Introduzione: La fantascienza e il signor Brown di Giuseppe Lippi

Ci sono scrittori importanti e scrittori amati. Fra gli scrittori importanti, tutti ricordano Virginia Woolf e la sua esemplare “signora Brown” (citata più tardi da Ursula K. LeGuin in un noto saggio: il personaggio dimesso e comune necessario anche nelle storie più fantastiche). Non è il caso di precisare che la signora Brown di Woolf-LeGuin non ha nulla a che vedere con le due mogli di Fredric Brown, lo scrittore che ossessivamente ci interessa, né con sua sorella o sua madre. Non è neanche una cugina. È invece un’astrazione, una figura retorica: Virginia Woolf la usa come parametro dl donna comune cui rapportare il suo discorso letterario, e lo stesso fa Ursula LeGuin nel desiderio di dettare una nuova poetica per la fantascienza anni Settanta. Una fantascienza, cioè, psicologicamente matura, attenta alla costruzione dei personaggi come se fossero donne e uomini reali (una sorta di signora Brown, appunto).

Venti o trent’anni prima il signor Brown, Fredric naturalmente, aveva cercato di applicare gli stessi parametri alla propria narrativa, senza per questo venir meno ad un’esuberante fantasia. Avete fatto caso che, dopo il 1970, è stato sempre più difficile parlare di “letterarietà” e di “coscienza” nella fantascienza americana senza rinunciare, contemporaneamente, ad una fetta di magia e gusto del bizzarro a ogni esternazione? La nostra sensazione è che la science fiction made in USA si sia sentita rispettabile, nell’ultimo quarto del XX secolo, solo quando è stata capace di abdicare al suo aspetto più stravagante. Quasi che, per essere degnamente accettati, si dovesse smettere il mantello del mago, del giocoliere. Forse questo destino l’attendeva al varco già dai tempi di John W. Campbell, il più serio e serioso degli editor statunitensi (mentre la fantascienza inglese, che è sempre stata matura senza civetterie, è sfuggita a questa nemesi e i suoi migliori autori moderni — Ballard, Watson, Christopher, Aldiss — rimangono eccellenti anche sotto il profilo del fantastico: con tutto il rispetto per la borghesissima, normalissima signora Brown).

Il fatto è che gli scrittori americani di fantascienza, LeGuin compresa, avevano una terribile vergogna del proprio passato “pulp”. Da qui la decisione di ribellarsi alle strettoie dell’editoria commerciale riesumando i temi della produzione mainstream: psicologismo e coscienza sociale, come se la science fiction dovesse imparare improvvisamente le buone maniere. E scimmiottare il realismo del romanzo borghese, lei che era stata innanzi tutto letteratura pop. (Il risultato di questi tentativi, imprevisto ma necessario, è stata una pletora di prodotti mediocri e semi-culturali.) Nessuna buona intenzione del genere avrebbe potuto indurre Fredric Brown a fare un passo indietro dal proprio paese d’ombre ai Confini della realtà. Al polo opposto rispetto ai manierismi letterari convenzionali, aborriva con pari foga quelli del mercato “pulp”: ma anziché rinnegarli ha preferito sublimarli in invenzioni meravigliose (vedi il suo capolavoro sul mondo della fantascienza, Assurdo universo). Anche lui aspirava a una narrativa attenta ai personaggi e alle loro emozioni, ma non ha mai rinunciato all’arte dello showman, e infatti molti dei suoi racconti sono ambientati in un carnival, il luna-park americano dei mostri e delle ombre. Anche lui perseguiva una scrittura lucida e intelligente, ma la coscienza del proprio mercato gli ha sconsigliato di abbandonare la pennellata vivida.

I suoi romanzi, in effetti (come i racconti, che tuttavia sono più tesi e calcolati al millesimo), sembrano una cosa e si rivelano un’altra, e non alludiamo solo alle sorprese della trama. In Brown la sorpresa è un ingrediente fondamentale e non manca mai; ma la vera rivelazione è che ciò che ci era sembrato l’assunto, la “tesi” dello scrittore, si è ora completamente ribaltato. Credevamo di leggere un thriller e ci troviamo di fronte ad un tuffo nella coscienza. Fredric Brown, che come Poe e Ambrose Bierce ci avvia sempre a una favola, finisce per smontarla con perizia, offrendoci una soluzione moderna ed elegante, non priva di humour, che è più originale del suo punto di partenza. La fantascienza è anche questo.

A differenza di un altro grande del periodo, l’orripilante-giallissimo Cornell Woolrich, Fredric Brown, che per certi aspetti gli somiglia, rimane lucido e matematico anche quando racconta incubi (cosa che fa spesso). È un visionario a tinte fosche, certo, ma della scuola di Lewis Carroll. O di Karel Thole. Il suo è un fantastico della simmetria, di geometrie diverse ma sempre a fuoco. È un narratore tipo Borges, più che Lovecraft. Il suo obiettivo (come dimostra quel capolavoro carrolliano che è Marziani, andate a casa!) è scompaginare il reale, ribaltarlo fin nelle pieghe più profonde e trarne una visione d’insieme alterata, da capogiro, ma profondamente sensata e originale; non stenteranno ad accorgersene i lettori dei racconti riuniti in questo volume.

Attenzione, della short story Brown è un maestro imprevedibile, un O. Henry in chiave fantastica: perciò nessuna soluzione razionale, nessun conforto ufficiale, nessun ristabilimento dell’ordine potranno salvare il pubblico che li riscoprirà da uno shock terrificante e salutare. Perché, pur essendo calcolati al millesimo e perfettamente orchestrati, quei racconti restano misteri sul serio. Le soluzioni della scuola “rispettabile” non interessano il signor Brown, che oltre a essere un artista moderno è anche, per scelta, un saltimbanco e un mago Mandrake. Il Mandrake del brivido, tessitore di vortici.

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