più di una volta che i motori gravitazionali fossero destinati a produrre cambiamenti davvero rivoluzionari, ma la fusione di computer con mente umana era ancora un segreto di stato ed avrebbe prodotto sicuramente cambiamenti ancora più grandi.
Era conscio del tempo che passava, sapeva con esattezza l’ora locale di Terminus e l’ora galattica standard.
Come mai aveva lasciato andare le mani?, si chiese d’un tratto, e si rese conto di avere agito dietro il consueto suggerimento mentale. La scrivania tornò nella posizione originaria e lui si ritrovò il Trevize di prima, con i sensi di una persona normale.
Si sentì cieco, indifeso, come se per un certo periodo di tempo fosse stato accudito e protetto da un super-essere che adesso lo aveva abbandonato. Se non fosse stato per la consapevolezza di poter riprendere quel contatto in qualsiasi momento, avrebbe potuto mettersi a piangere per la tristezza.
Così invece si limitò a cercare di riadattarsi alle solite restrizioni. Si orientò con una certa fatica, poi si alzò traballando ed uscì dalla stanza.
Pelorat alzò gli occhi. Naturalmente aveva già regolato il suo Lettore, e disse: — Funziona benissimo: ha un programma di ricerca eccellente. Avete trovato i comandi, ragazzo mio?
— Sì, professore. È tutto a posto.
— In tal caso, non dovremmo fare qualcosa, per il decollo? Voglio dire, prendere precauzioni per non subire danni? Non bisogna mettersi cinture di sicurezza o roba del genere? Mi son guardato in giro alla ricerca di eventuali istruzioni, ma non ho trovato niente, e questo mi ha reso piuttosto nervoso. Mi sono dovuto concentrare sulla mia biblioteca. Quando sono al lavoro in un modo o nell’altro riesco a...
Trevize posò una mano sulla spalla del professore, come per arginare o fermare il diluvio di parole, poi disse forte, per superare il suono della voce dell’altro: — Non è necessaria alcuna precauzione, professore. L’antigravità è l’equivalente della non-inerzia. Quando la velocità cambia non si avverte alcun senso di accelerazione, dal momento che tutto quanto, sulla nave, è sottoposto simultaneamente al cambiamento.
— Volete dire che quando ci allontaneremo dal pianeta e voleremo nello spazio non ce ne renderemo nemmeno conto?
— Proprio così. Anzi, mentre noi stavamo parlando, l’astronave ha decollato. Fra qualche minuto attraverseremo la parte superiore dell’atmosfera, ed entro mezz’ora saremo nello spazio.
Pelorat parve farsi piccolo piccolo. Fissò Trevize, ed il suo viso lungo e rettangolare diventò così inespressivo da denunciare un turbamento profondo. Poi girò gli occhi a destra e a sinistra.
A Trevize tornarono in mente le sensazioni che aveva provato durante il suo primo viaggio nello spazio.
Disse, col tono più naturale possibile: — Janov — (era la prima volta che chiamava il professore per nome, ma in questo caso era Trevize l’uomo esperto che si rivolgeva all’inesperto, ed era necessario che fosse lui a far la parte del più vecchio)
— qui siamo perfettamente al sicuro. Ci troviamo nel grembo di metallo di una nave da guerra della Marina della Fondazione. L’incrociatore non è armato, ma dovunque andremo, nella Galassia, il nome della Fondazione basterà a proteggerci. Anche ammesso che ad una nave saltasse il ghiribizzo di attaccarci, riusciremmo ad allontanarci dal suo raggio di azione in un battibaleno. E vi assicuro che so governare la nave alla perfezione: me ne sono reso conto poco fa.
— È il pensiero del... del nulla, Golan... — disse Pelorat.
— Be’, il nulla è tutto intorno a Terminus. Tra chi si trova sulla superficie del pianeta e il nulla sopra di esso c’è solo uno strato di aria tenue e sottile. Noi in questo momento non facciamo altro che superare questo strato insignificante.
— Sarà insignificante, ma ci permette di respirare.
— Respiriamo anche qui. L’aria è più pura e più pulita, sulla nave, e rimarrà sempre più pura e più pulita di quella che si respira su Terminus.
— E le meteoriti?
— Le meteoriti cosa?
— L’atmosfera ci protegge da esse. E in quanto a questo ci protegge anche dalle radiazioni.
Trevize disse: — Sono ventimila anni che l’umanità viaggia nello spazio, e...
— Ventiduemila, se stiamo alla cronologia hallblockiana risulta evidente che, contando...
— Basta, basta, vi prego. Avete mai sentito parlare di incidenti avvenuti a causa di meteoriti, o di morti per radiazioni? Voglio dire, di recente, e per quel che riguarda le navi della Fondazione?
— A dir la verità non ho mai tenuto dietro a questo genere di notizie, però, ragazzo mio, sono uno storico, e...
— Sì, nel corso della storia si sono avuti incidenti del genere, ma la tecnologia fa progressi. Non esiste meteorite abbastanza grande da danneggiarci, e che possa avvicinarsi a noi prima che prendiamo le misure necessarie per evitarla. Quattro meteoriti che simultaneamente provenissero dalle quattro direzioni corrispondenti idealmente ai vertici di un tetraedro potrebbero anche inchiodarci, ma provate a calcolare con che frequenza una cosa simile potrebbe verificarsi. Scoprirete che fate in tempo a morire di vecchiaia un trilione di volte prima di avere la probabilità ragionevole di osservare il fenomeno in questione.
— Insomma, le probabilità di un incidente sono molto scarse se siete voi a far funzionare il computer?
— No — disse Trevize, con dolcezza. — Se facessi funzionare il computer basandomi sui miei sensi e sulle mie reazioni, verremmo colpiti prima ancora di rendercene conto. È il computer a difenderci dalle meteoriti, perché reagisce milioni di volte più in fretta di voi o di me. — D’un tratto tese la mano verso l’altro. — Janov, permettetemi di mostrarvi cosa sia in grado di fare il computer, e come sia lo spazio.
Pelorat fissò il suo compagno con aria piuttosto stralunata. Poi fece una breve risatina. — Non sono sicuro di volerlo sapere, Golan.
— Non ne siete sicuro perché non avete idea di che cosa vi aspetti. Su, correte il rischio, venite nella mia stanza.
Trevize prese il riluttante Pelorat per mano e lo condusse nella propria stanza.
Disse, sedendosi al computer: — Avete mai visto la Galassia, Janov? L’avete mai guardata?
— Intendete dire nel cielo? — fece Pelorat.
— Certo. Dove, se no?
— L’ho vista, sì. L’hanno vista tutti: basta alzare gli occhi.
— L’avete mai contemplata in una sera buia e tersa, quando i Diamanti sono sotto l’orizzonte?
I Diamanti erano stelle abbastanza luminose ed abbastanza vicine da brillare con discreta intensità nel cielo notturno di Terminus. Erano un piccolo gruppo distribuito su un’ampiezza di non più di venti gradi, e per buona parte della notte si trovavano tutte sotto l’orizzonte. A parte questo gruppo, c’erano stelle sparse di scarsa luminosità, appena visibili a occhio nudo. Niente più di un vago chiarore lattiginoso, e del resto non ci si poteva aspettare altro abitando su un pianeta come Terminus, che si trovava al limite estremo della spirale più remota della Galassia.
— Immagino di sì — disse Pelorat. — Ma che cosa c’è di particolare? È una vista comune.
— Sì, certo — disse Trevize. — È per quello che nessuno guarda: perché guardare quello che tutti vedono? Ma ora voi contemplerete veramente lo spettacolo del cielo stellato, e non da Terminus, dove la nebbia e le nubi interferiscono in continuazione.
Lo vedrete come non l’avete mai veduto, per quanto a lungo possiate avere guardato e per quanto buia e tersa possa essere stata la notte. Come vorrei essere al vostro posto in questo momento e trovarmi per la prima volta davanti alla nuda bellezza della Galassia.
Spinse una sedia verso Pelorat. — Sedetevi, Janov. Forse ci vorrà un po’ di tempo.
Non mi sono ancora abituato del tutto al computer. Ho già capito che la visione sarà olografica, per cui non ci vorrà alcuno schermo. Il computer si collega direttamente con il mio cervello, ma credo di poter fare in modo che produca un’immagine oggettiva che possiate vedere anche voi. Spegnete la luce, per favore. Anzi, no, è stupido da parte mia. La farò spegnere al computer, restate pure seduto.
Trevize si collegò con il computer, sovrapponendo le mani alle impronte sulla scrivania.
La luce diminuì, poi si spense del tutto, e nel buio Pelorat, a disagio si mosse sulla sua sedia.
— Non siate nervoso, Janov — disse Trevize. — Può darsi che mi riesca un pochino difficile controllare perfettamente il computer, ma procederò con calma, e bisogna che abbiate pazienza. Guardate, vedete la mezzaluna?
La mezzaluna era sospesa nelle tenebre davanti a loro. All’inizio era piuttosto indistinta e tremolante, poi però divenne luminosa e dai contorni netti.
Nella voce di Pelorat affiorò un timore reverenziale. — È quello Terminus? Siamo già così lontani?
— Sì, la nave è veloce.
La nave stava percorrendo una traiettoria curva dal lato notturno di Terminus, e il pianeta appariva come una grossa mezzaluna luminosa. Trevize per un attimo ebbe la tentazione di far descrivere alla nave un ampio arco che, portandoli sul lato diurno del pianeta, permettesse di contemplare le meraviglie, ma si trattenne.
Pelorat avrebbe potuto gradire la novità, ma non si sarebbe sentito particolarmente colpito dalla bellezza dello spettacolo. C’erano troppe fotografie, troppe carte geografiche, troppi mappamondi che mostrassero come fosse Terminus. Fin da bambini si era abituati a quelle immagini. Un pianeta prevalentemente d’acqua, povero di minerali, con poche industrie pesanti ed un buon livello di sfruttamento agricolo. E il migliore della Galassia, per quel che riguardava l’alta tecnologia e la miniaturizzazione.
Se Trevize fosse riuscito a far usare al computer le microonde e a farle tradurre in un modello visibile, avrebbero potuto vedere tutte le diecimila isole abitate di Terminus, compresa l’unica abbastanza grande da essere considerata un continente: quella su cui si trovavano Terminus City. E...
Allontanarsi!
Fu solo un pensiero, un esercizio della volontà, ma la prospettiva cambiò subito.
La mezzaluna luminosa si spostò verso i margini del quadro visibile, poi scomparve, lasciando al suo posto l’oscurità dello spazio senza stelle.
Pelorat si schiarì la voce. — Perché non fate riapparire Terminus, ragazzo mio?
Mi pare di essere diventato cieco! — C’era tensione, nella sua voce.
— Non siete cieco. Guardate!
Nel buio dello spazio era apparsa una nebbiolina pallida, diafana. Si diffuse sempre più, diventando maggiormente luminosa, e alla fine l’intera stanza parve brillare.
Ritirarsi!
Un altro esercizio della volontà, e la Galassia si ritrasse, apparendo come attraverso un telescopio che allontanasse la visione anziché avvicinarla. La Galassia si contrasse e diventò una struttura di luminosità mutevole.
Renderla più luminosa!
Senza cambiare dimensioni, la Galassia divenne più brillante, e poiché il sistema solare cui apparteneva Terminus era sopra il piano galattico, non la si vedeva esattamente nella sua forma oggettiva: era una doppia spirale con striature curve di nebulose oscure che rigavano il contorno brillante del lato dove si trovava Terminus.
Il chiarore color panna del nucleo, lontano e rimpicciolito dalla distanza, appariva insignificante.
Impressionato, Pelorat disse, sottovoce: — Avete ragione: è tutt’un’altra cosa, vista così. Non mi sarei mai sognato uno spettacolo tanto grandioso.
— E come potevate sognarvelo? Non si può vedere la metà esterna quando l’atmosfera di Terminus si trova tra noi ed essa. Dalla superficie del pianeta si fa fatica persino a vedere il nucleo.
— Peccato che non la contempliamo proprio nella sua forma oggettiva, ma solo frontalmente.
— Se è per quello, il computer può mostrarcela da qualsiasi punto di vista. Basta che esprima il desiderio, e nemmeno a voce alta.
Cambiare coordinate!
Non si trattava in realtà di un ordine, eppure l’immagine, in seguito all’esercizio della volontà di Trevize, subì un lento cambiamento guidato dal computer.
A poco a poco la Galassia si collocò ad angolo retto rispetto al piano galattico. Si allargò come un gigantesco vortice scintillante dove si scorgevano linee curve e scure, grumi particolarmente luminosi, ed una chiazza centrale vivida e affascinante.
Pelorat chiese: — Come fa il computer a vedere la galassia da una posizione nello spazio che sarà a cinquantamila parsec da qui? — Poi, in un sussurro soffocato, aggiunse: — Perdonatemi la domanda, ma in queste cose sono proprio ignorante.
— Ne so quanto voi, su questo computer — disse Trevize. — Anche il più semplice degli elaboratori però è in grado di regolare le coordinate e di mostrare la Galassia da qualsiasi posizione, a cominciare da quella che gli appare più naturale, cioè quella relativa al luogo particolare dove si trova l’elaboratore stesso nello spazio.
Naturalmente fa uso solo delle informazioni che riesce a ricevere all’inizio, sicché quando passa, ad esempio, ad un’altra prospettiva, possiamo trovare vuoti e lacune nella visione che ci viene offerta. Nel caso di questo computer invece...
— Sì?
— Ecco, la vista che abbiamo è eccellente. Ho l’impressione che sia fornito da una mappa completa della Galassia e che quindi possa vedere quest’ultima ugualmente bene da qualsiasi posizione.
— Che cosa intendete per mappa completa?
— Nelle banche-dati dei computer devono trovarsi le coordinate spaziali di tutte le stelle della Galassia.
— Tutte? — Pelorat era sgomento.
— Forse non tutti i trecento miliardi di stelle che conta, certamente però sono comprese nel numero le stelle che illuminano i pianeti abitati, e probabilmente tutte quelle della classe spettrale K, e quelle più luminose ancora. Il che significa almeno settantacinque miliardi di stelle.
— Tutte le stelle dei sistemi solari abitati?
— Non vorrei essere smentito; forse non proprio tutte. All’epoca di Hari Seldon c’erano venticinque milioni di sistemi abitati; sembrano molti, però bisogna pensare che si tratta solo di una stella ogni quindicimila. Poi, nei cinque secoli successivi, lo smembramento dell’Impero non impedì ulteriori colonizzazioni, anzi, direi che semmai le avrà incoraggiate. Ci sono ancora moltissimi pianeti abitabili che attendono di essere colonizzati, e tutto sommato direi che quelli realmente abitati saranno ormai trenta milioni. Può darsi che non tutti i mondi di più recente colonizzazione siano registrati negli archivi della Fondazione.
— Ma i vecchi? Ci saranno tutti senza eccezione, immagino.
— Penso di sì. Non posso garantirlo, naturalmente, ma mi stupirei che di un sistema abitato da lungo tempo non ci fosse traccia negli archivi. Lasciate che vi mostri una cosa, sempre che la mia capacità di controllare il computer me lo permetta...
Le mani di Trevize s’irrigidirono un poco nello sforzo, e parvero affondare maggiormente nell’abbraccio in cui le stringeva il computer. Probabilmente era uno sforzo non necessario: bastava pensare con calma e naturalezza una parola. Terminus.
Trevize la pensò, e subito, in risposta, apparve ai margini del vortice una gemma rossa e scintillante.
— Ecco il nostro sole — disse, eccitato. — Ecco la stella che gira intorno a Terminus.
— Ah — disse Pelorat con un sospiro sommesso e tremulo.
Un punto di luce giallo vivo comparve in mezzo ad un fitto grappolo di stelle, nel cuore della Galassia, ma a lato della macchia biancastra centrale. Era un po’ più vicino alla zona dove c’era Terminus che all’altra.
— E questo — disse Trevize — è il sole di Trantor.
Un altro sospiro, e Pelorat disse: — Siete sicuro? Ho sempre sentito dire che Trantor si trovi al centro della Galassia.
— È vero, sotto un certo profilo. È quanto più vicino al centro possa essere un pianeta abitabile. Più vicino al centro di qualsiasi altro grosso sistema popolato. Il vero e proprio nucleo della Galassia è costituito da un buco nero con una massa di quasi un milione di stelle: si tratta insomma di un’area pericolosa. A quanto ne sappiamo non c’è vita, nel nucleo. Forse non è nemmeno possibile che un luogo del genere ospiti un qualche tipo di vita. Trantor è il mondo più interno dei bracci della spirale e, credetemi, se vedeste il suo cielo notturno, lo giudichereste al centro della Galassia. È circondato da un ammasso fittissimo di stelle.
— Siete stato su Trantor, Golan? — chiese Pelorat, con una punta di invidia.
— No, in realtà non ci sono stato, però ho visto rappresentazioni olografiche del suo cielo.
Trevize contemplò con una certa tristezza la Galassia. All’epoca del Mulo, quando si cercava con ansia la Seconda Fondazione, tutti si erano affannati sopra le mappe galattiche, e sull’argomento Galassia erano stati scritti innumerevoli volumi. E tutto perché all’inizio Hari Seldon aveva detto che la Seconda Fondazione sarebbe stata fondata «al capo opposto della Galassia», ed aveva definito il posto “Star’s End”.
Al capo opposto! Mentre Trevize era immerso in questi pensieri, nell’immagine olografica comparve una linea azzurra sottile, che partendo da Terminus attraversava il buco nero del nucleo galattico ed arrivava all’estremità opposta. Trevize per poco non sobbalzò sulla sedia. Non aveva ordinato esplicitamente che apparisse quella linea, ma aveva pensato ad essa chiaramente, e questo era bastato al computer.
Naturalmente però la linea diritta che finiva all’altra estremità della Galassia non era detto che indicasse proprio il «capo opposto» di cui aveva parlato Hari Seldon.
Era stata Arkady Darell (se si poteva dare credito alla sua autobiografia) a servirsi della frase «un cerchio non ha una fine» per suggerire quello che adesso tutti accettavano come verità.
E benché Trevize tentasse di reprimere quel pensiero, il computer fu più svelto di lui. La linea azzurra scomparve, rimpiazzata da un cerchio che girò intorno alla Galassia passando attraverso il punto rosso che rappresentava il sole di Terminus.
Un cerchio non ha una fine, se esso cominciava a Terminus, per cercare l’altro capo bisognava semplicemente tornare a Terminus, ed era effettivamente lì che era stata trovata la Seconda Fondazione, nello stesso mondo che ospitava la Prima.
E se in realtà la scoperta della Seconda Fondazione fosse stata soltanto un’illusione? Che cosa si sarebbe dovuto tracciare invece della linea e del cerchio, oppure oltre ad essi?
— Vi divertite a creare immagini illusorie? — disse Pelorat. — Come mai c’è quel cerchio azzurro?
— Stavo solo provando i comandi. Volete che localizziamo la Terra?
Dopo un attimo di silenzio, Pelorat disse: — State scherzando?
— No. Ora provo.
Provò, ma non successe niente.
— Mi dispiace — disse.
— La Terra non c’è?
— Forse ho formulato male l’ordine mentalmente, ma mi sembra improbabile. È più probabile che la Terra non sia compresa fra i dati fondamentali di cui dispone il computer.
— Potrebbe esserci invece, ma sotto un altro nome.
Trevize accettò prontamente l’ipotesi. — Quale altro nome, Janov?
Pelorat non disse niente, e Trevize sorrise, nell’oscurità. Pensò che forse le cose si sarebbero messe a posto da sole: bastava lasciarle riposare, maturare. Cambiò deliberatamente argomento e disse: — Mi chiedo se non si possa manipolare il tempo.
— Il tempo? E in che modo?
— La Galassia ruota. Terminus impiega quasi mezzo miliardo di anni per fare un giro completo della grande circonferenza galattica. Le stelle che si trovano più vicine al centro compiono naturalmente il giro in molto meno tempo. Il moto di ciascuna stella, relativo al buco nero centrale, potrebbe essere registrato dal computer, e se così fosse si potrebbe chiedere a quest’ultimo di moltiplicare ogni moto per milioni di volte, e di rendere visibile così l’effetto rotazionale. Posso tentare di farlo.
Trevize provò, e fu tale lo sforzo di volontà necessario, che non poté fare a meno di tendere tutti i muscoli: era come se avesse afferrato la Galassia e la stesse costringendo a girare nonostante una forza di resistenza terribile.
La Galassia si mosse. Piano, con tutta la sua mole poderosa, ruotò nella direzione che determinava il contrarsi dei bracci della spirale.
Mentre Trevize e Pelorat guardavano, il tempo passò con rapidità incredibile. Era un tempo falso, artificiale, ed a mano a mano che trascorreva le stelle diventavano sempre più qualcosa di evanescente.
Qui e là alcune delle più grandi divennero maggiormente luminose, fino ad espandersi in giganti rosse. Poi una stella degli ammassi centrali esplose in silenzio, con un bagliore accecante che dominò tutta la Galassia per una frazione di secondo e poi scomparve. Lo stesso accadde a un’altra stella in uno dei bracci della spirale, e ancora ad un’altra non troppo lontana dalla prima.
— Supernove — disse Trevize, con un lieve tremito nella voce.
Possibile che il computer sapesse predire esattamente quali stelle sarebbero esplose, e quando? O stava usando soltanto un modello semplificato che servisse a mostrare il futuro delle stelle in termini generali, anziché in dettaglio?
Con un sussurro rauco, Pelorat disse: — La Galassia sembra un essere vivente che avanzi pian piano nello spazio.
— In effetti è quello che fa — disse Trevize. — Ma ormai sono stanco. A meno che non impari a fare questo gioco spendendoci meno tensione, non posso reggerlo a lungo.
Smise di concentrarsi. La Galassia rallentò, poi si fermò e s’inclinò finché si ritrovò nella stessa posizione ad angolo retto rispetto al piano galattico da cui erano partiti.
Trevize chiuse gli occhi e respirò a fondo. Sentiva che Terminus diventava sempre più piccolo alle loro spalle, e che gli ultimi brandelli di atmosfera stavano svanendo con esso. E percepiva la presenza delle varie astronavi che affollavano lo spazio intorno al pianeta.
Non gli venne in mente di verificare se fra quelle astronavi ce ne fosse una speciale, se ce ne fosse una gravitazionale come la sua, e che seguisse la traiettoria della sua più da vicino di quanto il caso concedesse...