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Finalmente si decise a mandar giù qualcosa. Stava diventando nevrastenico. La mano gli tremava tanto che riuscì a malapena a sollevare la tazzina del caffè senza rovesciarselo tutto addosso.

Un pensiero orribile gli si era affacciato alla mente: se in lui c’era qualcosa di storto, poteva chiedere a Jane Pemberton di sposarlo? Si può, in coscienza, appioppare alla ragazza che si ama un marito che quando apre un frigorifero per prendere una bottiglia di latte, può trovarci invece… Dio sa cosa?

E lui amava Jane pazzamente.

Rimase lì seduto, col panino imbottito ancora intatto nel piatto che aveva davanti, in una penosa alternativa di speranza e disperazione, cercando di dare un senso ai tre avvenimenti che gli erano capitati durante la settimana.

Allucinazioni?

Ma anche il guardiano aveva visto l’anitra!

Che conforto era stato, allora, dopo aver visto il lombrico-angelo, dire a se stesso che si trattava di un’allucinazione! Soltanto di quello.

Ma, un momento. Forse…

Il guardiano del museo non poteva anche lui far parte dell’allucinazione? Ammesso che lui, Charlie, avesse visto un’anitra che non c’era, non era possibile che avesse visto anche un guardiano di museo inesistente, che dichiarava di aver visto l’anitra? Perché no? Un’anitra e un guardiano che la vede… entrambi immaginari.

Charlie si sentì così sollevato che diede un morso al panino.

Ma la scottatura? Anche quella, un’allucinazione? Non poteva una disfunzione naturale dell’organismo causare all’improvviso un’alterazione della pelle che avesse l’aria di una leggera scottatura? Se esisteva un disturbo del genere, certo il dottor Palmer non ne era a conoscenza.

All’improvviso Charlie vide l’orologio appeso al muro. Era l’una. Si rese conto di essere in ritardo di oltre mezz’ora, e mandò giù il boccone tanto in fretta che per poco non si strozzò. Era rimasto lì seduto quasi un’ora.

Si alzò e si precipitò in ufficio.

Ma tutto era a posto. Il vecchio Hapworth non c’era. E il testo del volantino arrivava in quel momento, in ritardo.

Tirò un respiro di sollievo (l’aveva fatta franca per un pelo!) e si mise subito al lavoro. Portò il testo alle “linotype”, corresse la bozza personalmente, poi osservò l’impaginazione sbirciando da sopra la spalla del compositore. Sapeva di rendersi odioso, ma gli serviva per ammazzare il tempo.

Un’altra giornata di lavoro, domani, e poi, vacanza! E mercoledì…

Mercoledì, le nozze!

Ma…

Se…

La Peste, in camice verde, uscì dalla tipografia e gli lanciò un’occhiata.

— Charlie — disse — hai l’aria di un cane bastonato, per non dire di peggio. Che cosa diavolo hai? Me lo vuoi dire?

— Niente. Paula, quando rincaserai, di’ a Jane che stasera arriverò un po’ in ritardo. Devo starmene qui fino a che questi volantini non saranno tutti stampati.

— Certo, Charlie. Ma dimmi…

— No! Vattene. Ho da fare.

Con un’alzata di spalle, lei tornò da dove era venuta.

Il tecnico gli batté amichevolmente sulla schiena.

— Abbiamo montato la nuova “linotype” — disse. — Volete darle un’occhiata?

Charlie annuì e lo seguì. Esaminò l’impianto, poi sedette al posto dell’operatore, davanti alla macchina. — Come va?

— Benissimo. Queste macchine sono una cannonata. Provatela.

Charlie fece correre le dita sui tasti, componendo alcune parole senza preoccuparsi del senso. Poi tolse le tre righe intere dal compositoio. Quindi lesse quello che aveva scritto: “Perché gli uomini sono morti e i vermi li hanno divorati, e sono ascesi al cielo dove ora siedono alla destra…”.

— Oh! — disse Charlie. E gli venne in mente.

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