Il capo della polizia sta parlando via fideo con un uomo che ha chiamato da una cabina pubblica. L’uomo ha coperto l’obiettivo e cerca di alterare la voce.
— Al Private Universe, quelli si strizzano via tutta la merda che hanno in corpo, a forza di botte!
Il Capo geme. Il Festival è appena cominciato, e quelli ci danno già dentro.
— Grazie. I miei uomini arriveranno subito. Lei come si chiama? Vorrei proporla per una medaglia del Buon Cittadino.
— Cosa? Così fanno sputare merda anche a me! Non sono mica una spia: faccio solo il mio dovere. E poi, Gambrinus e i suoi clienti mi stanno sul cazzo. Sono un branco di snob.
Il Capo dà gli ordini alla squadra di pronto intervento, si abbandona sulla poltrona, e beve una birra, mentre segue l’operazione sul fideo. Cosa gli sarà preso? Sono sempre incazzati per chissà cosa.
Le sirene ululano. Sebbene gli agenti viaggino su tricicli elettrici silenziosissimi, seguono ancora la secolare tradizione di avvertire i criminali del loro arrivo. Cinque tricicli si fermano davanti alla porta spalancata del Private Universe. I poliziotti scendono e confabulano tra loro. Gli elmetti cilindrici, alti il doppio di un normale cappello, sono neri e hanno i fregi rossi. Gli agenti portano occhialoni da motociclista: chissà perché, dato che i loro veicoli non possono superare i 25 chilometri orari. Hanno giacche nere e pelose, come gli orsacchiotti di pezza, decorate da enormi spalline d’oro. Anche i loro calzoni, lunghi fino al ginocchio, sono dello stesso tessuto peloso, ma di colore blu elettrico; gli stivali sono neri e lucidi. Sono armati di manganelli elettrici e di pistole che sparano lacrimogeni.
Gambrinus blocca l’entrata. Il sergente O’Hara gli dice: — Avanti, ci lasci entrare. — E poi: — No, non ho un mandato. Ma posso procurarmelo.
— Se entra, la denuncio — dice Gambrinus. Sorride. Benché le complessità burocratiche lo abbiano indotto a rinunciare ad aprire legalmente una taverna, è vero anche che il governo in questo caso lo protegge. La violazione di domicilio è un brutto affare per un poliziotto.
O’Hara sbircia oltre la porta, vede due corpi sul pavimento, vede che qualcuno si massaggia la testa o i fianchi o si asciuga il sangue, e vede Accipiter, seduto come un avvoltoio che sogna una prateria piena di carogne. Uno dei corpi si solleva a quattro zampe ed esce strisciando sulla strada, passando tra le gambe di Gambrinus.
— Sergente, arresti quest’uomo! — dice Gambrinus. — Ha un fideo illegale. Lo accuso di violazione di domicilio!
O’Hara s’illumina in volto. Almeno potrà segnare al suo attivo un arresto. Legrand viene caricato sul cellulare, che arriva subito dopo l’ambulanza. Falco Rosso viene portato sulla soglia dai suoi amici.
Riapre gli occhi mentre con la barella lo caricano sull’ambulanza, e mormora qualcosa.
O’Hara si piega su di lui. — Cosa?
— Una volta ho lottato contro un orso, e avevo solo il coltello, ma ne sono uscito meglio che contro quelle fighe marce. Le accuso di aggressione e percosse, omicidio e lesioni.
O’Hara cerca di far firmare la denuncia a Falco Rosso, ma non ci riesce, perché il giovane nel frattempo è svenuto. Il sergente bestemmia. Quando Falco Rosso starà meglio, si rifiuterà di firmare la denuncia. Non vorrà che le ragazze e i loro amichetti lo sistemino: non la firmerà, se ha un filo di buon senso.
Dal finestrino del cellulare, affacciato tra le sbarre, Legrand urla: — Sono un agente governativo! Non potete arrestarmi!
I poliziotti ricevono una chiamata d’urgenza: debbono accorrere davanti al Centro delle Arti, dove una rissa tra i giovani del luogo e gli invasori arrivati da Westwood minaccia di trasformarsi in un tumulto. Benedectine esce dalla taverna. Nonostante parecchi colpi alle spalle e allo stomaco, un calcio nelle natiche e una botta in testa, non ha affatto l’aria di chi sta per perdere il feto.
Chib, un po’ triste, un po’ allegro, la segue con lo sguardo. Prova una sorda angoscia, al pensiero che al bambino venga negato di vivere. Ormai si rende conto che, in parte, la sua opposizione è dovuta a un’identificazione con il feto: lo sa, anche se il Nonno crede che lui lo ignori. Si rende conto che la sua nascita è stata un incidente… fortunato o sfortunato, è ancora da vedere. Se le cose fossero andate diversamente, non sarebbe nato. Il pensiero della propria inesistenza… niente pittura, niente amici, niente risate, niente speranza, niente amore… lo inorridisce. Sua madre, sempre un po’ ubriaca, negligente nell’uso dei contraccettivi, ha fatto un mucchio di aborti, e uno poteva essere lui.
Mentre guarda Benedectine che si allontana ancheggiando (nonostante le vesti strappate) si domanda che cosa poteva aver visto in lei. La vita insieme a quella ragazza, anche con un bambino, sarebbe stata insopportabile.
Nel nido della bocca imbottito di speranza
Torna di nuovo Amore. Si posa,
Tuba, mostra la gloria del suo piumaggio, ti abbaglia,
E poi vola via, mollando uno schizzo di merda,
Come
fanno gli
uccelli,
Per alleggerirsi al decollo.
Chib torna a casa, ma non riesce neppure stavolta a entrare in camera sua. Va nel ripostiglio. C’è laggiù un quadro dipinto per sette ottavi, ma che non è stato completato perché lui non ne era soddisfatto. Ora lo porta fuori, lo trascina nella casa di Runic, che si trova nel suo stesso gruppo abitativo. Runic è al Centro, ma quando è fuori lascia sempre la porta aperta. Ha però l’attrezzatura per dipingere, e Chib la usa per finire il quadro, lavorando con la sicurezza e l’attenzione che gli erano mancate la prima volta che l’ha creato. Poi lascia la casa di Runic, e tiene alta sopra la testa l’enorme tela ovale. Lascia i piedistalli, passa sotto i loro rami curvi che reggono gli ovoidi. Aggira numerosi giardinetti erbosi ricchi d’alberi, passa sotto altre case, e in dieci minuti arriva al cuore di Beverly Hills. Qui, il mercureo Chib vede