Il sole della sera era un globo insanguinato sopra la sommità degli alberi, che proiettava una luce sinistra per l’accampamento, una distesa scomposta e ad ampi intervalli di linee di cavalli, carri coperti di tela, carretti dalle alte ruote, tende di ogni tipo e dimensione, con la neve negli spazi che separavano ognuna di queste cose ormai ridotta in fanghiglia dai numerosi passaggi. Non era il momento della giornata o il genere di posto in cui Elenia avrebbe desiderato trovarsi in sella al proprio cavallo. L’odore di manzo a lessare che si spandeva dai neri pentoloni di ferro era sufficiente a farle rivoltare lo stomaco. L’aria fredda condensava il suo respiro e annunciava una notte ancora più rigida, e il vento attraversava il suo miglior mantello rosso senza essere smorzato dallo spesso rivestimento di costosa pelliccia bianca. Si diceva che la pelliccia di volpe delle nevi fosse più calda delle altre, ma a lei pareva che non fosse così.
Tenendo chiuso il mantello con una mano guantata, procedette lentamente e cercò con tutte le sue forze di non tremare, ma senza molto successo. Data l’ora, sembrava quanto mai probabile che avrebbe trascorso la notte qui, ma finora non aveva alcuna idea su dove avrebbe dormito. Senza dubbio nella tenda di qualche nobile minore, con il lord o la lady che sarebbero dovuti andare a trovare rifugio da qualche altra parte cercando di apparire cortesi pur essendo stati sfrattati, ma ad Arymilla piaceva lasciarla sulle spine fino all’ultimo momento, per i letti e qualunque altra cosa. Non riusciva a dissipare un dubbio che subito un altro lo rimpiazzava. Era chiaro che la donna pensava che quella costante incertezza l’avrebbe messa in imbarazzo, fino forse a farla sforzare per compiacerla. Questa non era certo l’unica conclusione errata di Arymilla, a cominciare dal fatto che credeva che le grinfie di Elenia Sarand fossero state spuntate.
Come scorta aveva appena quattro uomini con due cinghiali dorati sui loro mantelli – e la sua cameriera Janny, ovviamente, raggomitolata nella sua cappa fino ad assomigliare a un groviglio di lana verde ammucchiato sulla sua sella – e nell’accampamento non aveva visto nessun altro della cui lealtà nei confronti di Sarand poteva essere certa. Qua e là un capannello di uomini accalcati attorno ai fuochi da campo con le loro sarte e lavandaie esponeva la volpe rossa della casata Anshar, e una doppia colonna di cavalieri che indossavano il martello alato di Baryn la superò procedendo in direzione contraria a passo lento, i volti duri dietro le sbarre dei loro elmi. Non avrebbe potuto fare affidamento su di loro, nel lungo periodo. Karind e Lir erano rimasti scottati malamente per essersi mossi con troppa lentezza quando Morgase aveva preso il trono. Stavolta avrebbero portato Anshar e Baryn ovunque avessero percepito un vantaggio nell’istante in cui l’avessero visto chiaramente, abbandonando Arymilla con tanta prontezza quanta quella con cui si erano uniti a lei. Una volta giunto il momento.
Molti degli uomini che arrancavano attraverso la poltiglia fangosa o scrutavano speranzosi in quei pentoloni disgustosi erano soldati di leva, agricoltori e paesani radunati quando il loro lord o lady si era messo in marcia, e pochi portavano un qualche genere di stemma della casata sulle loro giacche logore e sui mantelli rattoppati. Era quasi impossibile perfino separare apparenti soldati da maniscalchi, fabbricanti di frecce e simili, dato che quasi tutti avevano alla cintura una qualche spada o ascia. Per la Luce, perfino molte delle donne portavano coltelli grandi abbastanza da poter essere definiti spade corte, ma non c’era modo di distinguere la moglie di qualche contadino coscritto da una conducente di carri. Indossavano la stessa lana spessa e avevano le medesime mani ruvide e facce stanche. Non aveva molta importanza, in ogni caso. Questo assedio invernale era un errore madornale – gli armigeri avrebbero cominciato a patire la fame molto prima della città – ma dava a Elenia un’opportunità, e quando le opportunità si presentavano, bisognava coglierle. Scostando il suo cappuccio quanto bastava per mostrare chiaramente le sue fattezze malgrado il vento gelido, rivolse un cenno col capo a qualunque sporco zotico le lanciasse anche solo un’occhiata e ignorò i sussulti di sorpresa con cui alcuni reagivano alla sua condiscendenza.
Molti di loro avrebbero ricordato la sua affabilità, così come i cinghiali dorati indossati dalla sua scorta, e avrebbero saputo che Elenia Sarand li aveva notati. Il potere si basava su queste fondamenta. Un Sommo Signore, così come una regina, si trovava in cima a una torre costituita da persone. Sì, quelli in fondo potevano essere mattoni dell’argilla più vile, tuttavia, se quei comunissimi mattoni si sbriciolavano per il peso che sostenevano, la torre crollava. Era qualcosa che Arymilla pareva aver dimenticato, se mai l’aveva saputo. Elenia dubitava che Arymilla parlasse a chiunque avesse un rango inferiore a un intendente o a un servitore personale. Se fosse stato... prudente... lei stessa avrebbe scambiato qualche parola a ogni fuoco da campo, forse stringendo una mano sudicia ogni tanto, ricordando persone che aveva incontrato in precedenza o almeno dissimulando piuttosto bene per far sembrare che fosse così. Ad Arymilla mancava l’intelligenza per essere regina, puro e semplice.
L’accampamento si estendeva su un territorio più esteso di molte cittadine, più simile a un centinaio di accampamenti raggnippati di varie dimensioni che a uno, perciò era libera di andare in giro senza preoccuparsi troppo di avvicinarsi ai margini esterni, ma rimase comunque cauta. Le sentinelle sarebbero state educate, a meno che non fossero dei completi sciocchi, tuttavia era fuor di dubbio che avessero i loro ordini. In linea di principio, lei approvava che le persone facessero ciò che veniva loro ordinato, ma sarebbe stato meglio evitare incidenti imbarazzanti. Specialmente per via delle probabili conseguenze se Arymilla avesse davvero pensato che lei stava cercando di andarsene. Era già stata costretta a sopportare una notte nel gelo di una lurida tenda di un soldato qualunque, un riparo a malapena degno di quel nome, con tanto di parassiti e buchi malamente rattoppati, per non parlare del fatto che non c’era neanche Janny ad aiutarla coi suoi vestiti e ad aggiungere un po’ di calore sotto quella misera imitazione di coperte, e quella era stata una punizione per quella che Arymilla aveva considerato una mancanza di rispetto. Be’, era stata una vera mancanza, ma non aveva pensato che Arymilla sarebbe stata tanto sveglia da accorgersene. Luce, e pensare che era lei a dover muoversi con cautela in presenza di quella... di quella sempliciotta dal cervello di gallina! Tenendo il mantello più stretto attorno a sé, cercò di fingere che il suo tremito fosse solo una reazione al vento. C’erano faccende migliori su cui riflettere. Faccende più importanti. Rivolse un cenno col capo a un giovane uomo dagli occhi sgranati con una sciarpa scura avvolta attorno alla testa e quello indietreggiò come se lei gli avesse scoccato un’occhiataccia. Stupido bifolco!
La infastidiva pensare che, solo a poche miglia di distanza, quella sfacciata di Elayne se ne stava comoda e al calduccio fra gli agi del Palazzo Reale, assistita da dozzine di servitori ben addestrati e probabilmente senza altri pensieri per la testa tranne cosa indossare stasera per una cena preparata dai cuochi di palazzo. Girava voce che la ragazza fosse incinta, probabilmente di un uomo della sua scorta. Poteva darsi che fosse così. Elayne non aveva mai avuto un senso del decoro maggiore di quello di sua madre. Lì Dyelin era il cervello, una mente acuta e pericolosa nonostante la sua patetica mancanza di ambizione. Forse consigliata da una Aes Sedai. Doveva esserci almeno una vera Aes Sedai fra tutte quelle assurde dicerie.
Dalla città uscivano così tante favole che distinguere la realtà dalle sciocchezze diventava difficile – il Popolo del Mare che creava buchi nell’aria? Una completa stupidaggine! Tuttavia la Torre Bianca aveva chiaramente un interesse nel mettere una di loro sul trono. Come sarebbe potuto essere diversamente? Anche in questo caso, però, Tar Valon pareva pragmatica quando si trattava di questioni del genere. La storia mostrava chiaramente che, chiunque fosse salita al Trono del Leone, avrebbe presto scoperto di essere stata colei che la Torre aveva preferito fin dall’inizio. Le Aes Sedai non avrebbero perso il loro rapporto con l’Andor per una mancanza di scioltezza, in particolare non ora che la Torre stessa era lacerata. Elenia era tanto certa di questo quanto del suo stesso nome. In effetti, se la metà di quello che udiva sulla situazione della Torre era vero, la prossima regina di Andor avrebbe avuto la possibilità di esigere qualunque cosa volesse in cambio per mantenere intatto quel rapporto. In ogni caso, nessuno avrebbe posto la Corona di Rose in testa alla prossima regina prima dell’estate come minimo, e per allora parecchio poteva cambiare. Davvero parecchio. Stava facendo il suo secondo giro dell’accampamento quando, alla vista di un altro piccolo manipolo a cavallo davanti a lei, che procedeva lento fra i fuochi da campo sparpagliati nella luce morente, si accigliò e arrestò bruscamente la propria cavalcatura. Le donne erano avvolte in mantelli e coi volti nascosti nel profondo dei cappucci, una in un abito di robusta seta blu orlato di pelliccia nera, l’altra in semplici vestì di lana grigia, ma le triplici chiavi argentee che decoravano i mantelli degli armigeri rivelavano chiaramente la loro identità. A Elenia venne in mente un gran numero di persone che avrebbe preferito incontrare al posto di Naean Arawn. In ogni caso, sebbene Arymilla non avesse precisamente impedito loro di incontrarsi in sua assenza – Elenia digrignò i denti tanto da sentirne perfino il rumore, e si costrinse a rimanere impassibile – per il momento sembrava saggio non incalzare gli eventi. Specialmente quando un incontro del genere non poteva portare ad alcun beneficio.
Purtroppo Naean la vide prima che potesse cambiare strada. La donna parlò frettolosamente alla sua scorta, e, mentre armigeri e cameriera si stavano ancora inchinando sulle loro selle, spronò il suo destriero verso Elenia a un’andatura tale che gli zoccoli del suo castrone nero fecero schizzare in giro zolle di fanghiglia. Che la Luce folgorasse quella sciocca! D’altro canto, qualunque cosa stesse spingendo Naean ad agire in modo avventato poteva rivelarsi preziosa da sapere, e pericolosa da ignorare. Era possibile, ma scoprirlo presentava i suoi rischi.
«Restate qui e ricordate che non avete visto nulla,» disse bruscamente Elenia al suo magro seguito e piantò i talloni nei fianchi di Vento dell’Alba senza attendere alcuna replica. Non aveva bisogno di riverenze e inchini elaborati ogni volta che si girava, non oltre quello che il decoro esigeva, e i suoi uomini sapevano che non era il caso di fare altro a parte ciò che lei comandava. Erano tutti gli altri quelli di cui doveva preoccuparsi, che fossero tutti folgorati! Mentre il baio dalle lunghe zampe scattava in avanti, perse la stretta sul proprio mantello ed esso sventolò dietro di lei come lo stendardo cremisi di Sarand. Si agitò di fronte ad agricoltori e la Luce sapeva chi, e lei si rifiutò di riportarlo sotto controllo, perciò il vento la sferzò attraverso il vestito per cavalcare, un altro motivo di irritazione.
Perlomeno Naean ebbe il buon senso di rallentare e incontrarla a circa metà strada, accanto a un paio di carri straccimi con le stanghe che giacevano nella melma. Il fuoco più vicino era quasi a venti passi di distanza, e le tende più prossime ancora più lontane, i loro lembi di ingresso allacciati stretti per tenere fuori il freddo. Gli uomini presso i fuochi erano concentrati sui grossi pentoloni di ferro fumanti sulle fiamme, e se il fetore che proveniva era sufficiente a far desiderare a Elenia di vuotare lo stomaco, perlomeno il vento che spandeva quella puzza avrebbe impedito a parole vaganti di raggiungere le loro orecchie. Ma era meglio che fossero parole importanti.
Con un viso pallido come l’avorio nella sua cornice di pelliccia nera, Naean avrebbe potuto essere definita bellissima da alcuni, malgrado più di un accenno di severità attorno alla bocca e occhi freddi quanto ghiaccio azzurro. A schiena dritta e all’apparenza piuttosto calma, sembrava imperturbata dagli eventi. Il suo respiro, che si condensava in una nebbiolina bianca, era calmo e regolare. «Sai dove dormiremo stanotte, Elenia?» disse in tono freddo.
Elenia non fece alcuno sforzo per trattenersi dallo scoccarle un’occhiataccia. «È questo che vuoi?» Rischiare il disappunto di Arymilla per una domanda insensata! La possibilità di provocare lo scontento di Arymilla, la sola riflessione che la sua disapprovazione era qualcosa da evitare, la fece grugnire. «Ne so quanto te, Naean.»
Strattonando le proprie redini, stava già per voltare la sua cavalcatura quando Naean parlò di nuovo, con appena un accenno di animosità.
«Non giocare alla sempliciotta con me, Elenia. E non dirmi che non sei pronta a staccarti il piede a morsi per fuggire da questa trappola come me. Ora, possiamo almeno far finta di comportarci in modo educato?»
Elenia mantenne Vento dell’Alba semivoltato rispetto all’altra donna e la guardò di lato, oltre il bordo del suo cappuccio orlato di pelliccia. In quel modo poteva anche tenere d’occhio gli uomini ammassati attorno al fuoco più vicino. Niente stemmi di casate in mostra lì. Forse non appartenevano a nessuna. Di tanto in tanto un tizio o un altro con le mani nude ficcate sotto le ascelle lanciava un’occhiata verso le due lady a cavallo, ma il loro vero interesse era insinuarsi abbastanza vicino al fuoco da riscaldarsi. Quello, e quanto ci sarebbe voluto perché il manzo bollisse fino a diventare qualcosa di simile a una poltiglia. Quella marmaglia pareva in grado di mangiare qualunque cosa.
«Tu pensi di poter scappare?» chiese piano. L’educazione andava benissimo, ma non al costo di rimanere più tempo del necessario qui dove tutti le potevano vedere. Se Naean conosceva una via d’uscita, però... «Come? L’impegno che hai siglato per appoggiare Marne a quest’ora è stato esposto in metà dell’Andor. Inoltre, non puoi certo pensare che Arymilla ti consentirà semplicemente di allontanarti.»
Naean trasalì, ed Elenia non riuscì a trattenere uno stretto sorriso. La donna non era così imperturbabile come voleva far sembrare. Riusciva ancora a mantenere la voce equilibrata, però.
«Ieri ho visto Jarid, Elenia, e perfino da lontano pareva come una nube temporalesca, ed era lanciato al galoppo così forte da rischiare di rompere il collo del suo cavallo e il proprio. Se conosco tuo marito, sta già elaborando un piano per fornirti una via d’uscita. Sputerebbe nell’occhio del Tenebroso per te.» Era vero: l’avrebbe fatto. «Sono certa che riesci a capire che sarebbe meglio se io facessi parte di quei piani.»
«Mio marito ha siglato il tuo stesso impegno, Naean, ed è un uomo onorevole.» Era fin troppo onorevole, in effetti, ma i voleri di Elenia erano stati la sua guida da prima dei loro voti nuziali. Jarid aveva firmato l’impegno perché lei gli aveva scritto dicendogli di farlo, non che Elenia avesse molta scelta in proposito, e lui l’avrebbe perfino respinto, pur con riluttanza, se fosse stata tanto folle da chiederglielo. Certo, c’era il problema di fargli sapere quello che lei voleva al momento. Arymilla era molto attenta a fare in modo che non si trovassero a meno di un miglio di distanza. Lei aveva la situazione in mano – per quanto poteva, in quelle circostanze – ma le occorreva farlo sapere a Jarid, anche solo per impedirgli di ‘fornirle una via d’uscita’. Sputare nell’occhio del Tenebroso? Lui poteva portarle entrambe alla rovina nella convinzione di aiutarla, e poteva perfino farlo con la consapevolezza che avrebbe significato la loro rovina. Le occorse un grosso sforzo per impedire alla frustrazione e alla furia che all’improvviso stavano montando dentro di lei di farsi strada sul suo viso, ma lo dissimulò con un sorriso. Era decisamente orgogliosa della sua capacità di esibire un sorriso per qualunque situazione. Questo conteneva una punta di sorpresa. E un tocco di sdegno. «Non sto architettando nulla, Naean, e nemmeno Jarid, ne sono certa. Ma se lo stessi facendo, perché mai dovrei includere te?»
«Perché se non vengo inclusa in quei piani,» disse in tono schietto Naean «Arymilla potrebbe venirne a conoscenza. Potrà pure essere stupida e cieca, ma vedrà una volta che le verrà detto dove guardare. E potresti ritrovarti a condividere una tenda col tuo promesso sposo ogni notte, e protetta dai suoi armigeri, per di più.»
Il sorriso di Elenia si dissolse, ma la sua voce si fece gelida, proprio come il groppo freddo che tutt’a un tratto le riempì lo stomaco.
«Farai bene a stare attenta a quello che dici, altrimenti Arymilla potrebbe chiedere al suo Tarabonese di giocare di nuovo al labirinto di fili con te. In verità, penso di potertelo garantire.»
Sembrava impossibile che la faccia di Naean potesse impallidire ancora di più, tuttavia lo fece. Ondeggiò per davvero sulla sella e afferrò il braccio di Elenia come per impedirsi di cadere. Una raffica di vento sferzò il suo mantello, e lei lo lasciò svolazzare. Quegli occhi prima freddi ora erano piuttosto sgranati. La donna non faceva alcuno sforzo per celare la sua paura. Forse era arrivata a un punto in cui non era più in grado di nasconderla. La voce le uscì affannata e atterrita. «So che tu e Jarid state architettando qualcosa, Elenia. Lo so! Portami con te e... e io farò schierare Arawn per te non appena sarò libera da Arymilla.» Oh, doveva essere davvero scossa, per proporre una cosa del genere.
«Vuoi attirare ancora più attenzione di quanto tu non abbia già fatto?» sbottò Elenia, liberandosi dalla stretta dell’altra donna. Vento dell’Alba e il castrone nero saltellarono nervosamente, assumendo l’umore delle loro cavallerizze, ed Elenia diede uno strattone alle redini del suo baio per calmarlo. Due degli uomini presso il fuoco si affrettarono a chinare il capo. Senza dubbio pensavano di vedere due nobildonne che litigavano nel grigiore della sera e non volevano attirare su sé stessi parte di quella rabbia. Sì; doveva trattarsi solo di quello. Potevano riferire qualcosa, ma sapevano che non era il caso di immischiarsi nelle discussioni della gente importante.
«Non ho nessun piano per... fuggire; proprio nessuno» disse con voce più calma. Chiudendo di nuovo il suo mantello, voltò con calma la testa per controllare i carri e le tende lì vicino. Se Naean era abbastanza spaventata... Quando si fosse presentata un’opportunità... Non c’era nessuno tanto vicino da poter sentire, ma nonostante tutto lei tenne la voce bassa. «Le cose potrebbero cambiare, ovviamente. Chi può dirlo?
Se così fosse, ti faccio questa promessa, nel nome della Luce e per la mia speranza di rinascita, che non me ne andrò senza di te.» Una speranza mista a sorpresa sbocciò sul volto di Naean. Adesso era il momento dell’amo. «Ovvero, sempre che io abbia in mio possesso una lettera scritta di tuo pugno, firmata e sigillata, nella quale rinneghi esplicitamente il tuo sostegno a Marne, di tua spontanea volontà, e giuri che la casata Arawn appoggerà me per il trono. Nel nome della Luce e per la tua speranza di rinascita. Non accetterò nulla di meno.»
La testa di Naean scattò all’indietro e lei si toccò le labbra con la lingua. I suoi occhi si mossero come in cerca di una via d’uscita o d’aiuto. Il nero continuò a sbuffare e a saltellare, ma lei strinse le redini a malapena quanto bastava per impedirgli di impennarsi, e perfino quel gesto parve automatico. Sì, era spaventata. Ma non così spaventata da non comprendere cosa implicava la richiesta di Elenia. La storia dell’Andor conteneva troppi esempi perché lei non ne fosse conscia. Finché qualcosa non era messo per iscritto restavano aperte mille possibilità, ma la semplice esistenza di una lettera del genere avrebbe messo un morso fra i denti di Naean e le redini in mano a Elenia. Se fosse stata resa pubblica, questo avrebbe decretato la fine di Naean, a meno che Elenia non fosse stata così sciocca da ammettere di averla costretta. Avrebbe potuto tentare di indugiare dopo una tale rivelazione, tuttavia perfino una casata che fra i propri membri avesse meno antagonismi di Arawn, con meno cugini, zii e zie pronti a scalzarsi a vicenda in un batter d’occhio, sarebbe comunque andata in pezzi. Le casate minori che erano legate ad Arawn da generazioni avrebbero cercato protezione altrove. Nel giro di pochi anni, se non prima, Naean si sarebbe ritrovata a essere la Somma Signora di un residuo minore e screditato. Oh, sì; era accaduto in precedenza.
«Siamo state assieme abbastanza a lungo.» Elenia raccolse le sue redini. «Non vorrei che le lingue cominciassero ad agitarsi. Forse avremo un’altra occasione di parlare da sole prima che Arymilla ottenga il trono.» Che pensiero spregevole! «Forse.»
L’altra donna espirò come se tutto il fiato che aveva in corpo la stesse abbandonando, ma Elenia seguitò a voltare il suo cavallo, non lentamente né in modo affrettato, non fermandosi finché Naean non esclamò in tono urgente: «Aspetta!»
Guardandola da sopra la spalla, si limitò a fare quello. Attese.
Senza proferire una parola. Quello che occorreva dire era stato detto. Tutto ciò che rimaneva era vedere se la donna era tanto disperata da consegnarsi nelle mani di Elenia. Era probabile che lo fosse. Lei non aveva nessuno Jarid ad aiutarla. In effetti, chiunque nella casata Arawn avesse insinuato che Naean aveva bisogno di essere salvata, probabilmente si sarebbe trovato imprigionato per aver contravvenuto all’espressa volontà di Naean. Senza Elenia, sarebbe potuta invecchiare da prigioniera. Con la lettera, però, la sua prigionia sarebbe stata di tipo diverso. Con la lettera, Elenia avrebbe potuto consentirle un’apparenza di completa libertà. A quanto pareva, era abbastanza sveglia da capire questo. O forse piuttosto spaventata dal Tarabonese.
«Te la recapiterò appena possibile» disse infine in tono rassegnato.
«Non vedo l’ora di averla» mormorò Elenia, preoccupandosi appena di mascherare la propria soddisfazione. Ma non aspettare troppo, fu sul punto di aggiungere, ma si fermò. Naean poteva pure essere sconfitta, ma un nemico battuto poteva comunque conficcarti un coltello nella schiena, se pungolato troppo. Inoltre, lei temeva la minaccia di Naean tanto quanto Naean temeva la sua. Forse di più. Ma finché Naean non lo sapeva, la sua lama era smussata. Mentre cavalcava per tornare dai suoi armigeri, l’umore di Elenia era più ottimista di quanto lo era stato da quando... Di certo da prima che i suoi ‘salvatori’ si fossero rivelati uomini di Arymilla. Forse da prima che Dyelin la facesse imprigionare ad Aringill, anche se lì non aveva mai perso la speranza. La sua prigione era stata la casa del governatore, piuttosto confortevole, anche se aveva dovuto condividere una camera con Naean. Comunicare con Jarid di certo non aveva presentato alcun problema, e pensava di aver fatto qualche progresso con le guardie della regina ad Aringill. Parecchi di loro erano novellini giunti direttamente da Cairhien che erano... incerti... su dove riporre la propria vera lealtà. Ora, quest’incontro meravigliosamente fortuito con Naean aveva risollevato il suo umore così tanto che sorrise a Janny e le promise un nuovo guardaroba di vestiti nuovi una volta che fossero stati dentro Caemlyn. Cosa che indusse la donna dalle guance paffute a rivolgerle un adeguato sorriso di gratitudine. Elenia comprava sempre vestiti alla sua cameriera quando si sentiva particolarmente bene, ognuno di pregevole fattura sul genere di quelli dei mercanti di successo. Era un modo per assicurarsi lealtà e discrezione, e per vent’anni Janny le aveva garantito entrambe.
Il sole era soltanto un bordo rosso sopra gli alberi ora, ed era il momento di trovare Arymilla in modo che potesse dirle dove avrebbe dormito stanotte. Volesse la Luce che si trattasse di un letto decente, in una tenda calda che non fosse troppo piena di fumo, e con un pasto adeguato prima di coricarsi. Non avrebbe potuto chiedere di più, allo stato attuale. Perfino quello non intaccò il suo umore, però. Non si limitò a rivolgere cenni col capo ai capannelli di donne e uomini che superavano: dispensò loro dei sorrisi. Si spinse quasi a salutarli con la mano. Le cose stavano procedendo meglio di quanto avessero fatto da un po’ di tempo. Non si era semplicemente disfatta di Naean come rivale per il trono, ma l’aveva messa al guinzaglio e domata, o quasi, e questo sarebbe potuto essere – sarebbe stato! – sufficiente a portare dalla sua parte Karind e Lir. E poi c’erano coloro che avrebbero accettato chiunque tranne un’altra Trakand sul trono. Ellorien, per dirne una. Morgase l’aveva fatta fustigare! Ellorien non avrebbe mai appoggiato nessuna Trakand. Anche Aemlyn, Arathelle e Abelle erano possibili alleati, con il loro malcontento che poteva essere sfruttato. Forse anche Pelivar o Luan. Anche lei aveva mandato i suoi emissari a valutare la situazione. E lei non avrebbe sprecato il vantaggio di Caemlyn, come aveva fatto quella mocciosa di Elayne. Storicamente, il solo fatto di tenere Caemlyn era sufficiente a garantire l’appoggio di almeno quattro o cinque casate.
Il tempismo sarebbe stato la chiave, certo, altrimenti tutto il vantaggio sarebbe caduto nelle mani di Arymilla, ma Elenia poteva già vedere sé stessa seduta sul Trono del Leone, con i Sommi Signori in ginocchio a giurarle fedeltà. Aveva già la propria lista di quali rimpiazzare. A nessuno che si fosse opposto a lei sarebbe stato consentito di causarle problemi in futuro. A questo avrebbe provveduto una serie di sfortunati incidenti. Un peccato che non potesse scegliere i loro rimpiazzi, ma gli incidenti potevano avvenire con incredibile frequenza.
La sua piacevole riflessione andò in frantumi quando un uomo scarno si accostò a lei in sella a un robusto grigio, i suoi occhi febbrilmente vividi nella luce morente. Per qualche ragione, Nasin aveva ramettì di abete verde incollati fra i sottili capelli bianchi. Davano l’impressione che avesse scalato un albero, e la sua giubba e il mantello di seta rossa erano ricamati con fiori dai colori tanto accesi che sarebbero potuti essere scambiati per tappeti illianesi. Era ridicolo. Era anche il Sommo Signore della casata più potente dell’Andor. Ed era piuttosto fuori di testa. «Elenia, mio caro tesoro,» ragliò in una pioggia di sputacchi «quanto è dolce la tua vista ai miei occhi. Fai sembrare il miele stantio e le rose smorte.»
Senza bisogno di pensarci, lei si affrettò a dirigere Vento dell’Alba indietro e sulla destra, mettendo la giumenta marrone di Janny fra sé e lui. «Non sono la tua promessa sposa, Nasin» inveì lei, ribollendo di rabbia per averlo dovuto dire ad alta voce in modo che tutti potessero sentire. «Sono già sposata, vecchio sciocco! Aspettate!» aggiunse, facendo scattare una mano all’insù.
Quella parola imperiosa e il gesto erano per i suoi armigeri, che avevano poggiato le mani sulle else delle spade e stavano fissando Nasin. Circa trenta o quaranta uomini che portavano la spada e la stella della casata Caeren stavano seguendo l’uomo, e non avrebbero esitato ad abbattere chiunque avessero ritenuto una minaccia per il loro Sommo Signore. Alcuni avevano già le lame semisguainate. Non avrebbero fatto del male a lei, ovviamente. Nasin li avrebbe impiccati fino all’ultimo se a lei fosse stato torto un capello. Per la Luce, Elenia non sapeva se ridere o piangere per quello.
«Hai ancora paura di quel giovane babbeo di Jarid?» domandò Nasin, facendo deviare la sua cavalcatura per seguirla. «Non ha alcun diritto di continuare a importunarti. Ha vinto l’uomo migliore, e lui dovrebbe riconoscerlo. Lo sfiderò!» Una mano, chiaramente ossuta perfino nel suo attillato guanto rosso, armeggiò con una spada che probabilmente non era stata sguainata da vent'anni. «Lo abbatterò come un cane per averti spaventata!»
Elenia spostò abilmente Vento dell’Alba, in modo tale che descrissero dei cerchi attorno a Janny, la quale mormorò delle scuse a Nasin e fece finta di togliere di mezzo la sua giumenta mentre in realtà la frapponeva. Mentalmente, Elenia aggiunse un po’ di ricamo ai vestiti che le avrebbe comprato. Nasin era tanto squilibrato da poter passare in un batter d’occhio da parole smielate di amore cerimonioso ad avvinghiarsi a lei come fosse un’infima cameriera da taverna. Quello non poteva sopportarlo, non di nuovo e di certo non in pubblico. Muovendosi in cerchio, si sforzò di assumere un sorriso preoccupato in volto, anche se per la verità il sorriso le risultò più difficile della preoccupazione. Se questo vecchio sciocco avesse costretto Jarid a ucciderlo, avrebbe rovinato tutto! «Sai che non posso permettermi di avere uomini che combattono per avermi, Nasin.» La sua voce era affannata e ansiosa, ma non cercò di controllarla. Affanno e ansia erano quello che ci voleva. «Come potrei amare un uomo con del sangue sulle mani?»
Quel ridicolo individuo si accigliò fino alla punta del suo lungo naso tanto che lei cominciò a domandarsi se non avesse tirato troppo la corda. Lui era pazzo come una lepre saltatrice, ma non in tutto. Non sempre. «Non mi ero reso conto che tu fossi così... sensibile» disse infine. Senza smettere di tentare di aggirare Janny. Il suo volto decrepito si illuminò. «Ma avrei dovuto capirlo. Me ne ricorderò, d’ora in poi. Jarid può vivere. Sempre che non ti importuni.» Tutt’a un tratto parve notare Janny per la prima volta e, con una smorfia irritata, sollevò una mano, chiudendola a pugno. La donna grassoccia si preparò visibilmente a ricevere il colpo senza farsi da parte, ed Elenia serrò i denti. Ricami in seta. Decisamente non appropriati per una cameriera, ma Janny se li era meritati.
«Lord Nasin, ti ho cercato ovunque» strillò una voce leziosa, e l’aggiramento si interruppe.
Elenia espirò dal sollievo nel vedere Arymilla cavalcare nel crepuscolo assieme al suo seguito, e dovette reprimere un accesso di furia per aver provato sollievo. Abbigliata in seta verde ricamata in modo fin troppo elaborato, con merletto sotto il mento e ai polsi, Armilla era grassoccia fin quasi a essere robusta, con un sorriso vuoto e occhi castani costantemente sgranati in simulato interesse perfino quando non c’era nulla di cui interessarsi. Pur essendo priva dell’intelletto necessario a capire la differenza, possedeva astuzia appena sufficiente a sapere che c’erano cose che avrebbero dovuto interessarla, e non voleva che nessuno pensasse che non le aveva notate. Le uniche sue preoccupazioni erano le proprie comodità e gli introiti necessari per garantirle, e l’unico motivo per cui voleva il trono era che i forzieri reali avrebbero potuto procurarle comodità maggiori delle entrate di qualunque Sommo Signore. Il suo seguito era più numeroso di quello di Nasin, anche se solo la metà erano armigeri che indossavano le quattro lune della sua casata. Per la maggior parte, scrocconi e sicofanti componevano il resto, lord e lady inferiori di casate minori e altri disposti a leccare i piedi di Arymilla per un posto accanto al potere. Lei adorava che la gente si comportasse in modo servile nei suoi confronti. Anche Naean era lì, ai margini del gruppo con i suoi armigeri e la sua cameriera, all’apparenza dall’espressione fredda e nuovamente padrona di sé. Ma si teneva bene a distanza da Jaq Lounault, un uomo snello con uno di quei comici veli tarabonesi che gli coprivano gli enormi baffi e un copricapo conico che sollevava il cappuccio del suo mantello a un’altezza ridicola. Quel tizio sorrideva un po’ troppo, inoltre. Non aveva l’aria di un uomo che poteva costringere qualcuno a implorare.
«Arymilla» disse Nasin in tono confuso, poi guardò accigliato il proprio pugno come sorpreso di trovarlo sollevato. Abbassando la mano sul pomello della sua sella, rivolse un sorriso raggiante a quella sciocca donna. «Arymilla, mia cara » disse in tono affettuoso. Non il genere di affetto che spesso riservava a Elenia. Pareva che in qualche modo si fosse convinto almeno in parte che Arymilla fosse sua figlia, quella preferita perfino. Una volta, Elenia lo aveva sentito abbandonarsi con quella donna ai ricordi su sua ‘madre’, la sua ultima moglie, morta oramai da quasi trent'anni. Anche Arymilla riuscì a intrattenere la propria parte di conversazione, pur non avendo mai incontrato Miedelle Caeren, a quanto ne sapesse Elenia.
Tuttavia, malgrado tutti i suoi sorrisi paterni per Arymilla, i suoi occhi scrutavano tra la folla in ombra in sella dietro di lei, e il suo volto si rilassò quando trovò Sylvase, sua nipote ed erede, una placida donna robusta che incontrò il suo sguardo senza sorridere, poi tirò ben in avanti il suo cappuccio scuro orlato di pelliccia. Non sorrideva, si accigliava o mostrava mai alcuna espressione, che Elenia avesse notato, ma si limitava a mantenere un aspetto immutabile simile a una mucca. Era chiaro che della mucca avesse anche l’intelletto. Arymilla teneva Sylvase ancora più vicina di Elenia o Naean e, finché l’avesse fatto, per Nasin non c’era alcuna possibilità di sottrarsi alle sue promesse. Era pazzo, sì, ma scaltro. «Spero che tu stia prendendoti cura della mia piccola Sylvase, Arymilla» mormorò. «Ci sono cacciatori di dote dappertutto, e voglio che quella cara ragazza sia tenuta al sicuro.»
«Ma certo» replicò Arymilla, oltrepassando Elenia con la sua giumenta troppo pasciuta senza nemmeno un’occhiata. Il suo tono era smielato e disgustosamente svenevole. «Sai che la terrò al sicuro quanto me stessa.» Mostrando quel suo sorriso scervellato, si accinse a raddrizzare il mantello di Nasin sulle sue spalle e a lisciarlo con l’aria di qualcuno che sta sistemando uno scialle su un caro invalido. «Fuori fa troppo freddo per te. So io cosa ti occorre: una tenda confortevole e un po’ di caldo vino speziato. Sarò felice di lasciare che la mia cameriera te lo prepari. Arlene, accompagna lord Nasin alla sua tenda e servigli un po’ di buon vino speziato.»
Una donna magra nel suo seguito ebbe un violento sussulto, poi cavalcò lentamente in avanti, tirando indietro il cappuccio del suo disadorno mantello blu rivelando un viso grazioso e un sorriso tremolante. All’improvviso tutti quegli adulatori e leccapiedi si stavano aggiustando i mantelli contro il vento o mettevano a posto i guanti, guardando ovunque tranne verso la cameriera di Arymilla. Specialmente non verso di lei. Uno di loro avrebbe potuto essere scelto con altrettanta facilità, e lo sapevano. Stranamente, Sylvase non distolse lo sguardo. Era impossibile vedere il suo volto nelle ombre del cappuccio, ma l’apertura si voltò per seguire la donna snella.
Il sogghigno di Nasin mostrò i suoi denti, facendolo sembrare una capra ancor più del solito. «Sì. Sì, vino riscaldato mi farà bene. Arlene, vero? Andiamo, Arlene... brava ragazza. Non hai troppo freddo, vero?»
La ragazza squittì quando lui le drappeggiò un angolo del proprio mantello attorno alle spalle e la strinse tanto vicino a sé che lei pendeva dalla propria sella. «Starai al caldo nella mia tenda, te lo prometto.»
Senza lanciare nemmeno un’occhiata alle sue spalle, fece allontanare il suo cavallo al passo, ridacchiando e sussurrando alla giovane donna sotto il suo braccio. I suoi armigeri seguirono con lo scricchiolio del cuoio e il lento, umido scalpitio di zoccoli nella fanghiglia. Uno di loro rise, come se un altro gli avesse detto qualcosa di divertente. Elenia scosse il capo dal disgusto. Spingere una donna graziosa di fronte a Nasin per distrarlo era una cosa – non doveva nemmeno essere tanto graziosa, qualunque donna che il vecchio pazzo potesse stringere in un angolo era a rischio – ma usare la propria cameriera era rivoltante. Non rivoltante quanto Nasin stesso, però. «Hai promesso di tenerlo lontano da me, Arymilla» disse lei con voce bassa e tesa. Quel vecchio squilibrato lascivo poteva essersi dimenticato della sua esistenza per il momento, ma se ne sarebbe ricordato la prossima volta che l’avesse vista. «Hai promesso di tenerlo occupato.»
La faccia di Arymilla si fece imbronciata e strattonò con fare petulante i suoi guanti per cavalcare aggiustandoseli. Non aveva ottenuto quello che voleva. Questo ai suoi occhi era un grave peccato.
«Se vuoi essere al sicuro dagli ammiratori, dovresti stare più vicina a me invece di vagabondare in giro. Come posso aiutarti se attiri gli uomini? E ti ho perfino salvata. Non ho udito alcun ringraziamento per questo.»
La mascella di Elenia si serrò tanto forte che cominciò a farle male. Far finta di appoggiare questa donna per propria scelta era sufficiente a farle desiderare di mordere qualcosa. Le sue scelte erano state abbastanza chiare: scrivere a Jarid o sopportare una luna di miele prolungata col suo ‘promesso sposo’. Per la Luce, avrebbe potuto scegliere la seconda opzione se non fosse stato per la certezza che Nasin l’avrebbe rinchiusa in qualche castello fuori mano e, dopo che lei avesse subito i suoi palpeggiamenti, alla fine si sarebbe dimenticato che era lì. E ce l’avrebbe lasciata. Arymilla insisteva che continuasse a fingere, però. Insisteva su un bel po’ di cose, alcune delle quali del tutto insopportabili. Tuttavia dovevano essere sopportate. Per il momento. Forse, una volta che le cose si fossero sistemate, mastro Lounault avrebbe potuto offrire le sue attenzioni ad Arymilla per qualche giorno. Da qualche parte dentro di sé fece appello a un sorriso di scuse e si costrinse a piegare il collo come se fosse uno dei parassiti leccapiedi che la stavano osservando assorti. Dopotutto, se lei strisciava per Arymilla, questo non faceva che provare che erano nel giusto. La sensazione dei loro occhi su di lei le faceva venir voglia di lavarsi. Fare questo di fronte a Naean le faceva venir voglia di strillare. «Ti offro tutta la gratitudine che ho in me, Arymilla.» Be’, questa non era una menzogna. Tutta la gratitudine in lei era uguale al desiderio di strangolarla. Molto lentamente. Dovette inspirare a fondo prima di poter proseguire, però.
«Devi perdonarmi per la mia lentezza, ti prego.» Una parola molto amara. «Nasin mi ha piuttosto turbato. Sai come reagirebbe Jarid se venisse a conoscenza del suo comportamento.» La sua voce assunse un tono affilato a quell’ultima affermazione, ma quella sciocca ridacchiò. Ridacchiò!
«Ma certo che sei perdonata, Elenia» rise, il suo volto che si illuminava. «Basta solo chiedere. Jarid è una testa calda, eh? Devi scrivergli e dirgli quanto sei contenta. Perché sei contenta, vero? Puoi dettarla al mio segretario. Io odio macchiarmi le dita di inchiostro... tu no?»
«Certo che sono contenta, Arymilla. Come potrei non esserlo?»
Questa volta sorridere non richiese alcuno sforzo. Quella donna pensava davvero di essere intelligente. Avvalersi del segretario di Arymilla precludeva qualunque possibilità di usare inchiostri simpatici, ma poteva comunicare a Jarid piuttosto apertamente di non fare proprio nulla senza il suo assenso e quell’oca scervellata avrebbe pensato che lei le stava obbedendo.
Annuendo con aria di autocompiacimento, Arymilla raccolse le sue redini, imitata dalla sua cricca. Se si fosse ficcata una pentola in testa e l’avesse definita un cappello, anche tutti loro avrebbero indossato delle pentole. «Si sta facendo tardi» disse «e voglio svegliarmi presto la mattina. Ci aspetta un pasto eccellente preparato dal cuoco di Aedelle Baryn. Tu e Naean dovete cavalcare con me, Elenia.» Lo fece suonare come se stesse concedendo loro un onore, e loro non ebbero altra scelta tranne comportarsi come se fosse così, accostandosi a lei da entrambi i lati. «E Sylvase, ovviamente. Vieni, Sylvase.»
La nipote di Nasin avvicinò la sua giumenta, ma non accanto ad Arymilla. Seguì a poca distanza, con i sicofanti di Arymilla che si accalcarono dietro di lei dal momento che non erano stati invitati a cavalcare assieme alla loro Somma Signora. Malgrado il vento gelido e incostante che strattonava i loro mantelli, diverse donne e due o tre degli uomini tentarono senza successo di impegnare la ragazza in una conversazione. Di rado lei diceva due parole assieme. Tuttavia, senza alcun Sommo Signore da adulare nei pressi, l’erede di un Sommo Signore sarebbe dovuta bastare, e forse uno dei tizi sperava in un buon matrimonio. Era probabile che uno o due fossero guardie, o almeno spie che cercavano di assicurarsi che lei non tentasse di comunicare con qualcuno nella sua casata. Questa marmaglia trovava tutto ciò eccitante, potendo toccare i limiti del potere. Elenia aveva i propri piani per Sylvase.
Arymilla era un’altra che non aveva obiezioni a ciarlare quando chiunque con un po’ di buon senso si sarebbe imbacuccata nel proprio cappuccio, e il suo chiacchiericcio mentre cavalcavano nella luce morente vagava da quello che la sorella di Lir avrebbe offerto per cena ai progetti per la sua incoronazione. Elenia ascoltò solo quanto bastava per mormorare di approvazione nei punti in cui sembrava appropriato. Se quella sciocca voleva offrire un’amnistia previo giuramento a tutti coloro che si erano opposti a lei, non sarebbe stata certo Elenia Sarand a dirle che era una sciocca. Era già abbastanza doloroso dover rivolgere... sorrisetti... a quella donna senza ascoltarla. Poi Arymilla disse una cosa che colpì il suo orecchio come un punteruolo.
«Tu e Naean non avrete problemi a condividere un letto, vero? Pare che siamo a corto di tende decenti qui.»
Seguitò a ciarlare, ma, per un momento, Elenia non riuscì a udire neanche una parola. Si sentiva come se le avessero riempito la pelle di neve. Voltando leggermente la testa, incontrò lo sguardo sconcertato di Naean. Non c’era modo in cui Arymilla potesse sapere del loro incontro fortuito, non ancora, e anche in tal caso, perché avrebbe offerto loro una possibilità di complottare assieme? Una trappola? Spie per ascoltare ciò che si fossero dette? La cameriera di Naean, o... O Janny? Il mondo parve rotearle attorno. Macchioline nere e argentate le fluttuarono davanti agli occhi. Pensò di essere sul punto di svenire. Tutt’a un tratto si rese conto che Arymilla le aveva chiesto qualcosa e stava attendendo una risposta con un cipiglio sempre più impaziente. Freneticamente, passò in rassegna la propria mente. Sì, trovato. «Una carrozza dorata, Arymilla?» Che idea ridicola. Tanto valeva usare il carro di un Calderaio! «Oh, deliziosa! Hai idee talmente meravigliose!»
Il sorrisetto compiaciuto di Arymilla permise a Elenia di rallentare un poco il proprio respiro agitato. Quella donna era una sciocca senza cervello. Forse c’era davvero penuria di tende appropriate. Molto più probabilmente pensava che fossero innocue, ora. Domate. Elenia tramutò i propri denti snudati in un sorrisetto. Ma mise da parte qualunque idea di fare in modo che il Tarabonese ‘intrattenesse’ quella donna, anche solo per un’ora. Con la firma di Jarid su quell’impegno, c’era un solo modo in cui lei potesse sgombrare la strada per il trono. Tutto era sotto controllo e pronto ad andare avanti. L’unica questione era chi dovesse morire per primo fra Arymilla e Nasin.
La notte si addensò su Caemlyn assieme a un freddo pungente inasprito da venti taglienti. Qua e là il bagliore di una luce che si riversava da una finestra ai piani superiori rivelava persone ancora sveglie, ma la maggior parte delle imposte erano serrate e una sottile falce di luna in basso nel cielo non faceva che enfatizzare l’oscurità. Perfino la neve che ammantava i tetti e si impilava davanti agli edifici dove era sfuggita al traffico giornaliero era di un grigio ombroso. L’uomo solitario imbacuccato dalla testa alle caviglie in uno scuro mantello, che incedeva attraverso la poltiglia ghiacciata rimasta sul selciato, rispondeva ai nomi di Daved Hanlon o Doilin Mellar con uguale facilità; un nome non era nulla più di una casacca, e un uomo cambiava la propria casacca quando era necessario. Ne aveva indossate un gran numero nel corso degli anni. Se avesse potuto fare come voleva, a quest’ora sarebbe stato comodamente seduto nel Palazzo Reale davanti a un fuoco scoppiettante, un boccale in una mano e una caraffa di acquavite al suo fianco, e una domestica disponibile su un ginocchio, ma doveva provvedere a voleri altrui. Perlomeno qui nella Città Nuova si poteva camminare meglio. Non bene, con questa fanghiglia gelata sotto i piedi che poteva tramutare un passo incauto in una caduta scomposta, tuttavia era meno probabile che gli stivali di un uomo lo tradissero qui che sulle colline più ripide della Città Interna. Inoltre stanotte l’oscurità era preferibile.
Quando si era avviato, per le strade c’era stata poca gente, e il numero era diminuito quanto più si era fatto buio. Le persone sagge se ne stavano in casa al calar della notte. Ogni tanto delle sagome indistinte si aggiravano fra le ombre più profonde, ma dopo aver scrutato brevemente Hanlon, sgattaiolavano in recessi davanti a lui o indietreggiavano in vicoli cercando di smorzare le proprie imprecazioni mentre arrancavano attraverso neve che probabilmente non era stata toccata dal sole. Non era un uomo massiccio, e poco più alto della media, per di più con la spada e la corazza nascoste dal suo mantello, ma i malviventi cercavano debolezza o esitazione, mentre lui si muoveva con evidente sicurezza di sé, ovviamente non temendo persone che potessero tendergli un agguato. Un atteggiamento a cui contribuiva il lungo pugnale nascosto nella mano sinistra avvolta nel guanto d’arme.
Mentre camminava si guardava attorno per individuare pattuglie di guardie, ma non si aspettava di vederne nessuna. I bruti e i predatori avrebbero cercato altri terreni di caccia, se le guardie fossero state in giro. Ovviamente a lui sarebbe bastata una parola per allontanare guardie ficcanaso, tuttavia non voleva osservatori di sorta e nessuna domanda sul perché si trovasse così lontano dal palazzo e a piedi. I suoi passi esitarono quando due donne pesantemente ammantate comparvero a un incrocio un po’ più avanti, ma si mossero senza nemmeno un’occhiata nella sua direzione e lui riprese a respirare normalmente. Pochissime donne si sarebbero avventurate per le strade a quest’ora senza essere accompagnate da un uomo con una spada o un randello, e perfino senza aver visto le loro facce avrebbe scommesso una manciata d’oro contro un frutto di maclura che quelle due fossero Aes Sedai. Oppure quelle strane donne che occupavano la maggior parte dei letti a palazzo.
Il pensiero di quella strana cricca lo fece accigliare e gli provocò un prurito fra le scapole come se gli avessero strofinato addosso delle ortiche. Qualunque cosa stesse accadendo nel palazzo, era sufficiente a fargli venire i brividi. Le donne del Popolo del Mare erano già abbastanza sconcertanti, e non solo perché camminavano per i corridoi con quel loro seducente ancheggiare e poi erano capaci di puntare un coltello alla gola di un uomo. Non gli era nemmeno passato per la testa di dare a una di loro una pacca sul sedere dopo che si era reso conto che scambiavano occhiate con le Aes Sedai come degli strani gatti rinchiusi in una scatola. E chiaramente, per quanto impossibile, le donne del Popolo del Mare erano i gatti più grossi. Le altre erano peggio, in un certo senso. Qualunque cosa si dicesse in giro, conosceva l’aspetto delle Aes Sedai e non includeva rughe. Tuttavia alcune di loro erano in grado di incanalare, e lui aveva l’inquietante impressione che ne fossero capaci tutte. Il che non aveva alcun senso. Forse il Popolo del Mare aveva qualche genere di dispensa particolare, ma per quanto riguardava queste donne della Famiglia, come le chiamava Falion, tutti sapevano che se tre donne in grado di incanalare e che non erano Aes Sedai sedevano alla stessa tavola, le Aes Sedai sarebbero arrivate prima che potessero terminare una caraffa di vino e avrebbero detto loro di andarsene e di non parlarsi mai più. E si sarebbero assicurate che fosse così, per di più. Era un dato di fatto. Ma queste donne alloggiavano a palazzo , oltre un centinaio, tenevano i loro incontri privati e si aggiravano fra le Aes Sedai senza nemmeno un’occhiata storta da parte loro. Fino a oggi, perlomeno, e qualunque cosa le avesse fatte stringere assieme come galline spaventate, aveva reso altrettanto ansiose anche le Aes Sedai. C’erano troppe stranezze per i suoi gusti. Quando le Aes Sedai si comportavano in modo bizzarro, per un uomo era il momento di stare attento alla propria pelle.
Con un’imprecazione si riscosse da queste elucubrazioni. Un uomo doveva stare attento alla pelle anche nella notte, e lasciar vagare la propria concentrazione non era certo il modo migliore per farlo. Dopo qualche altro passo, esibì un sorriso appena accennato e tastò la lama del suo pugnale. Il vento gemette lungo la strada e si acquietò, fischiò sopra i tetri e si placò, e nei brevi silenzi fra un suono e l’altro lui poté udire il flebile trepestio degli stivali che lo stavano seguendo da poco dopo che aveva lasciato il palazzo.
Alla successiva intersezione, svoltò sulla destra con la stessa andatura costante e non affrettata, poi appiattì d’improvviso la schiena contro il lato anteriore di una stalla posta proprio all’angolo. Le ampie porte erano chiuse e probabilmente sprangate dall’interno, ma il lezzo di cavallo e letame era sospeso nell’aria gelida. Anche la locanda dall’altro lato era serrata, le sue finestre scure e con le imposte tirate; l’insegna che non era in grado di distinguere al buio dondolava scricchiolando, unico rumore tranne quello del vento. Nessuno che avrebbe potuto vedere ciò che non doveva.
Ebbe un istante di avvertimento, il suono di stivali che si affrettavano per lo sforzo di non perderlo di vista troppo a lungo, e poi una testa incappucciata spuntò cauta da dietro l’angolo. Non abbastanza cauta, ovviamente. La sua mano sinistra scattò all’interno del cappuccio e afferrò una gola mentre la destra effettuava un affondo col pugnale, fermandolo con perizia proprio contro il corpo dell’individuo. Quasi si aspettava di trovare un pettorale o una cotta di maglia sotto la giacca dell’uomo, ed era pronto a quell’eventualità, ma un pollice di acciaio penetrò con facilità sotto lo sterno del tizio. Non sapeva perché paralizzasse i polmoni di un uomo in modo che non potesse urlare, fino ad affogare nel suo stesso sangue, ma sapeva che l’effetto era questo. Tuttavia stanotte non poteva indugiare. Nessuna guardia in vista al momento non voleva dire che la situazione sarebbe rimasta tale a lungo. Con un rapido strattone, schiantò la testa dell’uomo contro il muro di pietra della stalla tanto forte da fracassargli il cranio, poi conficcò il pugnale fino all’elsa, sentendo la lama grattare mentre scavava attraverso la spina dorsale dell’individuo.
Il suo respiro rimase regolare – uccidere era solo qualcosa che andava fatto di tanto in tanto, niente per cui eccitarsi – ma si affrettò a posare il corpo nella neve contro il muro e si accovacciò accanto a esso, ripulendo la lama sulla scura giubba del morto mentre infilava l’altra mano sotto la propria ascella per sfilarsi il maglio dal dorso d’acciaio. Con la testa che gli girava, osservò la strada in entrambe le direzioni mentre tastava rapidamente la faccia dell’uomo nell’oscurità. La ruvidezza di barba incolta sotto le sue dita gli disse che era un uomo, ma nient' altro. Uomo, donna o bambino, per lui non faceva differenza – solo gli sciocchi si comportavano come se i bambini non avessero occhi per vedere o lingue per riferire quello che avevano visto – tuttavia desiderò che ci fossero dei baffi o un naso a patata, qualcosa che potesse risvegliare un ricordo e dirgli chi era stato questo tizio. Stringendo la manica dell’uomo avvertì lana pesante, né raffinata né particolarmente ruvida, e un braccio nodoso che sarebbe potuto appartenere a un impiegato, un carrettiere o un valletto. Per farla breve a chiunque, così come la giacca. Continuando a ispezionare il corpo, frugò tra le tasche dell’individuo, trovando un pettine di legno e un gomitolo di spago, che gettò da parte. Giunta alla cintura dell’uomo, la sua mano si arrestò. Vi era appeso un fodero di cuoio, vuoto. Nessun uomo al mondo avrebbe potuto estrarre un pugnale dopo essersi ritrovato la lama di Hanlon nei polmoni. Certo, c’era un buon motivo perché un uomo portasse il proprio pugnale sguainato quando andava in giro di notte, ma la ragione che balzava in mente per prima era che lo volesse usare per pugnalare qualcuno nella schiena o tagliargli la gola.
Fu solo un breve indugio, però. Non sprecando altro tempo in speculazioni, tagliò via il borsello dell’uomo appena sotto i lacci. H peso delle monete che si riversarono nella sua mano e che si affrettò a infilare nella propria tasca gli rivelò che non c’era oro, e probabilmente nemmeno un pezzo d’argento, ma una borsa tagliata e la mancanza di monete avrebbero fatto pensare a chiunque avesse trovato il corpo che fosse stato vittima di delinquenti. Raddrizzandosi, si rinfilò il guanto d’arme, e solo qualche istante dopo aver rimesso la lama al proprio posto si trovò di nuovo a camminare sul selciato ricoperto di fanghiglia, il pugnale tenuto stretto contro il fianco sotto il mantello e gli occhi attenti. Non si rilassò finché non ebbe messo un’intera strada fra sé e l’uomo morto, e anche allora la tensione non si allentò di molto. La maggior parte delle persone che avesse appreso di quell’omicidio avrebbe accettato la storia della rapina che aveva preparato a bella posta, ma non il mandante di quell’individuo. Il fatto che l’avesse seguito fin da palazzo significava che l’aveva inviato qualcuno, ma chi? Era piuttosto certo che qualunque donna del Popolo del Mare che avesse voluto vederlo trafitto da un coltello l’avrebbe fatto di persona. Per quanto la Famiglia lo turbasse solo per il fatto di essere lì, parevano persone tranquille e ponderate. Era pur vero che la gente abile nel non farsi notare era quella che più probabilmente avrebbe fatto ricorso a un assassino prezzolato nella notte, ma non aveva mai scambiato più di tre parole alla volta con nessuna di loro, e di certo non aveva tentato di palpeggiarle. Le Aes Sedai parevano più probabili, tuttavia era sicuro di non aver fatto nulla per suscitare i loro sospetti. Nondimeno, chiunque di loro avrebbe potuto avere le proprie ragioni per volerlo morto. Non si poteva mai dire con le Aes Sedai. Birgitte Trahelion era una stupida puttana che pareva credere per davvero di essere un personaggio uscito da una storia, forse perfino la vera Birgitte, se mai era esistita, ma era plausibile che lo ritenesse una minaccia alla sua posizione. Poteva pure essere una sgualdrina, ancheggiando per i corridoi in quei pantaloni come faceva lei, ma aveva uno sguardo freddo. Lei sì che avrebbe potuto ordinare a qualcuno di tagliare una gola senza batter ciglio. L’ultima possibilità era quella che lo impensieriva di più, però. I suoi padroni non erano certo le persone più fiduciose, e non sempre le più affidabili. E lady Shiaine Avarhin, che attualmente gli impartiva i suoi ordini, era colei che l’aveva mandato a chiamare e fatto uscire nella notte. Proprio dove un tizio era casualmente in attesa di seguirlo, pugnale in mano. Lui non credeva nelle coincidenze, qualunque cosa la gente dicesse su questo al’Thor. Pensieri di ritornare a palazzo vennero e se ne andarono in un lampo. Aveva del denaro da parte: poteva superare i cancelli corrompendo le sentinelle con la stessa facilità di chiunque altro, o semplicemente ordinare che venissero aperti per il tempo sufficiente a farlo uscire. Ma avrebbe significato passare il resto della propria vita a guardarsi le spalle, e chiunque fosse arrivato a poca distanza da lui sarebbe potuto essere colui che era stato inviato a ucciderlo. Non era molto diverso dal modo in cui viveva ora. Tranne per la certezza che presto o tardi qualcuno avrebbe avvelenato la sua zuppa o gli avrebbe conficcato un coltello tra le cestole. D’altronde, quella baldracca di Birgitte era il colpevole più plausibile. Oppure una Aes Sedai. O forse aveva offeso quelle donne della Famiglia in qualche modo. Nondimeno, essere cauri ripagava sempre. Le sue dita si flessero attorno all’elsa del pugnale. La sua vita era buona al momento, con parecchie comodità e un bel po’ di donne impressionate o compiacenti per paura del capitano delle guardie, ma la vita in fuga era sempre preferibile alla morte qui e ora.
Trovare la strada giusta e la casa esatta, per di più, non fu facile – una stretta viuzza laterale era molto simile a un’altra quando erano entrambe ammantate nell’oscurità – ma fece attenzione e infine si ritrovò a bussare alle porte principali di un alto stabile in ombra che sarebbe potuto appartenere a un mercante facoltoso ma discreto. Ma adesso sapeva che non era così. Avarhin era una casata minuscola, estinta secondo alcuni, ma rimaneva un’ultima discendente, e Shiaine possedeva denaro.
Una delle porte si aprì e lui sollevò una mano per schermarsi da un improvviso bagliore luminoso. La sinistra, nella destra teneva il pugnale, nascosto e pronto. Occhieggiando fra le dita allargate, riconobbe la donna alla porta in un semplice abito da cameriera. Non che questo servisse minimamente a diminuire la sua cautela.
«Dammi un bacio, Falion» disse entrando. Guardandola con aria lasciva, allungò una mano verso di lei. La sinistra, ovviamente. La donna dal volto lungo la scostò e chiuse per bene la porta dietro di lui. «Shiaine è chiusa nel salotto principale al piano di sopra con un visitatore» disse con calma «e la cuoca è nella sua camera da letto. Non c’è nessun altro in casa. Appendi il mantello sull’attaccapanni. Le farò sapere che sei qui, ma è possibile che tu debba attendere.»
Hanlon lasciò svanire il proprio sguardo lascivo e ricadere la mano. Nonostante il suo volto senza età, al massimo Falion poteva essere definita di bell’aspetto, e perfino quell’affermazione poteva essere un po’ tirata per i capelli, considerando il suo sguardo freddo e le sue maniere ancora più gelide. Non era certo il tipo di donna che avrebbe scelto per divertirsi, ma sembrava che lei fosse oggetto della punizione di uno dei Prescelti, e a quanto pareva lui doveva esserne parte, il che cambiava le cose. Fino a un certo punto. Fottere una donna che non aveva scelta non l’aveva mai turbato, e Falion certo non ne aveva alcuna. Il suo abito da cameriera ne era la riprova: faceva il lavoro di quattro donne da sola, compiti da cameriera, aiuto cuoca e sguattera, dormiva quando poteva e strisciava a ogni cipiglio di Shiaine. Le sue mani erano ruvide e rosse per via del lavare i panni e sfregare i pavimenti. Tuttavia era probabile che sarebbe sopravvissuta alla sua punizione, e l’ultima cosa che luivoleva era una Aes Sedai con un rancore personale contro Daved Hanlon. Non quando le circostanze sarebbero potute cambiare prima che lui avesse l’opportunità di piantarle un coltello nel cuore, perlomeno. Raggiungere un accordo con lei era stato facile, però. Pareva che Falion avesse un profondo senso pratico. Quando altri potevano vedere, la scompigliava ogni volta che gli arrivava a portata di mano, e quando c’era tempo, la costringeva ad andare nella sua minuscola stanza sotto il cornicione. Lì sgualcivano le lenzuola, poi sedevano sullo stretto giaciglio al freddo e si scambiavano informazioni. Anche se, su incitazione dì lei, le procurava qualche livido, in caso Shiaine scegliesse di controllare. Sperava che lei si ricordasse che l’aveva fatto su sua sollecitazione.
«Dove sono gli altri?» chiese lui, togliendosi il mantello e sistemandolo sull’appendiabiti a forma di leopardo. Il suono dei suoi stivali sulle piastrelle riverberò dall’alto soffitto dell’ingresso. Era un locale elegante, con cornicette di stucco dipinto e diversi arazzi sontuosi sopra pannelli istoriati lucidati fino a risplendere debolmente, ben illuminati da lampade su sostegni provviste di specchi con una doratura degna dello stesso Palazzo Reale, ma che fosse folgorato se faceva più caldo che fuori.
Falion sollevò un sopracciglio al notare il pugnale che aveva in mano, e lui lo rinfoderò con un sorriso teso. L’avrebbe potuto estrarre di nuovo più velocemente di quanto chiunque avrebbe ritenuto possibile, e avrebbe potuto fare lo stesso con la sua spada in modo quasi altrettanto rapido. «Le strade sono piene di ladri, di notte.» Malgrado il gelo, lui si tolse i guanti d’arme e li infilò nella cintura portaspada. Agire altrimenti avrebbe fatto sembrare che si riteneva in pericolo. Il pettorale sarebbe stato comunque sufficiente, nel caso si fosse presentato il peggio.
«Non so dove sia Marillin» disse lei da sopra la spalla, voltandosi già e raccogliendo le gonne per salire i gradini. «Se n’è andata prima del tramonto. Murellin è nelle stalle con la sua pipa. Potremo parlare dopo che avrò informato Shiaine del tuo arrivo.»
Osservandola salire le scale, lui grugnì. Murellin, un tizio corpulento che Hanlon non gradiva avere alle spalle, veniva relegato nelle stalle dietro la casa ogni volta che voleva fumare la sua pipa, poiché Shiaine disprezzava l’odore del rozzo tabacco che usava, e dal momento che di solito portava con sé un boccale di birra o perfino una caraffa, non sarebbe rientrato a breve. Marillin lo preoccupava di più. Anche lei era una Aes Sedai, apparentemente agli ordini di Shiaine quanto Falion o lui stesso, ma con lei non aveva alcun accordo. Nemmeno discussioni, se era per quello, tuttavia lui non si fidava delle Aes Sedai per principio, Ajah Nera o no. Dov’era andata? Per fare cosa?
Quello che un uomo non sapeva poteva ucciderlo, e Marillin Gemalphin passava fin troppo tempo fuori a occuparsi di faccende di cui lui non sapeva nulla. Stava giungendo alla conclusione che c’erano troppe cose a Caemlyn di cui lui non sapeva niente. Era ora che ne venisse al corrente, se voleva vivere.
Ora che Falion si era allontanata, andò dall’atrio gelato dritto in cucina sul retro della casa. La stanza con le pareti di mattoni era vuota, ovviamente – la cuoca sapeva che non era il caso di ficcare il naso fuori dalla sua stanza nel seminterrato una volta che veniva congedata per la notte – e la stufa di ferro nero e i forni erano freddi, ma un fuocherello sul lungo focolare di pietra rendeva la cucina una delle poche stanze calde della casa. A paragone delle altre, almeno. Shiaine era una donna avara, tranne quando si trattava delle proprie comodità. Qui il fuoco era tenuto acceso solo nel caso in cui desiderasse del vino riscaldato durante la notte, o latte caldo con uova.
Era stato in questa casa più di una dozzina di volte da quando era giunto a Caemlyn, e sapeva in quali armadietti erano riposte le spezie e in quale spazio fuori dalla cucina fosse sempre conservato un barilotto di vino. Sempre buon vino. Shiaine non lesinava su quello. Non con quello che intendeva bere lei stessa, perlomeno. Per quando Falion fu tornata, lui aveva disposto sull’ampio tavolo della cucina il vasetto del miele e un piatto di zenzero e chiodi di garofano assieme a una caraffa piena di vino, e un attizzatoio conficcato nel fuoco. Shiaine avrebbe potuto dire ‘Vieni subito’ e intendere ‘subito’, ma quando voleva far aspettare un uomo, poteva essere quasi l’alba prima che lo ricevesse. Queste convocazioni gli costavano sempre una notte di sonno, che fosse folgorata!
«Chi è il visitatore?» chiese lui.
«Non ha detto il nome, non a me» rispose Falion, mettendo una sedia contro la porta che dava sul corridoio per tenerla aperta. Questo lasciava fuoriuscire parte del misero tepore, ma avrebbe voluto essere in grado di sentire se Shiaine l’avesse convocata. O forse voleva assicurarsi che l’altra donna non potesse origliare. «Un uomo snello, alto e deciso, con l’aspetto di un soldato. Un ufficiale di un certo rango, forse un nobile, stando alle sue maniere, e Andorano, a giudicare dall’accento. Pare intelligente e cauto. I suoi vestiti sono piuttosto ordinari, per quanto costosi, e non indossa anelli o spille.» Accigliandosi nel guardare il tavolo, si voltò verso uno degli alti armadietti a giorno accanto alla porta per il corridoio e aggiunse una seconda tazza a quella che lui aveva preso per sé. A lui non era mai passato per la testa di metterne due. Era già sufficiente che dovesse versarsi il vino da solo. Aes Sedai o meno, era lei la cameriera. Ma Falion portò una sedia accanto al tavolo e spinse il piatto di spezie lontano da sé proprio come se si aspettasse che fosse lui a servirla.
«Shiaine ha ricevuto due visitatori ieri, comunque, più incauti di questo tizio» proseguì. «Uno, al mattino, aveva i cinghiali dorati di Sarand sui polsi dei suoi guanti d’arme. Probabilmente pensava che nessuno avrebbe notato un particolare così piccolo, sempre che fosse in grado di pensare. Un uomo biondo e grassoccio di mezz’età; ha fatto i complimenti per il vino come se fosse sorpreso di trovare un’annata decente in casa, e voleva che Shiaine mi facesse picchiare per non aver mostrato abbastanza rispetto.» Disse perfino quello con voce fredda e misurata. L’unica volta in cui in lei c’era stato un po’ di calore era stata quando Shiaine l’aveva presa a cinghiate. In quell’occasione sì che l’aveva sentita urlare. «Un campagnolo che di rado è stato a Caemlyn ma crede di sapere come si comporta la gente migliore di lui, direi. Puoi riconoscerlo da un porro sul mento e una piccola cicatrice a mezzaluna accanto al suo occhio sinistro. Il tizio del pomeriggio era basso e scuro, con un naso aquilino e occhi guardinghi, e nessun segno distintivo o cicatrice che potessi vedere, anche se indossava un anello con un granato quadrato alla mano sinistra. Era parco con le parole, molto attento a non lasciarsi sfuggire nulla nel poco che ho sentito, ma portava un pugnale con le quattro lune della casata Marne sul pomello.»
Incrociando le braccia, Hanlon si sporse verso il caminetto e mantenne il volto impassibile malgrado il desiderio di accigliarsi. Era stato certo che il piano prevedesse che Elayne ottenesse il trono, anche se quello che sarebbe venuto dopo rimaneva un mistero. Gli era stata promessa come una regina. Che lei indossasse o meno una corona quando lui l’avesse presa non gli importava nulla, tranne per il pepe che aggiungeva – domare quella puledra dalle lunghe gambe sarebbe stato puro piacere anche se fosse stata la figlia di un contadino, specialmente dopo che quella sfacciata oggi lo aveva messo in imbarazzo di fronte a tutte quelle altre donne! – ma negoziati con Sarand e Marne dicevano che forse il destino di Elayne era morire senza corona. Forse, malgrado tutte le promesse che gli erano state fatte sulla possibilità di fottere una regina, era stato messo nella posizione in cui si trovava in modo da poterla ucciderle al momento stabilito, quando la sua morte avrebbe prodotto il risultato che Shiaine voleva. O piuttosto che voleva il Prescelto che le aveva impartito i suoi ordini. Moridin, così si chiamava, un nome che Hanlon non aveva mai sentito prima di giungere in questa casa. Questo non lo turbava. Se un uomo aveva il fegato di definirsi uno dei Prescelti, Hanlon non era così folle da metterlo in discussione. A turbarlo era la possibilità che, in tutta questa faccenda, lui non fosse altro che un pugnale. Finché era il pugnale a compiere il lavoro, cosa importava se si spezzava nel farlo? Molto meglio essere il pugno attorno all’elsa piuttosto che la lama.
«Hai visto dell’oro passare di mano?» chiese. «Hai sentito nulla?»
«Te l’avrei detto» replicò lei debolmente. «E stando al nostro accordo, è il mio turno di porre una domanda.»
Lui riuscì a camuffare la propria irritazione dietro un’espressione di attesa. Quella stupida donna chiedeva sempre delle Aes Sedai a palazzo o di quelle che chiamava la Famiglia, o del Popolo del Mare. Domande sciocche. Chi era amica di chi, e quali antipatie avesse. Chi scambiava parole in privato e chi si evitava del tutto. Cosa aveva sentito che dicevano. Come se col proprio tempo lui non avesse altro da fare che appostarsi nei corridoi per spiarle. Non le mentiva mai – era troppo il rischio che potesse apprendere la verità, perfino impantanata in questa casa come cameriera, era una Aes Sedai, dopotutto – ma era sempre più difficile tirar fuori qualcosa che non le aveva già detto, e lei era stata cristallina sul fatto che avrebbe dovuto fornirle delle informazioni se si aspettava di riceverne. Nondimeno, aveva un paio di notiziole da sottoporle oggi, riguardanti la partenza di alcune donne del Popolo del Mare e tutta quella faccenda sul fatto che avessero sobbalzato per tutto il giorno come se qualcuno avesse infilato loro dei ghiaccioli giù per la schiena. Avrebbe dovuto farselo bastare. Quello che a lui serviva sapere era importante, non maledette chiacchiere.
Prima che lei potesse porre la sua domanda, però, la porta verso l’esterno si aprì. Murellin era tanto grosso da riempire quasi la soglia, tuttavia un freddo gelido riuscì comunque a entrare in una folata che fece danzare il fuocherello e mandò delle scintille a volare su per il camino fino a che l’omone non richiuse la porta. Non diede alcun segno di aver notato il freddo, ma d’altra parte la sua giacca marrone pareva spessa quanto due mantelli. E poi quell’uomo non aveva soltanto le dimensioni di un bue... anche l’intelletto. Appoggiando il boccale di legno sul tavolo con un tonfo, infilò i pollici dietro la sua ampia cintura e scrutò Hanlon con aria sdegnata. «Che stai facendo con la mia donna?» borbottò.
Hanlon ebbe un sussulto. Non perché temesse Murellin, tanto più che quel bue si trovava dall’altra parte del tavolo. Quello che lo sorprese fu l’Aes Sedai che era balzata in piedi dalla sua sedia e aveva afferrato la caraffa di vino. Immergendovi lo zenzero e i chiodi di garofano, aggiunse una cucchiaiata di miele e agitò la caraffa come per rimestare il tutto, poi usò un lembo della sua gonna per tirar via dal fuoco l’attizzatoio e infilarlo nel vino senza controllare se fosse già abbastanza caldo. Non lanciò neanche un’occhiata in direzione di Murellin.
«La tua donna?» disse Hanlon in tono circospetto. Questo gli procurò un sorrisetto compiaciuto da parte dell’altro uomo.
«Diciamo così. La signora ha pensato bene che potessi usare io quello che non usi tu. Comunque, Fally e io ci teniamo caldi la notte.»
Murellin fissò l’altro lato del tavolo, ancora sogghignando, ma i suoi occhi adesso erano posati sulla donna. Un grido riecheggiò nell’ingresso e lui si arrestò con un sospiro, il suo sogghigno che svaniva.
«Falion!» chiamò forte la voce distante di Shiaine. «Porta Hanlon quassù ora, e fa’ in fretta!» Falion appoggiò la caraffa sul tavolo tanto forte che del vino si rovesciò oltre il bordo ed era già diretta verso la porta prima che Shiaine terminasse. Quando l’altra donna parlava, Falion sobbalzava.
Anche Hanlon saltò in piedi, anche se per una ragione diversa. Raggiungendo Falion, le afferrò il braccio mentre lei saliva il primo gradino. Una veloce occhiata alle proprie spalle rivelò che la porta della cucina era chiusa. Forse in effetti Murellin sentiva il freddo. Comunque tenne la voce bassa. «Cosa voleva dire?»
«Non sono affari tuoi» replicò lei tagliando corto. «Puoi procurarmi qualcosa per farlo dormire? Qualcosa da potergli mettere nella birra o nel vino? Berrà di tutto, non importa il sapore.»
«Se Shiaine pensa che non sto obbedendo agli ordini, sono maledettamente affari miei, e anche tu dovresti vederla così, se hai due dannati pensieri da sfregare assieme.»
Lei inclinò la testa, fissandolo oltre la punta del suo lungo naso, fredda come un pesce. «Questo non ha nulla a che fare con te. Per quello che concerne Shiaine, io appartengo comunque a te quando sei qui. Vedi, certe cose sono cambiate.» All’improvviso qualcosa di invisibile gli strinse forte il polso e gli strattonò via la mano dalla manica di lei. Qualcos’altro si richiuse attorno alla sua gola, premendo fino a rendergli impossibile respirare. Invano cercò a tentoni il suo pugnale con la sinistra. Il tono di lei rimase freddo. «Pensavo che certe altre faccende dovessero cambiare di conseguenza, ma Shiaine non vede le cose in modo logico. Dice che quando il Gran Maestro Moridin vorrà che la mia punizione venga alleviata, sarà lui a dirlo. Moridin mi ha dato a lei. Murellin è il modo in cui lei si assicura che io lo capisca. La sua maniera di accertarsi che io sappia di essere il suo cane finché lei non dirà altrimenti.» Tutt’a un tratto Falion trasse un profondo respiro e la pressione scomparve dal polso e dalla gola di Hanlon. L’aria non aveva mai avuto un sapore più dolce. «Puoi procurarmi ciò che ti ho chiesto?» disse, calma come se non avesse appena tentato di ucciderlo col dannato Potere. Il solo pensiero che quella cosa l’aveva toccato gli faceva accapponare la pelle.
«Posso...» cominciò in tono roco e si fermò per deglutire, sfregandosi la gola. Pareva come se fosse stata stretta in un cappio da impiccato. «Posso procurarti qualcosa che lo farà cadere in un sonno da cui non si sveglierà più.» Non appena si fosse presentata l’occasione giusta, l’avrebbe sbudellata come un’oca.
Lei sbuffò con aria beffarda. «Sarei la prima che Shiaine sospetterebbe, e tanto varrebbe che mi tagliassi i polsi piuttosto che obiettare a qualunque cosa decidesse di fare. Sarà sufficiente che lo faccia dormire tutta la notte. Lascia che sia io a pensare al da farsi, e sarà meglio per entrambi.» Appoggiando una mano sul pilastrino intagliato, guardò su per le scale. «Andiamo. Quando dice ora, intende ora.» Un peccato che non potesse appenderla proprio come un’oca in attesa di essere sbudellata.
Seguendola, i suoi stivali pestarono sui gradini, un rumore che rimbombava per tutto l’atrio, e fu colpito dal fatto di non aver udito il visitatore allontanarsi. A meno che nella casa non vi fosse qualche passaggio segreto che non conosceva, c’erano solo la porta principale, quella nella cucina e un’altra sul retro che poteva essere raggiunta soltanto passando per la cucina. Perciò pareva che avrebbe incontrato questo soldato. Forse sarebbe stata una sorta di sorpresa. Furtivamente, allentò il pugnale nel suo fodero.
Come previsto, il salotto principale aveva un bel fuoco acceso nell’ampio caminetto in marmo con venature azzurre. Era una stanza che poteva valere la pena saccheggiare, con vasi di porcellana del Popolo del Mare sui tavolini con i bordi dorati, e arazzi e tappeti che avrebbero fruttato un buon prezzo. Tranne uno dei tappeti che adesso non aveva quasi alcun valore. Un basso monticello rivestito con una coperta giaceva quasi nel mezzo della stanza, e se non era stato il tizio rannicchiato a quel modo a macchiare il tappeto col proprio sangue, Hanlon avrebbe mangiato gli stivali che fuoriuscivano da un lato. Shiaine in persona era seduta in una poltrona intarsiata, una bella donna in seta blu ricamata d’oro, con una cintura elaborata d’oro intrecciato e una pesante collana d’oro attorno al suo esile collo. Lucenti capelli bruni le pendevano fin sotto le spalle, radunati in una retina di intricato merletto. Appariva delicata a un primo sguardo, ma c’èra qualcosa di volpino nel suo viso, e il suo sorriso non raggiungeva mai quei grandi occhi castani. Stava utilizzando un fazzoletto orlato di merletto per pulire un piccolo pugnale sormontato da una goccia di fuoco sul pomello. «Va’ a dire a Murellin che avrò un... fagotto... di cui dovrà sbarazzarsi più tardi, Falion» disse con calma. Il volto di Falion restò liscio come marmo lucido, ma le rivolse una riverenza prima di sgattaiolare di corsa fuori dalla stanza. Osservando Shiaine e il suo pugnale con la coda dell’occhio, Hanlon si avvicinò al cumulo nascosto e si piegò per sollevare un angolo della coperta. Azzurri occhi vitrei lo fissarono da una faccia che, da viva, poteva essere stata severa. I morti avevano sempre un aspetto più tenero. A quanto pare non era stato né cauto né intelligente quanto Falion lo riteneva. Hanlon lasciò ricadere la coperta e si raddrizzò. «Ha detto qualcosa non di tuo gradimento, mia signora?» chiese in tono leggero. «Chi era?»
«Ha detto diverse cose non di mio gradimento.» Tenne in alto il suo pugnale, esaminando la piccola lama per essere certa che fosse pulita, poi la fece scivolare in un fodero lavorato d’oro alla cintura.
«Dimmi, il figlio di Elayne è tuo?»
«Non so chi sia il padre del marmocchio» disse in tono beffardo.
«Perché, mia signora? Pensi che mi sia rammollito? L’ultima puttanella che affermava che io l’avessi messa incinta l’ho ficcata dentro a un pozzo per rinfrescarsi le idee e mi sono assicurato che ci rimanesse.» In un vassoio appoggiato su uno dei tavolinettì c’erano una caraffa d’argento dal lungo collo contenente del vino e due coppe in argento cesellato. «È sicuro?» chiese, scrutando dentro le coppe. Entrambe avevano del vino sul fondo, ma una piccola aggiunta a una di esse poteva aver reso l’uomo morto una facile preda.
«Catrelle Mosenain, la figlia di un negoziante di ferramenta di Maerone» disse la donna, in tono piatto come se si trattasse di una notizia risaputa, e mancò poco perché lui sobbalzasse dalla sorpresa.
«Le hai fracassato la testa con una roccia prima di buttarla giù, senza dubbio per risparmiarle l’affogamento.» Come faceva a sapere il nome di quella puttanella, per non dire della roccia? Lui stesso si era quasi dimenticato quel nome. «No, dubito che ti rammolliresti, ma detesterei pensare che stavi sbaciucchiando lady Elayne senza mettermi al corrente. Lo detesterei davvero.»
All’improvviso lei fissò accigliata il fazzoletto macchiato di sangue nella sua mano e si alzò con movenze aggraziate per accostarsi al caminetto e gettarlo tra le fiamme. Rimase lì a riscaldarsi, non guardando mai nella sua direzione. «Puoi organizzare la fuga di alcune donne seanchan? Sarebbe meglio se fossero sia quelle chiamate sul’dam, che quelle chiamate damane,» incespicò un poco sulle strane parole «ma se non riesci a far scappare entrambe, alcune sul’dam andranno bene. Libereranno loro qualcuna delle altre.»
«Forse.» Sangue e maledette ceneri, stava saltellando da un argomento all’altro peggio di Falion. «Non sarà semplice, mia signora. Sono tutte sotto stretta sorveglianza.»
«Non ho chiesto se fosse semplice» replicò lei, lo sguardo fisso tra le fiamme. «Puoi modificare i turni in modo che le guardie siano lontane dai magazzini del cibo? Sarei compiaciuta se alcuni di essi bruciassero per davvero. Sono stanca di continui tentativi falliti.»
«Questo non posso farlo» borbottò lui. «A meno che tu non voglia che io sparisca dalla circolazione subito dopo. Tengono un registro degli ordini che farebbe sussultare un Cairhienese. E non servirebbe a nulla comunque, non con quei maledetti passaggi che portano sempre più carri ogni giorno.» Per la verità, questo non gli dispiaceva. Il mezzo usato gli dava la nausea, ma non gli dispiaceva affatto. Si aspettava che il palazzo sarebbe stato l’ultimo posto a Caemlyn a patire la fame in ogni caso, ma aveva sperimentato assedi su entrambi i fronti, e non aveva più intenzione di bollire i propri stivali per la zuppa. Shiaine voleva gli incendi, però.
«Un’altra risposta che non ti ho richiesto.» Lei scosse il capo, ancora guardando nel caminetto, non verso di lui. «Ma forse si può fare qualcosa per questo. Quanto sei davvero vicino... ad assaporare l’affetto di Elayne?» terminò in tono pudico.
«Più vicino del giorno in cui sono arrivato a palazzo» grugnì lui, fissandole la schiena. Non cercava mai di offendere coloro che i Prescelti avevano posto sopra di lui, ma la sgualdrina lo stava mettendo a dura prova. Avrebbe potuto spezzarle quell’esile collo come un ramoscello! Per tenere lontane le mani dalla sua gola, riempì una delle coppe e la tenne senza alcuna intenzione di bere. Nella sinistra, ovviamente. Solo perché c’era già un uomo morto nella stanza, non voleva dire che lei non potesse avere intenzione di aggiungere un altro cadavere. «Ma devo andarci piano. Non posso certo stringerla in un angolo e solleticarla fino a farle togliere la camicetta.»
«Suppongo di no» disse Shiaine con voce smorzata. «Non è proprio il genere di donna a cui sei abituato.» Stava ridendo? Si stava prendendo gioco di lui? Tutto quello che riuscì a fare fu impedirsi di gettare per terra la coppa e strangolare la baldracca con la faccia da volpe.
All’improvviso Shiaine si voltò, e Hanlon sbatté le palpebre quando lei fece scivolare il suo pugnale di nuovo nel fodero. Non l’aveva nemmeno vista sguainare quella dannata cosa! Tracannò un sorso di vino senza pensarci e quasi soffocò nel pensare a cosa aveva fatto.
«Ti piacerebbe vedere Caemlyn saccheggiata?» gli chiese lei.
«Direi di sì, se avessi una buona compagnia a spalleggiarmi e un percorso sicuro per i cancelli.» Il vino doveva essere a posto. Due coppe volevano dire che anche lei aveva bevuto, e anche se lui avesse preso quella del morto, non poteva esserci rimasto tanto veleno da far star male un topo. «È questo che vuoi? Seguo gli ordini bene come chiunque altro.» Lo faceva quando sembrava probabile che sarebbe sopravvissuto a essi, oppure quando provenivano dai Prescelti. Meglio morire da sciocco che disobbedire ai Prescelti. «Ma alle volte aiuta sapere qualcosa di più di ‘va’ lì e fa’ questo’. Se mi dicessi qual è il tuo scopo qui a Caemlyn, potrei aiutarti a raggiungerlo più in fretta.»
«Ma certo.» Gli rivolse un sorriso tutto denti mentre i suoi occhi rimanevano impassibili come pietre brune. «Ma prima dimmi, perché c’è sangue fresco sui tuoi abiti?»
Lui le sorrise di rimando. «Un farabutto sfortunato, mia signora.»
Forse era stata lei a mandare l’uomo e forse no, ma lui aggiunse la sua gola alla lista di quelle che intendeva squarciare. E avrebbe potuto aggiungere anche Marillin Gemalphin. Dopotutto, un unico sopravvissuto era il solo che poteva raccontare la storia di ciò che era accaduto.