26 A So Habor

Come al solito, Neald, che era dovuto restare a mantenere aperto il passaggio finché Kireyin e i Ghealdani non l’avevano attraversato, aveva collocato il buco nell’aria molto vicino a dove puntava. Lui e Kireyin li raggiunsero al galoppo proprio mentre Perrin arrivava in cima a un’altura e si fermava con la città di So Habor di fronte a sé, sull’altra sponda di un piccolo fiume sormontato da un paio di ponti ad arco in legno. Perrin non era un soldato, ma seppe fin da subito perché Masema aveva lasciato in pace quel posto. Addossata al fiume, la città aveva due imponenti cinte murarie di pietra costellate di torri, quella interna più alta di quella esterna. Un paio di chiatte erano assicurate a un lungo molo che correva lungo l’argine del fiume da ponte a ponte, tuttavia gli ampi cancelli dei ponti, rinforzati con liste di ferro e ben chiusi, parevano gli unici accessi in quella distesa di scabra pietra grigia, sormontata da bastioni per tutta la sua lunghezza. Costruita per tenere alla larga avidi nobili confinanti, So Habor avrebbe avuto scarso timore della marmaglia del Profeta perfino se fossero giunti a migliaia. A chiunque avesse voluto irrompere nella città sarebbero occorse macchine d’assedio e pazienza, e Masema era più a proprio agio nel terrorizzare cittadine e villaggi privi di mura o difese.

«Be’, sono lieto di vedere gente sulle mura laggiù» disse Neald.

«Stavo cominciando a pensare che chiunque in questo paese fosse morto e sepolto.» Pareva che stesse scherzando solo in parte, e il suo sogghigno sembrava forzato.

«Sempre che siano abbastanza vivi da vendere grano» mormorò Kireyin nella sua voce nasale annoiata. Si slacciò l’elmo argenteo con piume bianche e lo appoggiò sull’alto pomello della sua sella. Il suo sguardo superò Perrin e si soffermò brevemente su Berelain prima di girarsi per rivolgersi alle Aes Sedai nel medesimo tono stanco.

«Abbiamo intenzione di starcene seduti qui o di andare laggiù?»

Berelain inarcò un sopracciglio nella sua direzione, un’occhiata pericolosa, che ogni uomo con un po’ di cervello avrebbe notato. Kireyin non la notò.

I peli sul collo di Perrin stavano ancora tentando di rizzarsi, ancor di più ora che aveva visto la città. Forse era solo la parte di lui che era lupo, a cui le mura non piacevano. Ma credeva di no. La gente in cima alle mura li indicò e qualcuno teneva in mano dei cannocchiali. Quelli, perlomeno, sarebbero stati in grado di distinguere chiaramente gli stendardi. Tutti avrebbero potuto vedere i soldati, con i pennacchi sulle lance che sventolavano con la brezza mattutina. E quei pochi primi carri che si estendevano lungo la strada fin fuori dalla loro visuale. Forse tutta la gente delle fattorie era ammassata in città. «Non siamo venuti qui per starcene seduti» disse.

Erano state Berelain e Annoura a stabilire il metodo di approccio a So Habor. Il lord o la lady del luogo aveva di certo sentito dei saccheggi degli Shaido non molte miglia a nord della loro posizione, e poteva anche aver udito della presenza del Profeta nell’Altara. Una qualunque di queste voci era sufficiente a rendere chiunque cauto; assieme, potevano far arrivare la gente a scagliare frecce prima di chiedere ai loro bersagli di farsi riconoscere. In ogni caso, era altamente improbabile che in un primo momento avrebbero accolto soldati stranieri attraverso i loro cancelli. I lancieri rimasero spiegati lungo l’altura, a mostrare che questi visitatori possedevano una forza armata degna di nota perfino se sceglievano di non impiegarla. Non che So Habor sarebbe stata troppo impressionata da un centinaio di uomini, ma le armature brunite dei Ghealdani e quelle rosse delle Guardie Alate lasciavano intendere che quei visitatori non erano truffatori vagabondi. Gli uomini dei Fiumi Gemelli non avrebbero impressionato nessuno finché non li avessero visti utilizzare i loro archi, perciò rimasero indietro coi carri, per rinfrancare lo spirito dei carrettieri. Era tutta un’elaborata messinscena senza senso, come un uccello che arruffa le penne, ma Perrin era un fabbro di campagna, anche se lo chiamavano lord. La Prima di Mayene e una Aes Sedai avrebbero saputo come comportarsi in una situazione del genere.

Gallenne fece strada giù verso il fiume a passo lento, il vivido elmo cremisi appoggiato sulla sua sella, la schiena dritta. Perrin e Berelain cavalcavano a poca distanza, con Seonid in mezzo a loro e Masuri e Annoura da ambo i lati, le Aes Sedai con i loro cappucci tirati indietro in modo che chiunque su quelle mura fosse stato in grado di riconoscere un volto da Aes Sedai avrebbe avuto l’opportunità di vederne tre. Le Aes Sedai erano le benvenute in molti posti, perfino dove la gente in realtà avrebbe preferito non accoglierle. Dietro di loro venivano tutti e quattro i portabandiera, intervallati dai Custodi in quei loro mantelli da far storcere gli occhi. E Kireyin col suo elmo scintillante in equilibrio sulla sua coscia, indispettito per essere stato relegato a cavalcare con i Custodi e che ogni tanto guatava freddo dall’alto in basso Balwer, che procedeva in retroguardia con i suoi due compagni. Nessuno aveva detto a Balwer che poteva venire, tuttavia nessuno gli aveva detto che non poteva. Lui si curvava in un inchino ogni volta che il nobile lo guardava, poi tornava a esaminare le mura cittadine davanti a loro. Perrin non riusciva a scrollarsi di dosso il disagio mentre si avvicinavano alla città. Gli zoccoli dei cavalli schioccavano vuoti sul ponte meridionale, una larga struttura che si ergeva tanto alta sul rapido fiume da permettere a una chiatta come quelle legate al molo di passare facilmente con remi sensili. Nessuna delle ampie imbarcazioni dalla prua piatta era equipaggiata per fissare un albero. Una di quelle chiatte era per buona parte in acqua, inclinata contro le funi d’attracco tese, e anche l’altra pareva in qualche modo abbandonata. Un fetore rancido e aspro nell’aria lo costrinse a strofinarsi il naso. Nessun altro parve notarlo.

Vicino all’imboccatura del ponte, Gallenne fermò il suo cavallo. I cancelli chiusi, coperti di liste di ferro nero larghe un piede, lo avrebbero costretto a fermarsi comunque. «Abbiamo sentito dei problemi che affliggono questa terra,» esclamò con voce tonante agli uomini in cima alle mura, riuscendo a suonare formale pur gridando con quanto fiato aveva in corpo «ma noi siamo solo di passaggio, e veniamo per commerciare, non in cerca di guai; per comprare grano e altre cose utili, non per combattere. Ho l’onore di annunciare Berelain sur Paendrag Paeron, Prima di Mayene, Benedetta dalla Luce, Difesa delle Onde, Somma Carica di casa Paeron, venuta per parlare col signore o la signora di questa terra. Ho l’onore di annunciare Perrin t’Bashere Aybara...» Gettò lì la carica di Signore dei Fiumi Gemelli per Perrin, e diversi altri titoli su cui lui non aveva diritti e che non aveva mai udito prima, poi proseguì per le Aes Sedai, attribuendo a ciascuna l’intero onorifico e aggiungendo anche le loro Ajah. Era un resoconto davvero impressionante. Quando fece silenzio ci fu silenzio.

Fra le merlature in alto, uomini dalle facce sporche si scambiarono occhiate cupe e sussurri feroci, cambiando nervosamente di posto balestre e armi ad asta. Molti di loro erano vestiti con rozze giacche, ma Perrin credette di aver visto un uomo che, sotto uno strato di sporcizia, indossava quella che poteva essere seta. Era difficile da distinguere, sotto così tanto sudiciume rappreso. Perfino le sue orecchie non riuscivano a decifrare quello che stavano dicendo.

«Come sappiamo che siete vivi?» gridò infine una voce roca. Berelain batté le palpebre dalla sorpresa, ma nessuno rise. Era una domanda sciocca, tuttavia Perrin pensò che i peli dietro il suo collo si fossero davvero rizzati. C’era proprio qualcosa di storto, qui. Le Aes Sedai non parvero percepirlo. D’altra parte, le Aes Sedai potevano celare qualunque cosa dietro quelle impassibili maschere di fredda serenità. Le perle fra le treccine di Annoura tintinnarono debolmente quando lei scosse il capo. Masuri fece scorrere uno sguardo glaciale fra gli uomini sulle mura.

«Se devo provarvi che sono viva, ve ne pentirete» annunciò Seonid a gran voce con nitida inflessione cairhienese, un po’ più accalorata di quanto il suo volto non desse a intendere. «Se continuate a puntare quelle balestre verso di me, ve ne pentirete ancora di più.» Diversi uomini si affrettarono a sollevare le loro balestre per rivolgerle verso il cielo. Non tutti, però.

Altri sussurri percorsero la sommità delle mura, ma qualcuno doveva aver riconosciuto le Aes Sedai. Alla fine i cancelli si aprirono cigolando su enormi cardini arrugginiti. Un lezzo ripugnante provenne dalla città, il fetore che Perrin aveva avvertito prima, solo più forte. Sporco e sudore vecchi, mucchi di letame in decomposizione e pitali non svuotati da troppo tempo. Le orecchie di Perrin cercarono di contrarsi all’indietro. Gallenne fece per sollevare il suo elmo rosso come per rimetterselo in testa prima di spronare il suo grigio attraverso i cancelli. Perrin diede di stivali a Resistenza perché lo seguisse, allentando la sua ascia nell’anello alla cintura.

Appena all’interno del cancello, un uomo lurido in una giacca sbrindellata pungolò la gamba di Perrin con un dito, poi schizzò indietro quando Resistenza fece per morderlo. Una volta quel tizio era stato grasso, ma la sua giacca pendeva floscia come la sua pelle. «Volevo solo essere sicuro» borbottò, grattandosi il fianco con noncuranza. «Mio signore» aggiunse, con un istante di ritardo. I suoi occhi parvero concentrarsi sul volto di Perrin per la prima volta, e le dita con cui si stava grattando si immobilizzarono. Occhi dorati non erano qualcosa che si vedeva tutti i giorni, dopotutto.

«Vedete molti morti che camminano?» chiese Perrin in tono beffardo, cercando di farla suonare come una battuta, mentre dava delle pacche sul collo al suo baio. Un destriere da guerra addestrato voleva essere ricompensato per aver protetto il suo cavaliere. Il tizio sobbalzò come se il cavallo avesse snudato di nuovo i denti contro di lui; la sua bocca si contrasse in un sorriso a bocca aperta e scartò di lato. Finché non andò a sbattere forte contro la giumenta di Berelain. Gallenne era proprio dietro di lei, ancora con l’aria di essere pronto a indossare il suo elmo, il suo unico occhio che cercava di sorvegliare sei direzioni allo stesso tempo.

«Dove posso trovare il tuo signore o la tua signora?» domandò in tono impaziente. Mayene era una piccola nazione, ma Berelain non era avvezza a essere ignorata. «Tutti gli altri sembrano essere diventati muti, ma ti ho sentito usare la lingua. Allora? Parla.»

L’individuo alzò gli occhi per fissarla, umettandosi le labbra. «Lord Cowlin... lord Cowlin è... via. Mia signora.» I suoi occhi guizzarono verso Perrin, poi li distolse. «I mercanti di grano... Sono loro che vuoi. Si possono trovare sempre alla Chiatta dorata. Da quella parte.» Distese una mano che puntava vagamente a nord verso l’interno della città, poi all’improvviso si allontanò in tutta fretta, controllandoli da sopra la spalla come se temesse che potessero inseguirlo.

«Penso che dovremmo trovare qualche altro posto» disse Perrin. La paura di quel tizio era dovuta a qualcosa di più degli occhi dorati. Questo posto gli trasmetteva una sensazione... sbagliata.

«Ormai siamo qui, e non c’è nessun altro posto» replicò Berelain con tono molto pratico. In tutto quel fetore, Perrin non riusciva a percepire il suo odore; avrebbe dovuto affidarsi a ciò che udiva e vedeva, e il volto di lei era calmo quanto quello di una Aes Sedai.

«Sono stata in città che puzzavano peggio di questa, Perrin. Sono certa di esserci stata. E se questo lord Cowlin non c’è, non sarà la prima volta che tratto con dei mercanti. Non crederai sul serio che abbiano visto i morti camminare, vero?»

Cosa doveva rispondere a quelle parole un uomo senza suonare come un completo zuccone?

In ogni caso, gli altri si stavano già assiepando in prossimità dei cancelli, anche se non in una formazione ordinata, ora. Wynter e Alharra tallonavano Seonid come cani da guardia male assortiti, uno chiaro, l’altro scuro, ed entrambi pronti a squarciare gole in un batter d’occhio. Di certo avevano familiarità con So Habor. Kirklin, cavalcando accanto a Masuri, non pareva disposto nemmeno ad attendere che quell’occhio battesse: la sua mano era appoggiata sull’elsa della spada. Kireyin aveva una mano sul naso e uno sguardo torvo negli occhi che diceva che qualcuno l’avrebbe pagata per avergli fatto odorare questo lezzo. Anche Medore e Lattati parevano nauseati, ma Balwer si limitò a guardarsi attorno, inclinando la testa, poi condusse entrambi in una stradina laterale che conduceva a nord. Come aveva detto Berelain, ormai erano lì.

Gli stendardi colorati sembravano decisamente fuori posto mentre Perrin cavalcava attraverso le ristrette strade tortuose della città. Alcune erano piuttosto ampie per le dimensioni di So Habor, ma parevano compresse, come se gli edifici di pietra da entrambi i lati in qualche modo incombessero più alti dei loro due o tre piani e, per di più, fossero sul punto di crollare sulle loro teste. L’immaginazione le faceva sembrare anche fiocamente illuminate. Doveva essere l’immaginazione. Il cielo non era così grigio. Le persone riempivano lo sporco lastricato di pietra, ma non abbastanza da tener conto di tutte le fattorie abbandonate nella zona, e tutti andavano di fretta, a testa bassa. Non si precipitavano verso qualcosa, ma lontano da qualcosa. Nessuno guardava nessun altro. Con un fiume praticamente alle loro porte, si erano anche dimenticati come lavarsi. Perrin non vedeva una faccia senza uno strato di sporcizia o un indumento che non pareva essere stato indossato per meno di una settimana, e per un duro lavoro nel fango. Il fetore non fece che peggiorare quanto più si addentrarono nella città. Supponeva che ci si potesse abituare a tutto, col tempo. La cosa peggiore era la quiete. I villaggi erano silenziosi, a volte, anche se non così immobili come i boschi, ma in una città c’era sempre un debole mormorio, il suono di negozianti che mercanteggiavano e gente che se ne andava in giro per i propri affari. So Habor non sussurrava nemmeno. Pareva a malapena respirare.

Ottenere indicazioni migliori era difficile, dal momento che molte persone schizzavano via se rivolgevano loro la parola, ma alla fine smontarono davanti a quella che sembrava una locanda prospera, tre piani di pietre grigie ben allineate sotto un tetto d’ardesia, con un’insegna appesa fuori ad annunciare LA CHIATTA DORATA. Il cartello aveva perfino un tocco di doratura sulle lettere e sul grano impilato alto e scoperto sulla chiatta, come non sarebbe mai stato se avesse dovuto viaggiare per davvero. Non apparve nessuno stalliere dalle scuderie accanto alla locanda, perciò i portabandiera dovettero provvedere ai cavalli, un compito che non li rese felici. Tod mise così tanta attenzione nello scrutare i flussi di gente sporca che si affrettava lungo la strada e ad accarezzare l’elsa della sua spada corta, che per poco Resistenza non gli staccò un paio di dita quando lui prese le redini dello stallone. Pareva che il Mayenese e il Ghealdano desiderassero avere lance, invece di stendardi. Flann sembrava solo avere lo sguardo stralunato. Malgrado il sole del mattino, la luce pareva ombrosa. Entrare nella locanda non migliorò le cose.

A una prima occhiata, la sala comune confermava la prosperità della locanda, con tondi tavoli lucidati, vere e proprie sedie al posto delle panche e un alto soffitto di travi robuste. Le pareti erano dipinte con campi d’orzo, avena e miglio, che maturavano sotto un sole splendente, e un orologio dipinto con colori vividi si trovava sulla mensola intagliata sopra un ampio caminetto di pietra bianca. Il focolare era freddo, e l’aria gelida quasi quanto l’esterno. L’orologio era scarico e la lucidatura smorzata. Su ogni cosa c’era uno strato di polvere. Le uniche persone nella stanza erano sei uomini e cinque donne stretti alle loro bevande attorno a un tavolo ovale, più grande degli altri, posto nel mezzo della sala.

Uno degli uomini balzò in piedi con un’imprecazione, il volto che impallidiva sotto lo sporco, quando Perrin e gli altri entrarono. Una donna grassoccia con flosci capelli untuosi si portò la coppa di peltro alla bocca e provò a tracannarla così veloce che si versò il vino sul mento. Forse erano i suoi occhi. Forse.

«Cos’è successo in questa città?» chiese Annoura con decisione, gettando indietro il suo mantello come se un fuoco stesse ardendo nel caminetto. Lo sguardo calmo che fece passare fra le persone al tavolo le gelò tutte quante. All’improvviso Perrin si rese conto che né Masuri né Seonid l’avevano seguito dentro. Dubitava fortemente che stessero aspettando in strada con i cavalli. Cosa stessero facendo assieme ai loro Custodi era un mistero.

L’uomo che era balzato in piedi diede uno strattone al colletto della sua giacca con un dito. Quella giacca una volta era stata di eccellente lana blu, con una fila di bottoni dorati fino al collo, ma pareva che ci avesse rovesciato del cibo sul davanti per un po’ di tempo. Forse più di quello che aveva ingurgitato lui. Era un altro la cui pelle pendeva floscia. «S-successo, Aes Sedai?» balbettò.

«Sta’ zitto, Mycal!» si affrettò a esclamare una donna smunta. Il suo abito scuro era ricamato sull’alto colletto e lungo le maniche, ma lo sporco rendeva i colori incerti. I suoi occhi erano infossati. «Cosa ti fa pensare che sia successo qualcosa, Aes Sedai?»

Annoura avrebbe continuato, ma Berelain si inserì quando l’Aes Sedai fece per aprire di nuovo bocca. «Stiamo cercando i mercanti di grano.» L’espressione di Annoura non mutò, ma la sua bocca si richiuse con un sonoro schiocco.

Le persone attorno al tavolo si scambiarono lunghe occhiate. La donna smunta studiò Annoura per un momento, passando velocemente a Berelain e ovviamente considerando le sete e le gocce di fuoco. E il diadema. Allargò le sue gonne in una riverenza. «Siamo la gilda dei mercanti di So Habor, mia signora. Quello che rimane di...»

Interrompendosi, trasse un profondo, tremante respiro. «Sono Rahema Arnon, mia signora. Come possiamo servirti?»

I mercanti parvero rasserenarsi un po’ nell’apprendere che i loro visitatori erano venuti per grano e altre cose che potevano fornire, olio per lampade e per cucinare, fagioli e aghi e chiodi per ferri di cavallo, stoffa e candele e un’altra dozzina di cose di cui l’accampamento aveva bisogno. Perlomeno divennero un po’ meno timorosi. Qualunque mercante normale che avesse udito la lista di Berelain avrebbe dovuto reprimere un sorriso avido, ma questo gruppetto...

Comare Arnon urlò alla locandiera di portare del vino – «il vino migliore; presto, su; presto» – ma quando una donna dal naso lungo fece capolino esitante nella sala comune, comare Arnon dovette precipitarsi ad afferrarla per la manica sudicia per impedire che scomparisse di nuovo. Il tizio con la giacca macchiata di cibo chiamò qualcuno di nome Sperai perché portasse dei campioni, ma dopo aver gridato tre volte senza ottenere alcuna risposta, proruppe in una risata nervosa e schizzò in una stanza sul retro, per tornare un momento dopo con tre grossi contenitori cilindrici che appoggiò sul tavolo, ancora ridendo nervosamente. Gli altri esibirono un assortimento di sorrisi forzati mentre indicavano con inchini e riverenze un posto a sedere per Berelain a capo del tavolo ovale, uomini e donne dai volti untuosi che continuavano a grattarsi apparentemente senza rendersene conto. Perrin si infilò i guanti d’arme dietro la cintura e restò in piedi contro una parete dipinta a osservare.

Avevano convenuto di lasciare le contrattazioni a Berelain. Era disposta ad ammettere, pur riluttante, che lui ne sapeva di più sulla carne di cavallo, ma lei aveva negoziato trattati che coprivano la vendita di produzioni annuali di olio di pesce. Annoura aveva mostrato un lieve sorriso alla proposta che un campagnolo arricchito potesse partecipare. Non lo chiamava a quel modo – poteva rivolgersi a lui come ‘mio signore’ con altrettanta cortesia quanto Masuri o Seonid – tuttavia era chiaro che riteneva che alcune faccende andassero chiaramente oltre le sue capacità. Non stava sorridendo in quel momento, in piedi dietro Berelain e intenta a studiare i mercanti come per memorizzarne le facce. La locandiera portò del vino, in calici di peltro che avevano visto uno strofinaccio per l’ultima volta settimane prima se non mesi, ma Perrin si limitò a scrutare nel suo e a rimestare la coppa. Comare Vadere, la locandiera, aveva sporco sotto le unghie e incastrato fra le nocche come parte della sua pelle. Perrin notò che anche Gallenne, in piedi con la schiena contro la parete opposta e con una mano sull’elsa della sua spada, si limitava a tenere in mano la coppa, e Berelain la sua non la toccò nemmeno. Kireyin annusò il suo vino, poi lo tracannò e disse a gran voce a comare Vadere di portargliene una caraffa.

«Roba leggera, per essere definita il vostro vino migliore,» disse alla donna con voce nasale e guardandola con aria altezzosa «ma potrebbe lavar via la puzza.» Lei lo fissò priva di espressione, poi andò a prendere un’alta caraffa di peltro che portò al suo tavolo senza dire una parola. Apparentemente Kireyin scambiò il suo silenzio per rispetto. Mastro Crossin, il tizio nella giacca macchiata di cibo, svitò i coperchi dei contenitori di legno e versò sul tavolo campioni privi di pula del grano che avevano da offrire in mucchietti, miglio giallo e avena marrone, l’orzo di un bruno appena più scuro. Non ci sarebbe stata pioggia prima del raccolto. «La migliore qualità, come puoi vedere» disse.

«Sì, la migliore.» Il sorriso scivolò via dal volto di comare Arnon, e lei lo mostrò di nuovo con uno sforzo. «Vendiamo solo la migliore.»

Per gente che decantava la propria mercanzia come la migliore, non parevano contrattare molto. Perrin in patria aveva visto uomini e donne vendere la tosatura della lana e il tabacco a mercanti giunti da Baerlon, e loro screditavano sempre le offerte degli acquirenti, a volte lamentandosi che stavano cercando di ridurli sul lastrico quando il prezzo era due volte quello dell’anno precedente, o perfino lasciando intendere che avrebbero potuto aspettare fino all’anno successivo per vendere. Era una danza tanto intricata quanto quelle di un giorno di festa.

«Suppongo che potremmo abbassare ulteriormente il prezzo per una quantità tanto ingente» disse un uomo dall’incipiente calvizie a Berelain, grattandosi la barba striata di grigio. Era tagliata corta, e tanto untuosa da aderirgli al mento. Solo a guardarlo, anche a Perrin veniva voglia di grattarsi la propria.

«È stato un inverno duro» borbottò una donna dal viso tondo. Solo due degli altri mercanti si preoccuparono di rivolgerle un’occhiataccia. Perrin appoggiò la sua coppa di vino su un tavolo accanto e si avvicinò al capannello nel mezzo della stanza. Annoura gli scoccò un penetrante sguardo d’avvertimento, ma diversi mercanti lo fissarono con curiosità. E con cautela. Gallenne aveva fatto di nuovo le presentazioni, ma a questa gente non era del tutto chiaro dove si trovasse Mayene con esattezza o quanto fosse potente, e per loro i Fiumi Gemelli significavano solo buon tabacco. Il tabacco dei Fiumi Gemelli era rinomato dappertutto. Se non fosse stato per la presenza di una Aes Sedai, i suoi occhi avrebbero potuto farli scappare. Tutti si azzittirono quando Perrin raccolse una manciata di miglio, le minuscole sfere lisce e di un vivido giallo nel suo palmo. Quel grano era la prima cosa pulita che aveva visto in città. Lasciando che i chicchi si spargessero di nuovo sul tavolo, prese il coperchio di uno dei contenitori. La filettatura intagliata nel legno era precisa e come nuova. Il coperchio avrebbe chiuso il contenitore ermeticamente. Gli occhi di comare Arnon scivolarono via dai suoi e lei si umettò le labbra.

«Voglio vedere il grano nei magazzini» disse. Metà delle persone al tavolo si agitò bruscamente.

Comare Arnon si tirò in piedi, infuriata. «Noi non vendiamo quello che non abbiamo. Puoi osservare i nostri braccianti caricare ogni sacco sui tuoi carri, se vuoi trascorrere ore al freddo.»

«Anch’io stavo per proporre una visita ai magazzini» si inserì Berelain. Alzandosi, prese i suoi guanti rossi dalla cintura e cominciò a infilarseli. «Non comprerei mai del grano senza aver visto prima il magazzino.»

Comare Arnon si afflosciò. L’uomo calvo mise la testa sul tavolo. Nessuno disse nulla, però. I mercanti scoraggiati non si preoccuparono di andare a prendere i loro mantelli prima di condurli in strada. La brezza si era intensificata fino a diventare vento, freddo come solo quello invernale poteva essere quando la gente stava già pregustando la primavera, ma loro parvero non notarlo. Le loro spalle ingobbite non avevano nulla a che fare col freddo.

«Possiamo andare adesso, lord Perrin?» chiese Flann ansioso quando Perrin e gli altri comparvero. «Questo posto mi mette voglia di fare un bagno.» Annoura nel passare gli scoccò un’occhiataccia che lo fece trasalire come uno dei mercanti. Flann cercò di risponderle con un sorriso tranquillizzante, ma fu un magro sforzo e troppo in ritardo e non riuscì a rivolgerlo ad altro che alla sua schiena.

«Non appena sarà possibile» rispose Perrin. I mercanti si stavano già affrettando lungo la strada, con le teste basse e senza guardare nessuno. Berelain e Annoura riuscivano a stare loro dietro senza che sembrassero correre, procedendo l’una con la stessa compostezza dell’altra, due signore eleganti fuori per una passeggiata, che non si curavano del sudiciume sotto i loro piedi, o del lezzo nell’aria, o della gente lurida che incrociandole le fissava e alle volte scappava via più in fretta che poteva. Gallenne aveva infine indossato il suo elmo e teneva apertamente l’elsa della spada con entrambe le mani, pronto a estrarla. Kireyin portava il proprio elmo contro l’anca, l’altra mano occupata dalla sua coppa di vino. Osservando con sprezzo la gente dal volto sporco che si affrettava lì attorno, annusò il vino come se fossero dei sali per cacciare via il fetore della città.

I magazzini erano situati in una strada lastricata poco più larga di un carro, fra le due mura di cinta cittadine. L’odore era meno forte qui, vicino al fiume, ma le strade battute dal vento erano vuote eccezion fatta per Perrin e gli altri. I cani scomparivano quando una città era ridotta alla fame, ma perché mai una città con tanto grano da vendere poteva trovarsi in quella situazione? Perrin indicò un magazzino a due piani scelto a caso, non dissimile da qualunque altro, un edificio di pietra privo di finestre con un’ampia coppia di porte di legno tenute chiuse da una sbarra anch’essa di legno che alla Chiatta dorata avrebbe potuto fungere da trave per il soffitto.

I mercanti si ricordarono all’improvviso di essersi dimenticati di portare degli uomini per sollevare le sbarre. Si offrirono di tornare indietro a prenderli. Lady Berelain e Annoura Sedai potevano riposarsi di fronte al fuoco alla Chiatta dorata nel frattempo. Erano certi che comare Vadere avrebbe acceso un fuoco. Le loro lingue ammutolirono quando Perrin mise una mano sotto la spessa trave e la sollevò dai supporti in legno. Quell’affare era pesante, ma lui indietreggiò reggendolo per avere spazio per girarsi e gettarlo in strada con uno schianto. I mercanti lo fissarono stupefatti. Era probabile che fosse la prima volta che vedevano un uomo in una giacca di seta fare qualcosa che poteva essere definito lavoro. Kireyin roteò gli occhi e annusò di nuovo il suo vino.

«Lanterne» disse debolmente comare Arnon. «Ci serviranno lanterne o torce, se...»

Un sfera di luce apparve fluttuando sopra la mano di Annoura, emettendo un bagliore tanto brillante nel grigio mattino da proiettare deboli ombre di ognuno sul selciato e sui muri di pietra. Alcuni dei mercanti sollevarono le mani per schermarsi gli occhi. Dopo un momento, mastro Crossin aprì la porta dando uno strattone a un anello di ferro.

L’odore all’interno era il familiare aroma pungente di orzo, quasi tanto forte da sormontare il lezzo della città e oltre. Piccole sagome indistinte si mossero furtivamente nelle ombre di fronte alla luce di Annoura. Perrin avrebbe potuto vedere meglio senza di essa, o quantomeno più in profondità nel buio. La sfera luccicante proiettò una vasta pozza di luce, separando quello che si trovava oltre. Lui percepì odore di gatti, più selvatici che no. E anche ratti. Un improvviso squittio nelle nere profondità del magazzino, subito interrotto, indicò che un gatto aveva incontrato un ratto. C’erano sempre ratti nei granai, e gatti che davano loro la caccia. Era confortante e normale. Quasi sufficiente a placare il suo disagio. Quasi. Percepì qualcos’altro, un odore che avrebbe dovuto conoscere. Un feroce miagolio in profondità nel magazzino si tramutò in acute grida di dolore che morirono all’improvviso. A quanto pareva, i ratti di So Habor a volte si vendicavano. I peli sul collo di Perrin cercarono di rizzarsi di nuovo, ma di certo qui non c’era nulla che il Tenebroso avrebbe voluto spiare. La maggior parte dei ratti erano solo ratti.

Non ci fu bisogno di addentrarsi molto. Sacchi scadenti riempivano l’oscurità, in alte pile pendenti sopra basse pedane di legno per tenerli sollevati dal pavimento di pietra. File e file di cumuli impilati quasi fino al soffitto, e probabilmente lo stesso valeva per il piano di sopra. Quantomeno, in questo edificio era conservato ancora abbastanza grano da nutrire la sua gente per settimane. Dirigendosi verso il sacco più vicino, conficcò il suo coltello in un sacco marrone pallido, tagliando fino in fondo le dure fibre di iuta. Una pioggia di chicchi d’orzo si riversò fuori. E, nitide nel bagliore della brillante luce di Annoura, delle macchioline nere che si contorcevano. Larve del grano, numerose quanto i chicchi d’orzo. Il loro odore era più forte di quello dell’orzo. Larve. Desiderò che i peli sulla nuca smettessero di tentare di rizzarsi. Il freddo avrebbe dovuto essere sufficiente a uccidere le larve. Quell’unico sacco era una prova sufficiente, e il suo naso ora distingueva l’odore delle larve, ma si spostò verso una pila, poi un’altra e un’altra ancora, ogni volta aprendo un sacco col suo coltello. Da ognuno si spande a terra un fiotto di orzo marrone e larve nere. I mercanti erano accalcati sulla porta, il sole alle loro spalle, ma la luce di Annoura mise in netto rilievo i loro volti. Facce preoccupate. Facce disperate.

«Saremmo più che lieti di passare al setaccio ogni sacco che vendiamo» disse comare Arnon in tono incerto. «Solo per una minima maggiorazione di...»

«Per metà dell’ultimo prezzo da me offerto» la interruppe bruscamente Berelain. Arricciando il naso dal disgusto, allontanò le sue gonne dalle larve che zampettavano fra il grano sul pavimento. «Non le toglierete mai tutte.»

«E niente miglio» disse Perrin in tono cupo. I suoi uomini avevano bisogno di cibo, e così i soldati, ma i chicchi di miglio erano a malapena più grandi delle larve. Potevano setacciare quanto volevano, ma avrebbero comunque ottenuto larve e miglio in eguai misura.

«Prenderemo più fagioli, invece. Ma anche quelli andranno passati al setaccio.»

All’improvviso qualcuno in strada urlò. Non un gatto o un ratto, ma un uomo in preda al terrore. Perrin non si rese nemmeno conto di aver estratto la sua ascia finché non si ritrovò l’impugnatura in mano mentre si faceva strada a spintoni fra i mercanti sulla soglia. Si erano stretti assieme ancor di più, umettandosi le labbra e non cercando neanche di vedere chi aveva urlato.

Kireyin era addossato contro il muro di un magazzino dall’altro lato della strada, il suo elmetto lucente con la piuma bianca per terra sul selciato accanto alla sua coppa di vino. La spada dell’uomo era per metà fuori dal fodero, ma lui sembrava paralizzato, che fissava con occhi strabuzzati la parete dell’edificio da cui Perrin era appena uscito. Perrin gli toccò il braccio e lui sussultò.

«C’era un uomo» disse il Ghealdano, incerto. «Era proprio lì. Mi ha guardato e...» Kireyin si strofinò una mano sulla faccia. Nonostante il freddo, del sudore gli luccicava sulla fronte. «È passato attraverso il muro. L’ha fatto. Devi credermi.» Qualcuno gemette; uno dei mercanti, pensò Perrin.

«Anch’io ho visto quell’uomo» disse Seonid dietro di lui, e fu il suo turno di sobbalzare. Il suo naso era inutile in questo posto!

Dando un’ultima occhiata al muro che Kireyin aveva indicato, l’Aes Sedai si allontanò da esso con palpabile riluttanza. I suoi Custodi erano uomini alti, che torreggiavano sopra di lei, ma si tenevano solo a distanza sufficiente per avere spazio per estrarre le spade. Anche se Perrin non riusciva a immaginare cosa dovessero combattere quei Custodi dallo sguardo torvo, se Seonid diceva sul serio.

«Trovo difficile mentire, lord Perrin» disse Seonid con voce asciutta quando lui si mostrò dubbioso, ma il suo tono divenne presto serio come il suo viso e i suoi occhi, talmente penetranti che da soli cominciarono a far sentire Perrin a disagio. «I morti camminano per So Habor. Lord Cowlin ha abbandonato la città per paura dello spirito di sua moglie. Sembra che ci siano stati dei dubbi su come sia morta. Non c’è uomo o donna nella città che non abbia visto una persona morta, e molti ne hanno vista più d’una. Alcuni dicono il tocco dei morti abbia ucciso della gente. Non sono in grado di verificarlo, ma alcune persone sono morte di spavento, e altre di conseguenza. Nessuno va in giro di notte a So Habor, o entra in una stanza senza preavviso. La gente si avventa contro le ombre o qualunque cosa li colga di sorpresa con quello che trova a portata di mano, e talvolta trova il proprio marito, moglie o vicino morto ai suoi piedi. Questa non è isteria o una storiella per spaventare i bambini, lord Perrin. Non ho mai sentito nulla del genere, ma è reale. Devi lasciar qui una di noi per fare il possibile.»

Perrin scosse lentamente il capo. Non poteva permettersi di perdere una Aes Sedai se doveva liberare Faile. Comare Arnon cominciò a piangere ancor prima che lui dicesse: «So Habor dovrà affrontare i suoi morti da sola.»

Ma la paura dei morti era una spiegazione solo fino a un certo punto. Forse la gente era troppo spaventata per pensare di lavarsi, ma pareva improbabile che la paura colpisse tutti a quel modo. Pareva che non gliene importasse più nulla. E le larve che prosperavano in inverno, in un freddo gelido? C’era di peggio a So Habor degli spiriti che camminavano, e ogni istinto dentro di lui gli diceva di andarsene a rotta di collo, senza guardarsi indietro. Desiderava davvero poterlo fare.

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