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La gente cerca sempre di spiegare.

Mettete un individuo di fronte a qualcosa d’incomprensibile, e lui si sentirà infelice fino a che non sarà riuscito a classificarlo. Il cielo s’illumina stranamente; ma uno scienziato dice che si tratta dell’aurora boreale (o di quella australe) e lui accetta il fenomeno e non ci pensa più.

Qualcosa strappa i quadri dalle pareti di una stanza vuota e fa cadere le sedie per terra. Tutti sono costernati finché il fenomeno non ha un nome. Ma poi… niente, sono soltanto gli spiriti.

Classificate e dimenticate. Tutto quello che ha un nome, può essere assimilato.

Non che quello che capitò in seguito a Charlie Wills avesse qualcosa a che fare con gli spiriti. E neanche con i folletti. Però, in un certo senso, lui avrebbe preferito che si fosse trattato di un folletto invece che di un’anitra. Ci si può aspettare che un folletto si comporti in modo strano, ma un’anitra… E in un museo, per di più!


Un’anitra non ha niente di terribile in se stessa. Niente che tenga svegli la notte, facendo colare sudori freddi da scottature che cominciano a spellarsi. Tutto sommato, l’anitra è un animale simpatico, specialmente arrosto. Ma quella non era così.

La permanenza di Charlie in ospedale era durata solo otto ore; lo avevano dimesso verso sera, e lui aveva cenato in centro e poi se n’era tornato a casa. Il principale gli aveva telefonato, insistendo perché il giorno dopo facesse vacanza. E lui non aveva insistito troppo per andare in ufficio.

Spogliatosi per fare un bagno, aveva osservato pieno di stupore la sua pelle. Una scottatura di terzo grado, non c’era dubbio. E su tutto il corpo. E pronta a spellarsi.

Infatti il giorno seguente la pelle cominciava a venir via.

E lui aveva approfittato della vacanza per portare Jane a vedere una partita di baseball. Si erano sistemati in tribuna, al riparo dal sole. Era stata una bella partita e Jane sapeva capire e apprezzare il baseball.

Giovedì, era tornato al lavoro.

Alle undici e venticinque il vecchio Hapworth, il principale, entrò nell’ufficio di Charlie.

— Wills — disse — abbiamo ricevuto un’ordinazione urgente per la stampa di diecimila volantini. Ce ne manderanno una copia tra un’ora. Vorrei che seguiste voi personalmente il lavoro, dalla composizione alla stampa. C’è pochissimo tempo, e se non consegneremo alla data fissata dovremo pagare una penale.

— Certamente, signor Hapworth. Me ne occupo subito.

— Bene. Ci conto. Sentite… è ancora presto per pranzare, però sarebbe meglio che andaste a prendere qualcosa ora. Il testo arriverà proprio quando voi sarete di ritorno e potrete cominciare subito. Vi spiace anticipare la colazione?

— Niente affatto — mentì Charlie. Si calcò il cappello in testa e uscì.

Accidenti, era troppo presto per mangiare! Ma aveva un’ora di tempo, e prima poteva farsi una passeggiata di una trentina di minuti per stuzzicare l’appetito.

Il museo era poco lontano, e quello gli sembrò proprio il posto adatto per passare mezz’oretta. Ci andò e passeggiò su e giù per il corridoio centrale, fermandosi solo a dare una rapida occhiata a una statua di Afrodite che gli ricordava Jane Pemberton e che gli fece pensare, con intensità anche maggiore del solito, che mancavano solo sei giorni alle nozze.

Poi entrò nella sala che ospitava la collezione numismatica. Da ragazzo collezionava monete, e anche se aveva poi sospeso quell’attività, gli piaceva sempre osservare la bella collezione del museo.

Si fermò davanti a una bacheca di monete romane in bronzo.

Ma non pensava a quelle. Era ancora assorto nel pensiero di Afrodite, o Jane, cosa perfettamente comprensibile date le circostanze. Comunque, non stava certo pensando a vermi volanti o a improvvise ondate di calore.

Poi gli capitò di lanciare un’occhiata a una bacheca vicina. E vide che conteneva un’anitra.

Era un’anitra del tutto normale. Aveva il petto screziato, segni grigio-bruno sulle ali e la testa scura, con una striscia ancora più scura che partiva dagli occhi e correva giù, lungo il collo corto. Sembrava un’anitra selvatica, più che domestica.

E aveva l’aria triste.

Per un attimo, quella presenza non parve a Charles eccessivamente strana: anche se aveva sotto il naso un’anitra selvatica chiusa in una bacheca di vetro con la scritta “Monete cinesi”, il suo pensiero era rivolto ad Afrodite.

L’anitra schiamazzò, e percorse con andatura dondolante la bacheca per tutta la sua lunghezza, andando a sbattere contro il vetro dell’estremità opposta. Batté le ali, cercò di alzarsi a volo, ma urtò contro il coperchio di vetro, e schiamazzò ancora, più forte.

Soltanto allora Charlie si domandò che cosa facesse un’anitra viva nel bel mezzo di una collezione numismatica. Evidentemente, a giudicare dalle sue reazioni, l’uccello la pensava allo stesso modo.

All’improvviso Charlie si ricordò del verme-angelo e delle scottature solari senza sole.

— Ssss! Silenzio — ammonì qualcuno dalla soglia della sala.

Charlie si voltò. Doveva avere la faccia stravolta, perché l’accigliato sorvegliante prese subito un’aria più umana e domandò: — Qualcosa che non va, signore?

Per un attimo lui si limitò a fissarlo stupidamente. Poi pensò che quando aveva visto il lombrico salire in cielo era stato meno fortunato: ora erano in due, e non si può avere in due la stessa allucinazione! Se poi era davvero un’allucinazione.

Aprì le labbra per dire: — Guardate… — ma non ci fu bisogno di pronunciare parola. L’anitra l’aveva preceduto, schiamazzando disperatamente e cercando di volar via attraverso il vetro della bacheca.

Il guardiano guardò in direzione delle monete cinesi e si lasciò sfuggire un — Ohhh! — strozzato.

L’anitra era ancora là.

L’uomo guardò di nuovo Charlie, allibito, e disse: — Siete… — Ma lasciò la domanda a metà e si avvicinò alla vetrina per guardare meglio. L’anitra stava ancora lottando per uscire, ma con meno vigore. Sembrava che le mancasse il fiato.

— Ohhh! — ripeté il sorvegliante. Poi, rivolto a Charlie, continuò: — Signore, come avete… La bacheca è ermeticamente chiusa. A tenuta d’aria. Guardate quell’uccello. Sta per…

Già fatto: l’anitra giaceva immobile, morta o svenuta.

Il guardiano afferrò Charlie saldamente per un braccio. — Adesso verrete con me dal direttore! — Poi, con minore decisione, aggiunse: — Ma come avete fatto… a farla entrare là dentro? E non cercate di farmi credere che non siete stato voi! Sono passato di qui cinque minuti fa, e da allora nessun altro è entrato.

Charlie aprì la bocca e la richiuse. All’improvviso si vide sottoposto a lunghi interrogatori, prima nella direzione del museo, poi in questura. E se quelli della questura cominciavano a fargli domande, avrebbero scoperto la faccenda del verme e del suo ricovero in ospedale per… Avrebbero chiamato uno psichiatra e…

Con il coraggio della disperazione, Charlie trovò la forza di sorridere. Cercò di rendere il più sinistro possibile quel sorriso, e ne risultò un sorriso decisamente fuori del normale. — Vi piacerebbe trovarvi là dentro? — domandò al guardiano. E col braccio libero indicò il sarcofago di pietra di re Meneptah, che si intravedeva attraverso la soglia nel salone principale. — Posso accontentarvi facilmente, come ho messo quell’anitra…

L’uomo ansava penosamente. I suoi occhi si velarono, e lasciò andare il braccio di Charlie. — Signore — disse — voi davvero…?

— Volete che vi mostri come ho fatto?

— Uhh… Oh! — gorgogliò il guardiano. E schizzò via come un proiettile.

Charlie si impose un’andatura sostenuta, ma non si mise a correre, e si allontanò nella direzione opposta, dirigendosi verso l’ingresso secondario che dava in Beeker Street.

Beeker Street era ancora una via normale: congestionata per il traffico di mezzogiorno, ma senza elefanti rosa che si arrampicassero sugli alberi. La solita, frenetica confusione di una via cittadina. Il rumore delle auto lo calmò, in certo senso. Ad un tratto, un improvviso colpo di clacson lo fece sobbalzare. Si voltò di scatto, temendo di vedere chissà che cosa.

Ma era soltanto un autocarro, e lui si affrettò a levarsi di mezzo per non farsi travolgere.

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