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Non fu un verme che si alzava da terra, quella volta. Non fu niente che si potesse toccare, a meno che si possa toccare una scottatura da sole, operazione spesso dolorosa.

Ma una scottatura da sole, in pieno temporale…

Pioveva quando Charlie Wills uscì di casa quella mattina, pochi minuti dopo le otto, ma non diluviava. Una semplice pioggerellina. Charlie si calò il cappello sugli occhi, si abbottonò l’impermeabile e decise di recarsi al lavoro a piedi. Gli piaceva camminare sotto la pioggia. E aveva tempo: bastava essere in ufficio per le otto e mezzo.

Doveva percorrere ancora tre isolati, quando incontrò la Peste, che andava nella stessa direzione. La Peste era la sorella minore di Jane Pemberton, e il suo vero nome era Paula, ma quasi tutti se n’erano dimenticati. Lavorava con Charlie, alla “Hapworth Printing Co.”, ma lei era apprendista correttore di bozze e lui, vicedirettore di tipografia. Charlie aveva conosciuto Jane per mezzo suo, a una festa data per i dipendenti.

— Ciao, Peste — salutò. — Non hai paura di affogare? — Pioveva forte, ora. Veniva giù a catinelle.

— Ciao, Bambi. Mi piace andare a spasso sotto la pioggia.

Era naturale che le piacesse, pensò lui con amarezza. Sentendosi chiamare con quel soprannome, aveva provato un moto di stizza. Era stata Jane ad affibbiarglielo scherzosamente, una volta, ma lui s’era seccato, e lei non si era più permessa di ripeterlo. Jane era una ragazza ragionevole. Purtroppo, la Peste aveva sentito, e da quel momento lui era vissuto nel terrore che lo chiamasse così in ufficio, davanti agli altri. Se fosse capitata una cosa simile…

— Senti — disse — non potresti dimenticarti quel maledetto soprannome? Io smetterò di chiamarti Peste, se tu la smetti di chiamarmi così.

— Ma a me piace, che mi chiamino Peste! Perché a te non piace Bambi?

Gli indirizzò un sorriso radioso, e Charlie si sentì fremere di nuovo. Paula era quella che era, e lui non osava…

Seccatissimo, continuò a camminare sotto la pioggia sferzante, a testa bassa per ripararsi la faccia. Quella maledetta ragazzina linguacciuta…

Con una visuale limitata a pochi metri di marciapiede proprio davanti al suo naso, non avrebbe probabilmente notato cavallo e carrettiere, se non fosse stato per gli schiocchi di frusta che sembravano colpi di pistola.

Alzò gli occhi e vide a una ventina di metri davanti a loro un carro stracarico, che avanzava lentamente in mezzo alla strada, tirato da un ronzino vecchio e malandato, talmente ossuto e decrepito che quella lenta andatura sembrava proprio il massimo delle sue possibilità.

Ma il carrettiere evidentemente non la pensava così. Era un omone con una brutta faccia scura e mal rasata, e se ne stava in piedi, brandendo una frusta che calò con forza sulla schiena del povero cavallo, che tremò tutto sotto il colpo, barcollando tra le stanghe.

La frusta si alzò di nuovo.

— Ehi, là! — gridò Charlie. E si diresse verso il carro.

Non sapeva con certezza che cosa avrebbe fatto se quel bruto si fosse rifiutato di smettere. Ma qualcosa avrebbe fatto di sicuro: la vista di un animale maltrattato era una barbarie che Charlie Wills non poteva e non voleva sopportare.

— Ehi! — gridò ancora, poiché sembrava che il carrettiere non avesse sentito. E si mise a correre lungo il marciapiede.

L’uomo sentì il secondo richiamo (e forse aveva sentito anche il primo), si voltò di scatto e squadrò Charlie dall’alto in basso. Poi alzò la frusta un’altra volta, anche più in alto, e l’abbassò crudelmente, con tutte le sue forze, sulla groppa della povera bestia.

Charlie vide tutto rosso. Non gridò più. Ora sapeva benissimo che cosa doveva fare. Prima di tutto avrebbe sollevato di peso il carrettiere, tirandolo giù dal carro. Poi l’avrebbe tempestato di pugni.

Sentì le scarpe di Paula ticchettare freneticamente sull’asfalto, mentre la ragazza gli correva dietro, gridando: — Charlie, sta’ atten…

Ma non udì altro. Perché, proprio in quel momento accadde la cosa.

Un’ondata improvvisa, accecante, di calore insopportabile, la sensazione di essere piombato in una fornace ardente. Restò un attimo a bocca aperta, perché l’aria che gli entrava in gola e nei polmoni scottava come acqua bollente. E la pelle…

Un dolore terribile, per un breve istante. Poi scomparve, ma troppo tardi. Lo “choc” era stato troppo violento e improvviso, è quando sentì di nuovo la pioggia fresca inondargli la faccia, fu assalito dal capogiro e svenne. Non si accorse neppure di cadere.

Tenebre.

Riaprì gli occhi in un vortice di bianco, che presto si risolse in bianche pareti, bianche lenzuola, e un’infermiera vestita di bianco che diceva: — Dottore, ha ripreso conoscenza!

Rumore di passi, una porta si chiuse e il dottor Palmer si chinò su di lui.

— Ebbene, Charles, che cosa diavolo vi è successo?

Charlie rise debolmente.

— Salve, dottore. Che cosa mi è successo? È proprio quello che vorrei sapere.

Palmer avvicinò una sedia e sedette. Poi prese il polso del giovanotto e lo tenne stretto, mentre fissava il suo orologio. Infine diede un’occhiata alla cartella clinica appesa ai piedi del letto e disse: — Uhm!

— Questa sarebbe la diagnosi — s’informò Charles — o la cura? Sentite, prima di tutto ditemi che ne è stato del carrettiere. Cioè se sapete…

— Paula mi ha raccontato l’accaduto. Il carrettiere è stato denunciato per i maltrattamenti a quella povera bestia. Voi state bene, Charles. Niente di grave.

— Niente di grave? Ma che significa? Insomma, volete dirmi cosa mi è successo?

— Siete svenuto. Un collasso. E tra qualche giorno vi spellerete tutto. Perché non avete usato una lozione qualsiasi, ieri?

Charlie chiuse gli occhi e li riaprì lentamente. — Perché non ho usato una… per che cosa? — domandò.

— Una lozione contro le scottature solari, naturalmente. Non lo sapete che non si può andarsene a nuotare in una giornata di sole senza…

— Ma ieri non sono affatto andato a nuotare. E neanche l’altro ieri. Perdinci! Saranno quindici giorni, che non ci vado. Di che scottature state parlando?

Il dottor Palmer si accarezzò il menta.

— Riposate ancora un poco, Charles — disse. — Se poi stasera vi sentirete perfettamente in forma, potrete tornarvene a casa. Ma domani è meglio che non andiate in ufficio.

Si alzò e uscì.

L’infermiera rimase, e Charlie la fissò, sgomento.

— Il dottor Palmer sta per… — disse. — Sentite, che cos’è tutta questa storia?

L’infermiera lo guardò in modo piuttosto strano.

— Diamine, avete… — cominciò. Poi si trattenne. — Le infermiere non sono autorizzate a discutere la diagnosi col paziente, signor Wills. Ma non c’è niente di cui preoccuparsi; avete sentito che il dottore vi permette di tornarvene a casa stasera stessa.

— Sciocchezze. Che ora è? Oppure le infermiere non sono autorizzate a dire neppure questo?

— Le dieci e mezzo.

— Perbacco! Sono qui da quasi due ore.

Fece un rapido calcolo: ricordava di esser passato davanti a un orologio che segnava le otto e ventiquattro, proprio mentre voltavano l’angolo dell’ultimo isolato. E se era sveglio da cinque minuti, erano due ore abbondanti…

— Desiderate altro?

Charlie scosse la testa, lentamente. Ma poi ci ripensò.

— Ah, sì. Potreste portarmi un’aranciata? — disse, per mandar via la donna e poter finalmente dare un’occhiata alla cartella clinica.

Non appena l’infermiera se ne fu andata, si alzò a sedere. Lo sforzo fu doloroso e si accorse che la pelle era stranamente liscia al tatto. Rimboccandosi le maniche del pigiama che gli avevano messo addosso in ospedale, si guardò le braccia e vide che erano tutte rosa, come nel primo stadio di una leggera scottatura solare.

Sbirciò sotto il pigiama, poi si guardò anche le gambe. — Cosa diavolo… — disse. Le scottature, se poi si trattava proprio di quello, si estendevano uniformi a tutto il corpo.

Un’assurdità, perché negli ultimi tempi lui non era stato al sole tanto da potersi scottare, e, comunque, mai senza vestiti. Eppure erano arrossate perfino le parti che sarebbero state coperte dai calzoncini, se fosse andato veramente a nuotare.

Ma forse la cartella clinica gli avrebbe chiarito le idee. Si sporse ai piedi del letto e la staccò dal gancio.

“Il paziente è svenuto improvvisamente per la strada, senza causa apparente. All’atto del ricovero, polso 135; respiro affannoso; temperatura 40 gradi. Tutto ritornato normale entro un’ora. Sintomatologia di un collasso da calore eccessivo, ma…”

Seguivano alcuni termini strettamente scientifici. Charlie non ci capì niente, e per un attimo ebbe la sensazione che non ci avesse capito niente neanche il dottor Palmer, perché quei paroloni avevano tutta l’aria di nascondere il vuoto dietro la loro altisonanza.

Udendo uno scalpiccio nel corridoio, rimise a posto velocemente la cartella e si tuffò di nuovo sotto le coperte. Con sorpresa, sentì bussare. Strano, le infermiere non bussano prima di entrare.

— Avanti — disse.

Era Jane. Più bella che mai, con i grandi occhi bruni dilatati dall’ansietà.

— Tesoro! Mi sono precipitata qui non appena la Peste è tornata a casa e mi ha detto tutto. Ma è stata terribilmente vaga. Che cosa ti è successo?

Era ormai a portata di mano e Charlie ne approfittò per stringerla tra le braccia. In quel momento se ne infischiava allegramente di tutto quello che gli era capitato. Poi cercò di spiegarle. Ma, soprattutto, cercò di spiegare a se stesso.

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