Al comando di Chib, la faccia di Rex Luscus compare, immensa, sullo schermo del fideo. I pori della pelle sono grandi come i crateri delle bombe su un campo di battaglia della Prima guerra mondiale. Porta un monocolo nero sull’occhio sinistro, che gli è stato cavato netto durante una rissa tra critici d’arte, nel corso del programma Io amo Rembrandt, Canale 109. Sebbene sia abbastanza influente da assicurarsi la precedenza e farsi trapiantare l’occhio in qualsiasi momento, ha rifiutato.
— Inter caecos regnat luscus — spiega, quando gli chiedono il motivo, e spesso anche quando non glielo chiedono. E aggiunge: — Traduzione per chi non avesse seguito studi classici: “Tra i ciechi, l’uomo con un occhio solo è re”. È per questo che ho preso il nome di Rex Luscus, cioè Re Monocolo.
C’è una voce, messa in giro dallo stesso Luscus, secondo la quale permetterà ai bio-addetti di mettergli un occhio di proteina artificiale quando avrà visto le opere di un artista abbastanza grande da meritare una visione bifocale. E si dice inoltre che forse lo farà presto, adesso che ha scoperto Chibiabos Elgreco Winnegan.
Luscus spia golosamente (lui usa gli avverbi anche quando bestemmia) la villosità e parti confinanti di Chib. Lui si gonfia, non per tumescenza ma per rabbia.
Luscus dice, accattivante: — Caro, volevo solo assicurarmi che tu fossi alzato e pensassi già alla cosa tremendamente importante di quest’oggi. Devi essere pronto per la mostra, devi! Ma adesso che ti guardo, mi viene in mente che non ho ancora mangiato. Che ne diresti di far colazione con me?
— Cosa mangiamo? — chiede Chib. Non aspetta la risposta. — No. Ho troppo da fare, oggi. Chiuditi, Sesamo!
La faccia di Rex Luscus svanisce; è caprina, o come preferisce dire lui, è la faccia di un Pan, di un Fauno delle arti. Si è addirittura fatto fare le orecchie a punta dal chirurgo. Una cosa fichissima.
— Bee-ee-ee! — Chib rifà il verso al fantasma. — Bah! Imbroglione! Non ti leccherò mai il culo, Luscus, e non ti permetterò di leccare il mio! A costo di perdere la borsa di studio!
Il telefono suona di nuovo. Questa volta appare la faccia scura di Rousseau Falco Rosso. Ha il naso aquilino, e i suoi occhi brillano come due schegge di vetro nero. Sull’ampia fronte porta una fascia di stoffa rossa, che trattiene i lisci capelli neri che gli scendono con leggiadria sulle spalle. Ha una camicia di pelle di daino; al collo porta una collana di perline. Assomiglia a un indiano delle grandi pianure, anche se Toro Seduto, Cavallo Pazzo o qualsiasi altro nobile Naso Aquilino di loro l’avrebbero cacciato fuori dalla tribù a pedate. Non per antisemitismo, naturalmente, ma solo perché non avrebbero mai digerito un guerriero che si copriva di orticaria quando vedeva un cavallo.
Faceva per nascita Julius Applebaum, ma è diventato di fronte alla legge Rousseau Falco Rosso il giorno della scelta del nome. È testé tornato dalla foresta riprimitivizzata, e per un po’ se la gode tra gli aborriti piaceri di una civiltà decadente.
— Come va, Chib? La banda chiede fra quanto arrivi.
— Venire con voi? Non ho ancora fatto colazione, e ho mille cose da fare per preparare la mostra. Ci vediamo a mezzogiorno!
— Ieri sera ti sei perso tutto il divertimento. Certi stronzi di egiziani cercavano di smanazzare le ragazze, ma invece siamo stati noi a fargli un bel salamelecco contro il muro.
Rousseau svanisce come l’ultimo dei mohicani.
Chib pensa alla colazione, proprio mentre il citofono fischia. Apriti, Sesamo! Compare il soggiorno. Il fumaccio che vi impera è talmente denso e rabbioso che persino il condizionatore si è arreso. In fondo all’ovoide, il fratellastro e la sorellastra dormono su un divanetto. Giocando a “mamma e l’invitato” si sono addormentati, con la bocca ancora spalancata in una posa beata perché innocente, belli come possono esserlo soltanto i bambini che dormono.
A controllarli, comunque, di fronte agli occhi chiusi di ognuno di loro, c’è un occhio che non batte mai ciglio, come quello di un ciclope mongolo.
— Non sono carini? — fa Mamma. — Quei tesori erano troppo stanchi per andare via.
Anche laggiù, la tavola è rotonda. Cavalieri e dame, attempati entrambi, si sono raccolti lì intorno per la loro più recente Cerca del Re, Regina, Fante e Asso. Come armatura portano solo strati su strati di ciccia. Le gote di Mamma penzolano come bandiere in una giornata senza vento. I suoi seni strusciano e tremolano sul tavolo, si gonfiano e sussultano.
— Si è arenata una squadra di balenottere? — si domanda lui a voce alta, guardando le facce sfatte, le pantagrueliche poppe, i gonfi glutei. Quelli inarcano le sopracciglia, chiedendosi: Cosa rompe, adesso, quel genio pazzo?
— Tuo figlio è davvero ritardato come si dice? — chiede una delle amiche di Mamma, e tutti ridono e bevono un altro gotto di birra. Angela Ninon, che non vuol perdersi la smazzata e sa che tanto Mamma deve azionare gli spruzzatori, si piscia sulla gamba. Ridono anche di questo, e Guglielmo il Conquistatore dice: — Apro.
— Io sono sempre aperta — commenta Mamma e quelli si sbellicano dalle risate.
Chib si metterebbe a piangere. Ma non lo fa, sebbene sia stato incoraggiato fin dall’infanzia a piangere tutte le volte che ne ha voglia.
Ti fa sentire meglio, e guarda i vichinghi, che razza di palle avevano, eppure piangevano come bambini quando gliene veniva il desiderio… (Per gentile concessione del Canale 202, dal programma popolare Consigli alle mamme)
Se Chib non piange, è perché è come un uomo che pensa alla madre, tanto amata e morta, ma morta molto tempo prima. Sua madre è sepolta da troppo tempo sotto uno smottamento di ciccia. Quando aveva sedici anni, Chib aveva una madre incantevole.
Poi lei l’aveva scaricato.