15

I tre anni stavano per scadere. Lane si trovava nello spazio da trentadue mesi e non aveva mai incontrato quella che lui continuava a chiamare la creatura. Calcolò che gli restava carburante per cinque mesi al massimo, e ancora meno di viveri e acqua.

Finora il viaggio era stato noioso e deludente. Non si fidava a prendere sonniferi o a sdraiarsi nella macchina d’ibernazione per timore che la creatura gli potesse sfuggire. Non poteva scendere su qualche pianeta per timore di consumare troppo carburante. Non era nemmeno sicuro che l’arma del Dorne funzionasse; la sua potenza era così limitata che la si poteva provare solo in combattimento.

Ma naturalmente quello che lo irritava di più era il mancato incontro con la creatura. Prima che lui istallasse l’arma a entropia l’aveva seguito per tutta la galassia, e adesso che lui era pronto non si faceva trovare.

E non solo il tempo era agli sgoccioli, ma anche il denaro. Non ne aveva più abbastanza da poter pagare il carburante e i viveri di cui presto avrebbe avuto bisogno.

Controllò ancora le mappe, esaminandole alla ricerca di altre possibili rotte da percorrere. Poteva continuare la ricerca all’interno della nube cosmica per altri tre mesi, ma poi l’unica fonte di denaro o di lavoro alla portata della Deathmaker sarebbe stato Willim Campbell Blessfull XXIII, ma la causa che aveva promosso contro di lui era ancora in discussione. D’altra parte se avesse cambiato direzione adesso sarebbe potuto arrivare nel sistema Deluros con una riserva di carburante per qualche altro giorno, e se anche da quasi otto anni non aveva lavorato per il Sindacato Vainmill, almeno non erano in cattivi rapporti.

Presa la decisione, Lane uscì dalla nube e puntò verso Deluros VII, il mondo capitale della razza umana, l’epicentro politico, culturale, finanziario e militare dell’umanità. L’uomo si era staccato ormai da molto tempo dalla Terra, e se anche guardava al suo pianeta d’origine con religiosa devozione, aveva trasferito il suo governo armi e bagagli nel sistema Deluros, che era più centralizzato e in cui esisteva uno di quei rari pianeti che possedevano le stesse caratteristiche della Terra ma aveva una superficie dieci volte maggiore.

Ma pur essendo così grande aveva finito anch’esso a rivelarsi inadeguato alle necessità umane e Deluros VI, un altro mondo con atmosfera dotata di ossigeno, era stato spezzato in quarantotto pianetini in ciascuno dei quali aveva sede un ministero o un ente governativo. I militari ne avevano subito occupati quattro, e asserivano che non erano sufficienti.

Ma i pianetini erano solo una succursale del sistema Deluros. Il potere era tutto concentrato in Deluros VIII, quel mondo luminoso, bianco, verde e dorato, dal clima mite. Quando Lane vi ci si avvicinò, gli fu ordinato di assumere un’orbita e poi entrare in uno delle centinaia di hangar e stazioni di rifornimento che ruotavano intorno al pianeta. Lane seguì le istruzioni, lasciò la Deathmaker in un hangar, poi scese sul pianeta a bordo di una navetta.

Aveva visto fotografie e filmati di Deluros VIII aveva parlato con gente che vi aveva vissuto e l’aveva visitato, ma nessuna descrizione di seconda o terza mano poteva avergli dato un’idea se non approssimativa di qull’enorme mondo. Lane si era spesso chiesto come mai i suoi abitanti non l’avessero diviso in stati indipendenti, ma non era mai riuscito a trovare una spiegazione.

Tutta la superficie del pianeta era coperta da un’unica, gigantesca megalopoli. C’erano parchi e tenute agricole, laghi e anche un paio di deserti, ma la città si insinuava ovunque, enorme scintillante e nuova, in quanto per la maggior parte risaliva a meno di mille anni, ed era di continuo soggetta a rinnovamenti, riparazioni, migliorie. Allungava i suoi enormi tentacoli di metallo, plastica e cemento in tutte le direzioni, fin sulle calotte polari e nel fondo degli oceani. Gli edifici che avrebbero potuto essere freddi e impersonali per le funzioni a cui erano adibiti, erano invece dei capolavori di arte architettonica. Mentre Lodin XI gli era risultato completamente incomprensibile, questo mondo, anche visto da un’altezza di quaranta chilometri, gli riuscì subito affine e comprensibile. Enormi strade collegavano le zone meno abitate del pianeta-città, monorotaie circondavano le parti più popolose, enormi complessi industriali coprivano aree circondate da campi e boschi e servite da una fitta rete di strade.

La navetta atterrò in quello che sembrava una combinazione di aeroporto, spazioporto e terminal per monorotaia, e i passeggeri furono informati che potevano recarsi a bordo di diversi mezzi in qualsiasi parte del pianeta; ma se qualcuno doveva recarsi presso un ministero o un ente governativo prima doveva rivolgersi alle competenti autorità portuali per vedere se poteva trattare lì la questione, o se invece avrebbe dovuto recarsi su un pianetino.

Lane consultò un elenco computerizzato e chiese l’indirizzo di Ector Allsworth. Fu informato che Allsworth non abitava più sul pianeta, che tuttavia vi ci si trovava da una settimana, però il suo indirizzo era sconosciuto.

Lane provò a rintracciarlo al Vainmill, ma incappò in una tale rete di centralini, segreterie, moduli da compilare, che rinunciò all’idea di mettersi in contatto con lui al Sindacato.

Infine gli venne l’idea di inserire nel computer il nome di Ilse Vescott, e immediatamente comparve sullo schermo la scritta RISERVATO, in rosso. A questo punto decise che non valeva la pena di insistere.

Si recò poi all’archivio di microfilm locale, e nella sezione sociale e finanziario scoprì che una giornalista aveva menzionato Ilse Vescott tre volte in un mese. Rintracciò la donna e, corrompendola con metà dei suoi ultimi quattromila dollari Maria Teresa, ottenne l’indirizzo che cercava. Per fortuna non era molto lontano, ma per il viaggio di circa duecento chilometri spese quasi tutto quello che gli restava.

Dall’aerostazione si recò a piedi alla casa di Ilse Vescott. La casa isolata in mezzo ad almeno un chilometro quadrato di terreno, si affacciava su un prato tenuto alla perfezione d’erba mutante celeste e piccoli giardini altrettanto ben curati; più che una casa era un vero palazzo, che si sarebbe adattato meglio a un albergo che non a un’abitazione privata. Lane calcolò a occhio che doveva avere almeno trecento stanze, ciascuna delle dimensioni di una casa normale. Era alto quindici piani, con una facciata liscia e lucida e l’aspetto di una fortezza inespugnabile.

Si sentiva a disagio nel presentarsi con la sua tenuta di caccia — unico tipo di vestiario che usava da anni — tuttavia non lo diede minimamente a vedere. Salì sul viale mobile e in pochi minuti fu trasportato all’ingresso principale del palazzo.

Il sontuoso portone si aprì senza far rumore e Lane entrò in un atrio di ossidiana su cui davano molte porte, tutte chiuse.

— Sono L’occhio Spia di Sicurezza automatico — disse una voce metallica. — Nome e motivo della visita, per favore.

— Nicobar Lane, uccisore.

— Avete un appuntamento? Non ho registrazioni relative a questo nome.

— Occhio spia, dì a Ilse Vescott che voglio vederla e che in casa sua è entrato un uccisore.

— Non avete risposto alla mia domanda — disse la voce. — Avete un appuntamento?

— Certo. Lasciami entrare.

— Non mi risultano appuntamenti a nome Lane.

In quella echeggiò nell’atrio un’acuta risata femminile.

— Impagabile! — disse una voce diversa, continuando a ridere. — Entrate, signor Lane. Quinta porta a destra.

Lane andò alla porta indicata, l’aprì ed entrò in una stanza il cui arredo doveva esser costato il doppio della Deathmaker. Il pavimento era coperto da un soffice tappeto bianco fatto di pellicce e teste di migliaia di piccoli animali polari. Pareti e soffitto erano coperti di specchi che ripetevano all’infinito il riflesso della stanza. Sedie e tavoli in stile barocco erano profusi ovunque, ma invece che di legno erano d’oro, d’argento o di platino incastonati di gemme che Lane non aveva mai visto. In fondo alla stanza c’era un Finto Tuffatore imbalsamato, anch’esso adorno di gioielli, e il cui enorme muso sporgente, aperto, era stato trasformato in un sedile coperto di cuscini.

E dentro, o sopra, quell’insolito seggio, c’era Ilse Vescott. A prima vista Lane la giudicò una delle donne più belle che avesse mai visto, ma avvicinandosi cambiò opinione. Ilse Vescott indossava un abito a un pezzo all’ultima moda che metteva in mostra buona parte del suo corpo, e lui notò che c’era qualcosa di strano. La pelle era troppo liscia, troppo perfetta. Neanche un trattamento alla plastica poteva dare risultati così perfetti.

Poi la gardò in faccia. Anche quella era troppo perfetta, sebbene gli occhi fossero molto infossati, e quando fu a pochi metri da lei, capì la ragione. Corpo e faccia erano di fibre sintetiche fuse e modellate da un abilissimo medico-scultore che era riuscito a infondere nel soggetto l’essenza della bellezza e della sensualità. Solo gli occhi — vecchi, duri e distanziati — appartenevano alla vera Ilse Vescott, e perfino il mago che l’aveva dotata di una faccia e di un corpo di Venere moderna era stato incapace di nasconderli o cambiarli.

Lane distolse lo sguardo e indicando con un gesto l’atrio da cui era entrato, chiese: — Quanto vi è costato?

— Cosa? Il sistema di sicurezza? — chiese lei schiudendo in un sorriso le morbide labbra artificiali. — Poco più di duecentomila crediti. Perché?

— Perché per quella somma chi l’ha istallato doveva inserire nei suoi banchi di memorie la parola “killer”. Ho una bestiola che mi è costata venti crediti e che vi potrebbe proteggere molto meglio.

— Ammiro la vostra audacia, signor Lane — disse lei alzandosi e porgendogli la mano, una mano vibrante e gelida. — Chi siete venuto a uccidere?

— Nessuno — rispose Lane. — Io ammazzo animali non persone.

— Che tipo originale! — Toccò una gemma di uno dei braccialetti, e dal pavimento salì un mobile bar coperto della stessa pelliccia del tappeto. — Posso offrirvi da bere, prima che mi diciate cosa siete venuto a fare qui?

Lane annuì e lei versò il contenuto di una sottile bottiglia in due bicchieri di cristallo. Lane assaggiò un sorso, scoprì che era buono e mandò giù il resto d’un fiato. Ilse Vescott invece sorseggiò lentamente la sua bibita.

— Ottimo — disse Lane.

— Dovrei sapere chi siete, signor Lane? — chiese poi lei.

— Forse no. Finora ho trattato con Ector Allsworth.

— Ah, allora dovete lavorare per il Sindacato Vainmill.

— Io lavoro solo per me stesso.

— Sottile distinzione — commentò Ilse Vescott. — E perché siete venuto da me?

— Perché non riesco a trovare Allswort. So che è su questo pianeta, e non avendolo trovato altrove ho pensato che potesse essere qui.

— Infatti c’è. Ma è una tal noia! — disse lei arricciando il nasino artificiale. — Inoltre è solo un mio dipendente. Fa parte delle mie proprietà come il Vainmill, questa casa e tutto quello che vedete qui intorno.

— Una gran quantità di roba per una persona sola.

— Io non sono una persona comune — disse lei, mentre i suoi occhi lo fissavano con divertito distacco. — E mi piace possedere molto. A voi no?

— Io non possiedo niente. Io uccido.

— E cosa vi interessa uccidere, signor Lane?

— La Bestia dei Sogni.

— Che nome favoloso! Rievoca leggende esotiche. Com’è?

— Diverso da qualsiasi altra cosa nell’universo — rispose Lane.

— È bello?

— Molto. È come… come una stella viva. Pulsa di energia e brilla di vita. Vive nello spazio, dove è nato e dove morirà.

— Cosa respira?

— Non respira.

— E allora come farete a sapere quando sarà morto?

— Lo saprò — asserì Lane. — Lo saprò, statene certa.

— Ho sempre creduto che i cacciatori professionisti fossero freddi e spassionati — osservò lise, — e invece sembra che voi consideriate quella bestia un vostro mortale nemico.

— Non è solo bello — specificò Lane, — è anche potente, pericoloso e malefico.

— Ombre del dottor Jeckyll e di Mister Hyde! — evocò scherzosamente la donna. — Parlatemene ancora.

— È l’ultimo della sua specie. Un tempo ne esistevano molti, ma vennero uccisi milioni e milioni di anni fa. Solo questo sopravvisse.

— Se è davvero l’ultimo della sua specie, invece di ucciderlo potreste cercare di catturarlo.

— Non si può catturare, lo si può solo distruggere.

— Di che colore è?

— Cambia — rispose Lane. — A volte è rosso, a volte quasi giallo. Dipende dalla velocità e dalle sensazioni del momento.

— Com’è possibile stabilire che una creatura di quel tipo prova delle sensazioni?

— Dicevo per dire — rispose Lane, sul chi vive. — Allsworth insiste da anni perché lo uccida. Adesso sono in condizioni di farlo.

— Non sarete venuto fin qua solo per dirmi questo.

— Sono venuto per parlare di soldi.

— Ah, e quanto pretendete?

— Mezzo milione di crediti o l’equivalente in altra valuta.

— È molto anche per un animale così insolito come la Bestia dei Sogni.

— No, per voi non è molto, ed è quello che vale.

— A quanto pare dovrò richiedere il suo parere — disse lei. Alzò un cuscino e premette uno dei molti pulsanti che c’erano sotto.

Poco dopo entrò Allswort sempre grigio di pelle e giallo di occhi, ma un po’ più calvo e corpulento di una volta. Fissò a lungo Lane prima di riconoscerlo.

— Lane? — chiese poi, incerto.

L’altro annuì e gli porse la mano.

— Siete invecchiato — disse Allsworth. — Cosa fate qui su Deluros?

— Il signor Lane si è offerto di uccidere la Bestia dei Sogni per me — spiegò Ilse. — Cosa ne pensi, Ector?

— Mi par di ricordare che aveva detto che si trattava di un mito — disse Allsworth.

— Sbagliavo, — disse Lane.

— Ector, quanto siamo disposti a pagare se ci procura la Bestia dei Sogni per uno dei nostri musei?

— Quanto vuole?

— Mezzo milione di crediti — rispose Ilse.

— Fategli subito firmare un contratto — disse Allsworth senza esitare. E a Lane: — Come mai così poco? Sapete meglio di me quanto vale.

— C’è una condizione — precisò Lane.

— E sarebbe?

— Li voglio in anticipo.

— Ah, lo dicevo! — esclamò Allswort. — Volete andarvene tranquillamente o vi devo buttar fuori?

— Cosa c’è Ector? — chiese lise.

— Guardatelo. Guardategli gli occhi, le mani. Non ha stipulato un contratto con noi né con nessun altro da anni. Quanti anni gli date?

Ilse guardò i radi capelli bianchi, la faccia scarna e incavata, le mani grinzose che parevano artigli. — Almeno novanta.

— Quanti anni avete, Lane? — chiese Allsworth.

— Non vi riguarda — rispose Lane. — Allora, ci mettiamo d’accordo o no?

— Non vedete che è drogato? — disse Allsworth.

— Che peccato! — esclamò lise. — Sembrava che parlasse sul serio.

— Parlo sul serio — dichiarò Lane. — La bestia c’è e io dispongo dell’unica arma capace di ucciderla.

— L’unica cosa che ha è una assuefazione che gli costa mantenere — asserì Allsworth. — Lasciate che lo scacci, Ilse.

— Fra un momento — rispose la donna, pensosa. Poi disse a Lane: — Ditemi ancora qualcosa di quella bestia.

— Non c’è molto da dire. Vive, si nutre, vola e può essere distrutta… se mi pagherete per farlo.

— Cosa mi darete come garanzia? — chiese Ilse.

— Non vorrete dargli del denaro, eh? — disse Allswort.

— Tacete, Ector — replicò lise. — Quell’animale mi ha eccitato la fantasia. Se alla Vainmill non interessa, lo finanzierò di tasca mia. Allora, cosa mi date in garanzia, signor Lane?

— Tutto quello che possiedo.

— Tutto? Mi pare molto.

— Era molto, una volta. Adesso tutto quel che possiedo sono la mia nave e l’arma.

— Mezzo milione di crediti sono troppi per un capriccio, signor Lane. Sono disposta ad anticiparvi cinquantamila crediti. Prendere o lasciare.

— Li prendo — rispose Lane senza esitare.

— Ector vi accompagnerà alla vostra nave. Gli consegnerete i documenti.

— Vi sta derubando, Ilse! — protestò Allsworth. — Non lo rivedrete mai più.

— Può darsi — ammise lei versandosi da bere.

— Allora perché lo fate?

— Perché mi diverte o, se preferite, chiamatela simpatia da parte di una donna bella e giovane per un uomo che da un pezzo non è più giovane.

Lane guardando gli occhi carichi d’anni, circondati da quei perfetti lineamenti artificiali, non riuscì a capire quale delle due ragioni era quella vera, ma non aveva alcuna importanza.

Ma adesso che aveva modo di comprare il carburante per la nave, era un particolare del tutto trascurabile.

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