Molto prima della fine della seduta, nonostante il mantello ripiegato sotto di lei, il sedere di Egwene era diventato piuttosto insensibile per via della dura panca di legno. Dopo aver ascoltato interminabili discussioni, desiderava che anche le sue orecchie fossero insensibili. Sheriam, costretta a stare in piedi, aveva cominciato a spostare il peso da un piede all’altro come se desiderasse una sedia. O forse solo di sedersi sui tappeti. Egwene se ne sarebbe potuta andare, liberando così sé stessa e Sheriam. Nulla richiedeva che l’Amyrlin rimanesse, e i suoi commenti venivano ascoltati con cortesia nella migliore delle ipotesi. Dopodiché il Consiglio galoppò in una direzione completamente diversa. Questo non aveva nulla a che fare con la guerra, e, con il morso fra i denti, il Consiglio non aveva intenzione di lasciare che lei mettesse mano alle redini. Sarebbe potuta uscire in qualunque momento – con una breve interruzione nelle discussioni per il cerimoniale richiesto – ma se l’avesse fatto, temeva che il mattino dopo le sarebbe stato presentato un piano completamente orchestrato, uno che le Adunanti stavano già portando avanti, e con lei che non aveva idea di cosa sarebbe successo finché non l’avesse letto. Perlomeno, quella era la sua paura all’inizio.
Non fu sorpresa di scoprire chi fu a parlare più a lungo, non più. Magla e Saroiya, Takima, Faiselle e Varilin, ognuna che fremeva visibilmente quando un’altra Adunante teneva banco. Accettavano le decisioni del Consiglio, almeno in superficie. Non potevano fare altrimenti se non abbandonando il proprio seggio; per quanto il Consiglio potesse dibattere duramente per ottenere il consenso, se necessario, una volta che veniva decisa una linea d’azione, con qualunque tipo di consenso, ci si aspettava che tutte la seguissero, o perlomeno che non la ostacolassero. Era questa la difficoltà. Cos’era che costituiva un ostacolo, per l’esattezza? Nessuna delle cinque parlò contro un’Adunante della sua stessa Ajah, naturalmente, ma le altre quattro balzavano in piedi quando qualsiasi Adunante prendeva di nuovo posto sulla propria panca, e tutte e cinque se l’Adunante era Azzurra. E chiunque prendesse la parola dissertava in modo molto persuasivo sul perché le proposte dell’Adunante che aveva parlato prima di lei fossero del tutto sbagliate e forse la ricetta per il disastro. Non che ci fosse alcun vero segno di collusione, a quanto Egwene poteva vedere. Si scrutavano con la stessa cautela che riservavano alle altre, si guardavano con un cipiglio altrettanto marcato se non di più, ed era evidente che non si fidavano che nessuna delle altre propugnasse le stesse argomentazioni.
In ogni caso, poco di quello che veniva suggerito si avvicinava a essere fattibile. Le Adunanti erano in disaccordo su quante Sorelle dovessero venire inviate alla Torre Nera e quante da ciascuna Ajah, su quando mandarle, cosa dovessero richiedere, su quali aspetti fosse consentito convenire e su cosa invece avessero ordini di rifiutare del tutto. In una materia così delicata, ogni errore poteva condurre al disastro. Per di più, ogni Ajah tranne la Gialla si considerava l’unica a essere qualificata per il comando della missione, dall’insistenza di Kwamesa sul fatto che l’obiettivo era negoziare un trattato, pur particolare, all’affermazione di Escaralde che la conoscenza storica era una necessità per un’impresa talmente senza precedenti. Berana arrivò a rilevare che un accordo di questa natura doveva essere raggiunto con assoluta razionalità: trattare con gli Asha’man era un modo certo per infiammare gli animi, e qualunque approccio tranne una fredda logica avrebbe di certo condotto al disastro all’istante. Si accalorò non poco al riguardo, in effetti. Romanda voleva che il gruppo fosse guidato da una Gialla; tuttavia, dato che pareva improbabile che ci sarebbe stato un gran bisogno di Guarigione, fu ridotta a un’ostinata insistenza sul fatto che qualunque altra Sorella potesse essere distolta dall’interesse specifico della propria Ajah e dimenticare lo scopo di ciò che stavano facendo.
La Adunanti della stessa Ajah si appoggiavano a vicenda solo quanto bastava per non opporsi apertamente, e non c’erano due Ajah disposte a spalleggiarsi su niente oltre al fatto che avevano convenuto di mandare un’ambasciata alla Torre Nera. Anche che dovesse essere chiamata un’ambasciata fu dibattuto, perfino da alcune che si erano dette a favore all’inizio. La stessa Moria parve colta alla sprovvista alla sola idea.
Egwene non era l’unica a trovare stancanti le costanti argomentazioni e controargomentazioni, con dettagli tanto cavillosi che costringevano a ricominciare tutto da capo. Le Sorelle dietro le panche iniziarono ad allontanarsi, per essere sostituite da altre che a loro volta se ne andarono dopo qualche ora. Per quando Sheriam pronunciò la frase rituale, «Andate con la Luce», era scesa la notte, e solo poche dozzine rimanevano oltre a Egwene e le Adunanti, diverse delle quali erano afflosciate come se fossero state lenzuola bagnate passate a un mangano. E non era stato deciso nulla tranne che sarebbero state necessarie altre discussioni prima che qualcosa potesse essere deciso. Fuori una pallida mezzaluna era sospesa in un cielo nero come il velluto cosparso di stelle scintillanti, e l’aria era intrisa di un freddo aspro. Col suo respiro che si arricciava in una pallida foschia nell’oscurità, Egwene si allontanò dal Consiglio sorridendo mentre ascoltava le Adunanti che si sparpagliavano dietro di lei, alcune che ancora litigavano. Romanda e Lelaine stavano camminando assieme, ma la limpida voce acuta della Gialla si avvicinava pericolosamente a urlare e quella dell’Azzurra non era molto da meno. Di solito litigavano quando erano costrette a stare in compagnia l’una dell’altra, ma questa era la prima volta che Egwene le aveva viste restare assieme quando non dovevano. Sheriam si offrì senza entusiasmo di andare a prendere i rapporti sulle riparazioni dei carri e sul foraggio che lei aveva chiesto quella mattina, ma la donna dagli occhi stanchi non tentò di nascondere il suo sollievo quando Egwene la mandò a letto. Con un’affrettata riverenza , sgattaiolò via nella notte tenendo stretto il mantello attorno a sé. Molte delle tende erano buie, ombre alla luce della luna. Poche Sorelle rimanevano sveglie a lungo dopo l’imbrunire. Non c’erano mai grandi scorte di olio per lampade e candele.
Per il momento, il ritardo per Egwene era perfetto, ma non era l’unico motivo per il suo sorriso. In qualche punto di tutta quella discussione, il suo mal di testa era svanito completamente. Non avrebbe avuto difficoltà ad andare a dormire quella notte. Halima vi poneva sempre rimedio, tuttavia i suoi sogni erano sempre agitati dopo un massaggio. Be’, pochi dei suoi sogni erano piacevoli, ma quelli erano più cupi di ogni altro e, stranamente, non riusciva a ricordare nulla tranne che erano cupi e agitati. Senza dubbio entrambe le cose derivavano da qualche residuo dei dolori che le dita di Halima non raggiungevano, nondimeno l’ultimo era di per sé inquietante. Aveva imparato a ricordare tutti i sogni. Doveva ricordare tutti i sogni. Comunque quella notte, senza alcun mal di testa, probabilmente non sarebbe stato un problema, e sognare era il meno che doveva fare. Come il Consiglio e il suo studio, la tenda si trovava in una piccola radura con la propria striscia di camminamento in legno; quelle più vicine erano a una dozzina di spanne di distanza per concedere all’Amyrlin un po’ di riservatezza. Perlomeno era questa la ragione addotta per quello spazio. Poteva perfino darsi che fosse la verità. Egwene al’Vere di certo non era più irrilevante. La tenda non era grande, meno di quattro passi per lato, e all’interno era ammassata con quattro cassapanche borchiate di ottone piene di vestiti contro una parete, due giacigli e un tavolino tondo, un braciere di bronzo, una toletta, uno specchio rialzato e una delle poche vere sedie nell’accampamento. Un pezzo semplice con un minimo intaglio sobrio, occupava un po’ troppo spazio, ma era confortevole e un gran lusso quando voleva ripiegare i piedi sotto di sé e leggere. Le poche volte che aveva tempo per leggere qualcosa per il proprio piacere. Il secondo giaciglio era quello di Halima, e fu sorpresa di vedere che la donna non era ancora lì ad attenderla. La tenda non era vuota, comunque.
«Hai preso solo del pane per colazione, Madre» disse Chesa, con una voce lievemente accusatoria mentre Egwene si chinava per passare fra i lembi d’ingresso. Piuttosto robusta nel suo semplice abito grigio, la cameriera di Egwene era seduta sullo sgabello della tenda, rammendando calze alla luce di una lampada a olio. Era una donna graziosa, con un tocco di grigio fra i capelli, tuttavia a volte pareva che Chesa, invece che da Salidar, fosse stata al suo servizio da sempre. Di certo si prendeva tutte le libertà di una servitrice anziana, inclusa la prerogativa di fare delle ramanzine. «Non hai mangiato nulla a mezzogiorno, a quanto ne so,» proseguì, tenendo in alto una calza di seta bianca come la neve per esaminare il rattoppo che stava facendo al tallone «e la tua cena si è raffreddata lì sul tavolo almeno un’ora fa. Nessuno me l’ha chiesto, ma se lo facessero, direi che quei tuoi mal di testa derivano proprio dal non mangiare. Sei fin troppo magrolina.»
Detto questo, mise la calza in cima al suo cestino da rammendo e si alzò per prendere il mantello di Egwene. E per esclamare che Egwene era fredda come il ghiaccio. Questa, a sua parere, era un’altra causa dei suoi mal di testa. Le Aes Sedai se ne andavano in giro ignorando il freddo gelido o il caldo torrido, ma il corpo la temperatura la sapeva eccome. Meglio infagottarsi per bene. E indossare sottovesti rosse. Tutti sapevano che il rosso teneva più caldo. Anche mangiare aiutava. Una pancia vuota faceva sempre venire i brividi. Nessuno vedeva mai Chesa rabbrividire, no?
«Grazie, Madre» disse in tono divertito Egwene , il che le provocò un sommesso sbuffo di risa. E uno sguardo sconcertato. Pur con tutte le libertà che si prendeva, Chesa era tanto pignola sui formalismi da far sembrare Aledrin negligente. Nello spirito, comunque, anche se spesso non nella lettera. «Non ho mal di testa stasera, grazie a quel tuo té.»
Forse era stato il té. Malgrado il sapore disgustoso, come cura non era peggio che presenziare a una sessione del Consiglio durata più di mezza giornata. «E non ho molta fame, davvero. Un panino sarà sufficiente.»
Naturalmente la questione non era così semplice. Il rapporto fra padrona e servitrice non lo era mai. Vivendo a così stretto contatto, lei ti vedeva nel tuo stato peggiore e conosceva tutti i tuoi difetti e manie. Non esisteva riservatezza con la propria cameriera. Chesa borbottò e si lamentò sottovoce per tutto il tempo in cui aiutò Egwene a svestirsi, e alla fine, avvolta in una vestaglia – seta rossa, per andare sul sicuro, orlata con vaporoso merletto del Murandy e ricamata con fiori estivi: un dono di Anaiya – Egwene le permise di togliere il panno di lino che copriva il vassoio sul tavolino tondo.
Lo stufato di lenticchie era una massa congelata nella scodella, ma bastò incanalare un po’ per rimediare, e con la prima cucchiaiata Egwene scoprì di avere un certo appetito. Mangiò fino all’ultimo boccone, e poi il pezzo di formaggio bianco venato di blu, le olive piuttosto raggrinzite e i due crostosi panini marroni, anche se dovette togliervi qualche vermetto. Dato che non voleva addormentarsi troppo in fretta, bevve solo una coppa del vino speziato – anch’esso dovette essere riscaldato e per questo acquisì un certo sapore amarognolo – ma Chesa era raggiante per l’approvazione come se avesse ripulito il vassoio. Scrutando i piatti, vuoti tranne i noccioli delle olive e qualche briciola, si rese conto che l’aveva fatto per davvero. Una volta che Egwene fu nel suo stretto giaciglio, due soffici coperte di lana e una trapunta di piume d’oca tirata su fino al mento, Chesa prese con sé il vassoio, ma si soffermò sull’ingresso della tenda.
«Vuoi che torni, Madre? Se ti viene uno dei tuoi mal di testa... Be’, quella donna deve aver trovato compagnia, altrimenti sarebbe qui, ormai.» C’era aperto sdegno in ‘quella donna’. «Potrei preparare un’altra tazza di té. L’ho comprato da un ambulante che l’ha definito infallibile per il mal di testa. E anche per giunture doloranti e disturbi di stomaco.»
«Pensi davvero che sia una donna frivola, Chesa?» mormorò Egwene. Già al calduccio sotto le coperte, si sentiva sonnolenta. Voleva dormire, ma non ancora. Testa e giunture e stomaco? Nynaeve avrebbe riso fino a star male, se l’avesse sentito. Forse erano state tutte le chiacchiere di quelle Adunanti a scacciare il suo mal di testa, dopotutto.
«Halima fa la civettuola, suppongo, ma non penso che sia mai andata oltre.»
Per un momento Chesa rimase in silenzio, increspando le labbra.
«Mi mette... a disagio, Madre» disse infine. «C’è qualcosa che non va in quella Halima. Lo percepisco ogni volta che è nei paraggi. È come se sentissi che qualcuno mi sta strisciando alle spalle, o mi rendessi conto che un uomo mi sta osservando fare il bagno, o...» Rise, ma era un suono colmo di disagio. «Non so come descriverlo. Solo che qualcosa non va.»
Egwene sospirò e si rannicchiò più in profondità sotto le coperte.
«Buona notte, Chesa.» Incanalando brevemente, estinse la lampada, facendo sprofondare la tenda nella completa oscurità. «Vai a dormire nel tuo letto, stanotte.» Halima poteva rimanere turbata nell’arrivare e trovare qualcun altro sul suo giaciglio. Quella donna aveva davvero rotto il braccio a un uomo? Lui doveva averla provocata in qualche modo.
Voleva sogni, stanotte, sogni tranquilli – sogni che riuscisse a ricordare, perlomeno; pochi dei suoi sogni avrebbero potuto essere definiti tranquilli – ma innanzitutto c’era un altro sogno nel quale doveva entrare, e per fare questo già da qualche tempo non aveva bisogno di essere addormentata. Né le occorreva uno dei ter’angreal che il Consiglio conservava così gelosamente. Scivolare in una leggera trance era facile quanto solo decidere di farlo, specialmente stanca com’era, e...
...Incorporea, fluttuò in un’oscurità senza fine, circondata da uno sconfinato mare di luci, un immenso turbine di minuscoli puntini che scintillavano più netti di stelle nella notte più limpida, più numerosi delle stelle. Quelli erano i sogni di tutte le persone nel mondo, di persone in tutti i mondi che esistevano o sarebbero potuti esistere, mondi così strani che non riusciva nemmeno a immaginare come comprenderli, tutti visibili in quel minuscolo spazio vuoto fra il Tel’aran’rhiod e la veglia, lo spazio infinito fra realtà e sogni. Riconobbe al primo sguardo alcuni di quei sogni. Si assomigliavano tutti, nondimeno lei li conosceva come i volti delle sue Sorelle. Ne evitò altri. I sogni di Rand erano sempre schermati, e temeva che lui si sarebbe potuto accorgere se lei avesse cercato di sbirciare. Lo schermo le avrebbe comunque impedito di vedere alcunché. Un peccato che non potesse capire dove si trovava una persona dai suoi sogni: due puntini di luce potevano essere affiancati, mentre i sognatori potevano trovarsi a mille miglia di distanza. Fu attratta dai sogni di Gawyn, ma fuggì. I sogni presentavano i loro pericoli, non ultimo il fatto che lei avrebbe davvero voluto affondare dentro di essi. I sogni di Nynaeve la fecero soffermare, per il desiderio di instillare la paura della Luce in quella sciocca donna, ma Nynaeve era riuscita a ignorarla finora, ed Egwene non si sarebbe abbassata a trascinarla dentro Tel’aran’rhiod contro la sua volontà. Questo era il genere di cose che facevano i Reietti. Rappresentava una tentazione, però.
Muovendosi senza muoversi, cercò il sogno di una persona in particolare. Almeno una tra due: qualunque di loro sarebbe andata bene. Le luci parevano roteare attorno a lei, sfiorarla così veloci da diventare strisce indistinte mentre lei fluttuava immobile nel mare stellato. Sperava che almeno una delle persone a cui dava la caccia fosse già addormentata. Per la Luce, era tardi per chiunque. Vagamente consapevole del proprio corpo nel mondo della veglia, percepì sé stessa sbadigliare e raggomitolare le gambe sotto le coperte. Poi vide il puntino luminoso che cercava e questo si ingrandì davanti ai suoi occhi mentre si precipitava verso di lei, da una stella nel cielo a una luna piena, fino a una parete scintillante che riempiva il suo campo visivo, pulsante come una cosa viva. Lei non lo toccò, naturalmente: ciò avrebbe potuto portare a ogni genere di complicazioni perfino con questa sognatrice. Inoltre sarebbe stato imbarazzante scivolare accidentalmente nel sogno di qualcuno. Allungandosi con la propria volontà verso lo spazio sottile come un capello che rimaneva fra lei e il sogno, parlò con cautela, in modo che le sue parole non fossero udite come un urlo. Non aveva corpo né bocca, ma parlava. Elayne, sono Egwene. Incontriamoci nel solito posto. Non pensò che qualcuno potesse origliare, non senza che lei lo sapesse, tuttavia non era il caso di correre rischi inutili.
Il puntolino smise di lampeggiare. Elayne si era svegliata. Ma si sarebbe ricordata, e avrebbe saputo che la voce non era stata solo parte di un sogno.
Egwene si mosse di lato. O forse era più simile a completare un passo lasciato a metà. Era un po’ entrambe le cose. Si mosse e...
...Era in piedi in una piccola stanza, vuota tranne per un tavolo di legno graffiato e tre sedie dallo schienale dritto. Le due finestre mostravano che fuori era notte fonda, tuttavia c’era uno strano tipo di luce, diversa da quella della luna, del sole o di una lampada. Non sembrava provenire da nessuna parte: c’era e basta. Ma era più che sufficiente per vedere chiaramente quella triste stanzetta. I polverosi pannelli a muro erano tarlati, e i vetri rotti alle finestre avevano consentito alla neve di ammassarsi in cima a un cumulo di ramoscelli e foglie morte. Più precisamente, alle volte sul pavimento c’era la neve, e alle volte ramoscelli e foglie. Il tavolo e le sedie rimanevano al loro posto, ma la neve poteva sparire ogni volta che lei distoglieva gli occhi e guardava di nuovo, i ramoscelli e le foglie marroni in posti diversi come sparpagliati da una folata di vento. Cambiavano posto anche mentre lei stava guardando, un momento qui e l’attimo dopo lì. Quello ormai non le sembrava più strano della sensazione di essere osservata da occhi invisibili. Nessuna delle due cose era davvero reale: era solo il modo in cui le cose funzionavano nel Tel’aran’rhiod. Un riflesso di realtà e sogno, tutto mescolato assieme.
Tutti i luoghi nel Mondo dei Sogni avevano in sé un senso di vuoto, ma in questa stanza tale sensazione veniva acuita dal fatto che si trattava di un posto davvero abbandonato nel mondo della veglia. Non molti mesi prima, questa camera era stata lo Studio dell’Amyrlin, all’interno di una locanda chiamata Piccola Torre nel villaggio di Salidar – reclamato dall’invasione della foresta che aveva scompigliato – il cuore della resistenza a Elaida. Le Sorelle Viaggiavano ancora a Salidar, per visitare le colombaie, ognuna di loro attenta che un piccione inviato da una delle sue spie non cadesse nelle mani di un’altra, ma solo nel mondo della veglia. Recarsi alle colombaie ora sarebbe stato inutile quanto sperare che i piccioni ti trovassero per miracolo. Gli animali addomesticati parevano non avere un riflesso nel Mondo dei Sogni, e qui non si poteva fare nulla per influenzare il mondo della veglia. Le Sorelle che avevano accesso ai ter’angreal del sogno avevano posti migliori da visitare che non un villaggio deserto nell’Altera, e di certo non c’era nessun altro che avesse motivo per venirvi in sogno. Questo era uno dei pochi posti al mondo in cui Egwene era certa che nessuno l’avrebbe colta di sorpresa. Troppi altri luoghi si erano rivelati pieni di gente che origliava. O forieri di una profonda tristezza. Detestava vedere ciò che erano diventati i Fiumi Gemelli da quando se n’era andata.
Nell’attesa che Elayne apparisse, cercò di placare la propria impazienza. Elayne non era una camminatrice dei sogni: le occorreva usare un ter’angreal. E senza dubbio avrebbe voluto dire ad Aviendha dove stava andando. Col passare dei minuti Egwene si ritrovò a camminare irritata su e giù per le assi scabre. Il tempo scorreva diversamente qui. Un’ora nel Tel’aran’rhiod poteva essere qualche minuto nel mondo della veglia, o viceversa. Magari Elayne stava andando veloce come il vento. Egwene controllò i propri vestiti, un abito grigio per cavalcare con un elaborato ricamo verde sul corpetto e ampie fasce sulle gonne divise – stava forse pensando all’Ajah Verde? – e i capelli raccolti in una semplice reticella d’argento. Poco ma sicuro, la lunga e stretta stola dell’Amyrlin le pendeva attorno al collo. La fece sparire, poi, dopo un momento, le consentì di ritornare. Era questione di lasciare che riapparisse, senza nemmeno un pensiero cosciente. La stola era parte di come lei pensava a sé stessa, ora, ed era come Amyrlin che doveva parlare a Elayne.
La donna che apparve infine nella stanza, però, balzando fuori dal nulla, non era Elayne bensì Aviendha, sorprendentemente abbigliata in seta azzurra ricamata d’argento, con pallido merletto ai polsi e alla gola. Il pesante braccialetto di avorio intagliato che indossava pareva fuori luogo con quel vestito quanto il ter’angreal del sogno che dondolava da una corda di cuoio attorno al suo collo, un anello di pietra screziata stranamente ritorto.
«Dov’è Elayne?» chiese Egwene ansiosa. «Sta bene?»
La donna aiel guardò sé stessa con aria sconcertata e tutt’a un tratto fu in una voluminosa gonna scura e una blusa bianca, con uno scialle scuro drappeggiato sopra le spalle e un fazzoletto nero avvolto attorno alle tempie per reggere i capelli rossicci che ora le pendevano fino alla cintola, più lunghi che nella realtà, sospettò Egwene. Tutto era mutevole nel Mondo dei Sogni. Una collana d’argento apparve attorno al suo collo, complicati intrecci di dischi che i Kandori chiamavano fiocchi di neve, un dono che Egwene stessa le aveva fatto quello che sembrava moltissimo tempo fa. «Non riusciva a farlo funzionare» disse Aviendha, il braccialetto d’avorio che le scivolava sul polso mentre toccava l’anello ritorto che pendeva ancora dalla striscia di cuoio ora sopra la sua collana. «I flussi continuavano a sgusciarle via. Sono i bambini.»
All’improvviso sogghignò. I suoi occhi di smeraldo parevano quasi brillare. «Ha un bel caratterino, a volte. Ha gettato per terra l’anello e si è messa a saltarci sopra.»
Egwene tirò su col naso. Bambini? Dunque ce ne sarebbe stato più di uno. Per quanto strano, Aviendha accettava senza problemi che Elayne fosse incinta, anche se Egwene era convinta che pure lei amasse Rand. Gli Aiel erano a dir poco particolari. Egwene però non se lo sarebbe aspettato da Elayne! E da Rand! Nessuno in effetti aveva detto che era il padre, e lei non poteva porre una domanda del genere, ma era capace di fare i conti, e aveva forti dubbi che Elayne avrebbe dormito con un altro uomo. Si rese conto che stava indossando robuste vesti di lana, scure e pesanti, e uno scialle più spesso di quello di Aviendha. Buoni indumenti dei Fiumi Gemelli. Il tipo di vestiti che una donna avrebbe indossato per una riunione del Circolo delle Donne. Per esempio, quando una sciocca si era fatta mettere incinta e non dava segni di volersi sposare. Un profondo respiro tranquillizzante e tornò nel suo vestito per cavalcare ricamato di verde. Il resto del mondo non era come i Fiumi Gemelli. Per la Luce, con tutto ciò che aveva vissuto doveva saperlo. Non era necessario che le piacesse, ma doveva conviverci.
«Basta che lei e... i bambini... stiano bene.» Per la Luce, quanti?
Più di uno poteva presentare delle difficoltà. No, non l’avrebbe chiesto. Di certo Elayne aveva a disposizione la migliore levatrice di Caemlyn. Meglio affrettarsi a cambiare argomento. «Hai notizie di Rand? O di Nynaeve? Dovrei dirle un paio di cosette, scapparsene via con lui a quel modo...»
«Nemmeno noi sappiamo nulla» replicò Aviendha, aggiustandosi lo scialle con cautela come qualunque Aes Sedai che evitasse gli occhi dell’Amyrlin. Anche nel suo tono c’era cautela?
Egwene schioccò la lingua, irritata con sé stessa. Stava davvero cominciando a vedere cospirazioni dappertutto e a essere sospettosa per ogni cosa. Rand si era reso irreperibile, e questo era tutto. Nynaeve era una Aes Sedai, libera di agire come meglio credeva. Perfino quando l’Amyrlin ordinava, le Aes Sedai trovavano spesso un modo per fare esattamente a modo loro. Ma l’Amyrlin avrebbe comunque dato una bella lezione a Nynaeve al’Meara, una volta che fosse riuscita a rintracciarla. E per quanto riguardava Rand... «Temo che ti troverai presto in mezzo ai guai» disse. Una squisita teiera in argento apparve sul tavolo, su un vassoio sbalzato anch’esso d’argento con due delicate tazze in porcellana verde. Un filo di vapore si levava dal beccuccio. Avrebbe potuto far apparire il té già nelle tazze, tuttavia l’atto di versarlo sembrava parte integrante dell’offrire a qualcuno del té, perfino questa bevanda effimera che non era più reale di un sogno. Una persona sarebbe potuta morire di sete bevendo solo ciò che trovava nel Tel’aran’rhiod, tanto più se lo creava da sé, ma dal suo sapore sembrava che le foglie di questo té provenissero da un nuovo barile e che lei vi avesse messo la giusta quantità di miele. Accomodandosi su una delle sedie, sorseggiò il suo mentre spiegava cos’era accaduto nel Consiglio e perché.
Dopo le prime parole, Aviendha tenne la propria tazza sulla punta delle dita senza bere e osservò Egwene senza battere ciglio. Le sue gonne scure e la blusa pallida divennero il cadin’sor, giacca e pantaloni di colore grigio e marrone che sarebbero svaniti nelle ombre. I suoi capelli lunghi tutt’a un tratto furono corti e nascosti da uno shoufa, il velo nero che le pendeva davanti al petto. Per contrasto, il braccialetto d’avorio le ciondolava ancora al polso sebbene le Fanciulle della Lancia non indossassero gioielli.
«Tutto per via del faro che abbiamo percepito» borbottò, quasi fra sé, quando Egwene ebbe terminato. «Perché pensano che le Anime dell’Ombra abbiano un’arma.» Uno strano modo per descrivere la faccenda.
«Cos’altro potrebbe essere?» chiese Egwene, curiosa. «Forse una delle Sapienti ha detto qualcosa?» Era ormai molto tempo che non credeva più che le Aes Sedai possedessero tutta la conoscenza, e a volte le Sapienti rivelavano sacche di informazioni che avrebbero potuto sconcertare la Sorella più imperturbabile.
Aviendha si accigliò, e i suoi vestiti tornarono a gonna, blusa e scialle, poi dopo un momento alla seta azzurra e merletto, stavolta sia con la collana Kandori che con il braccialetto d’avorio. L’anello del sogno rimaneva sulla sua corda, ovviamente. Uno scialle le apparve attorno alle spalle. La stanza era gelata, tuttavia pareva improbabile che quello strato semitrasparente di merletto azzurro pallido potesse offrire un po’ di calore. «Le Sapienti sono incerte come le tue Aes Sedai. Non altrettanto spaventate, però, ritengo. La vita è un sogno, e chiunque alla fine si sveglia. Danziamo le lance con Bruciaerba, ma nessuno entra nella danza certo di vivere, o vincere.» Quel nome per il Tenebroso era sempre suonato strano a Egwene, provenendo dal Deserto privo di vegetazione. «Non penso che le Sapienti prenderebbero in considerazione una qualunque alleanza con gli Asha’man. Questo è saggio?» aggiunse con cautela. «Da ciò che hai detto, non sono certa che neanche tu lo desideri.»
«Non vedo altra scelta» disse Egwene con riluttanza. «Quel buco è di tre miglia di diametro. È l’unica speranza che abbiamo, per come la vedo.»
Aviendha scrutò dentro il suo té. «E se le Anime dell’Ombra non possedessero nessuna arma?»
All’improvviso Egwene si rese conto di quello che stava facendo l’altra donna. Aviendha si stava addestrando come Sapiente e, indumenti o meno, si stava comportando da Sapiente. Era probabile che fosse questa la ragione dello scialle. Una parte di Egwene voleva sorridere. La sua amica non era più la Fanciulla della Lancia spesso avventata che aveva conosciuto al principio. Un’altra parte di lei ricordò che le Sapienti non avevano sempre gli stessi obiettivi delle Aes Sedai. Quello che le Sorelle tenevano in gran conto a volte non significava nulla per le Sapienti. Dover pensare ad Aviendha come a una Sapiente invece che semplicemente come a un’amica le metteva tristezza. Una Sapiente che avrebbe messo in primo piano gli interessi degli Aiel invece di quelli della Torre. Nondimeno, la sua era una buona domanda.
«Dovremo fare i conti con la Torre Nera presto o tardi, Aviendha, e Moria aveva ragione: ci sono già fin troppi Asha’man perché possiamo pensare di domarli tutti. Sempre che osiamo solo pensare di domarli prima dell’Ultima Battaglia. Forse un sogno mi mostrerà un altro modo, ma finora non è successo.» Nessuno dei suoi sogni le aveva mostrato nulla di utile, finora. Be’, non proprio. «Questo almeno ci da l’opportunità di iniziare a trovare un modo per gestirli. In ogni caso, accadrà. Sempre che le Adunanti riescano ad accordarsi su qualcosa oltre al fatto che devono tentare un accordo. Perciò dobbiamo conviverci. Potrebbe anche essere per il meglio, a lungo andare.»
Aviendha sorrise nella sua tazza da té. Non un sorriso divertito: parve sollevata, per qualche ragione. La sua voce però era seria. «Voi Aes Sedai pensate sempre che gli uomini siano degli sciocchi. Piuttosto spesso non lo sono. Più spesso di quanto pensate, almeno. Fate attenzione con questi Asha’man. Mazrim Taim non è affatto uno sciocco, e ritengo che sia un uomo pericoloso.»
«Il Consiglio ne è a conoscenza» disse Egwene in tono asciutto. Che lui fosse pericoloso, certo. Il resto valeva la pena che fosse puntualizzato. «Non so perché stiamo anche solo discutendo di questo. Non è più una mia incombenza. La cosa importante è che alla fine le Sorelle decideranno che la Torre Nera non è più una ragione per stare lontano da Caemlyn, se abbiamo intenzione di parlamentare con loro comunque. Potrà accadere domani o la prossima settimana, ma presto vedrai comparire Sorelle per una visitina a Elayne e vedere come procede l’assedio. Quello che dobbiamo decidere è come mantenere nascosto ciò che vogliamo che resti tale. Io ho qualche proposta, e spero tu ne abbia altre.»
L’idea di strane Aes Sedai che apparissero nel Palazzo Reale agitò Aviendha al punto che in un baleno passò da seta azzurra a cadin’sor, poi a gonna di lana e blusa di algode e di nuovo da capo mentre parlavano, anche se lei non parve notarlo. Il suo volto rimase tanto impassibile quanto quello di qualunque Sorella. Di certo non aveva nulla di cui preoccuparsi circa la possibilità che le Aes Sedai in visita scoprissero le donne della Famiglia, o le sul’dam e le damane prigioniere, o l’accordo col Popolo del Mare, ma era probabile che fosse in ansia per le ripercussioni su Elayne.
Il Popolo del Mare non solo fece apparire il cadin’sor, ma anche uno scudo rotondo in pelle di toro appoggiato accanto alla sua sedia assieme a tre corte lance aiel. Egwene meditò di chiederle se ci fossero particolari problemi con le Cercavento – ovvero qualcosa fuori dall’ordinario – ma tenne a freno la lingua. Se Aviendha non ne aveva fatto menzione, allora la faccenda era qualcosa di cui lei ed Elayne volevano occuparsi da sole. Di certo avrebbe detto qualcosa se si fosse trattato di fatti che Egwene avrebbe dovuto sapere. O no?
Sospirando, Egwene posò la sua tazza sul tavolo, dove scomparve prontamente, e si strofinò gli occhi con le dita. Aveva davvero il sospetto nelle ossa, ora. Ed era improbabile che sarebbe vissuta a lungo, senza. Perlomeno non doveva sempre agire sulla base dei suoi sospetti, non con un’amica.
«Sei stanca» disse Aviendha, di nuovo in blusa bianca, gonna scura e scialle, una Sapiente preoccupata con penetranti occhi verdi. «Non dormi bene?»
«Dormo bene» mentì Egwene, cercando di sorridere. Aviendha ed Elayne avevano le loro preoccupazioni e non era il caso di aggiungervi le sue emicranie. «Non mi viene in mente altro» disse alzandosi. «E a te? Allora abbiamo concluso» proseguì quando l’altra donna scosse il capo. «Di’ a Elayne di riguardarsi. E prenditi cura di lei. E dei suoi bambini.»
«Lo farò» disse Aviendha, ora nella seta azzurra . «Ma anche tu devi riguardarti. Penso che tu ti stia strapazzando troppo. Dormi bene e svegliati» disse gentilmente, il modo degli Aiel per augurare buona notte, e svanì.
Egwene fissò accigliata il punto in cui la sua amica era scomparsa. Non si stava strapazzando troppo. Solo quanto serviva. Scivolò di nuovo nel proprio corpo e scoprì che era addormentato della grossa. Questo non significava che lei fosse addormentata, o non esattamente. Il suo corpo sonnecchiava, con respiri lenti e profondi, ma lei si assopì solo quanto bastava in vista dei prossimi sogni. Avrebbe potuto semplicemente attendere fino al risveglio e ricordarli mentre li scriveva nel libricino rilegato in pelle che teneva sul fondo di una delle sue cassapanche con i vestiti, infilato sotto camicette di lino che sarebbero rimaste inutilizzate fino a primavera inoltrata. Ma osservare i sogni man mano che si presentavano era un risparmio di tempo. Pensava che questo potesse aiutarla a decifrarne il significato. Quantomeno di quelli che erano qualcosa di più di normali fantasticherie notturne. Di quelle ce n’erano a bizzeffe, spesso con protagonista Gawyn, un uomo alto e stupendo che la prendeva fra le braccia, danzava e faceva l’amore con lei. Una volta, perfino nei suoi sogni, aveva esitato di fronte al pensiero di fare l’amore con lui. Una volta sveglia era arrossita nel rievocarlo. Le sembrava così sciocco, ora, così infantile. In qualche modo lo avrebbe legato a sé come Custode, un giorno, e lo avrebbe sposato, e avrebbe fatto l’amore con lui fino a fargli urlare pietà. Perfino nel sonno, ridacchiò a quel pensiero. Altri sogni non erano così piacevoli. Stava avanzando faticosamente fra neve alta fino in vita con alberi fitti tutt’attorno a lei, sapendo che doveva raggiungere il margine della foresta. Ma perfino quando coglieva un’occhiata del limitare degli alberi davanti a sé, bastava che battesse le palpebre e retrocedevano in lontananza, lasciandola ad arrancare. Oppure stava spingendo una grossa pietra da macina su per un’erta collina, ma ogni volta che era quasi in cima scivolava e cadeva, e guardava l’enorme roccia rotolare giù fino a fondovalle, perciò doveva scendere di nuovo e ricominciare; solo che ogni volta la collina era più alta di prima. Ne sapeva abbastanza di sogni da sapere da dove provenivano questi, anche se non avevano nessun significato particolare. Nulla tranne il fatto che era stanca e aveva davanti a sé un compito apparentemente infinito. A questo non c’era rimedio, però. Percepì il suo corpo sobbalzare per quei sogni faticosi, e cercò di calmare i suoi muscoli, farli rilassare. Questo tipo di mezzo sonno era poco meglio di nulla, ma valeva ancora meno se trascorreva l’intera notte a dimenarsi nel suo giaciglio. I suoi sforzi funzionarono un po’. Almeno si limitò a piccole contrazioni quando sognò di essere costretta a tirare un carro pieno zeppo di Aes Sedai lungo una strada fangosa.
Seguirono altri sogni, di vario genere.
Mat era sul prato di un villaggio, a giocare a bocce. Le case dai tetti di paglia erano indistinte, come accade nei sogni – a volte i tetti erano d’ardesia, a volte le case parevano di pietra, altre di legno – ma lui era chiaro e ben definito, abbigliato in un’elegante giacca verde e con quel suo cappello nero a tesa larga, proprio come il giorno in cui era entrato a cavallo a Salidar. Non c’era nessun altro essere umano in vista. Sfregando la boccia fra le mani, prese una breve rincorsa e la fece rotolare con disinvoltura lungo l’erba spianata. Tutti e nove i birilli caddero, sparpagliati come se fossero stati presi a calci. Mat si voltò e raccolse un’altra boccia, e i birilli furono di nuovo dritti. No, c’era una nuova serie di birilli. I vecchi erano ancora a terra dove erano caduti. Lanciò di nuovo la boccia, un tiro lento accompagnato con la mano. Ed Egwene volle urlare. I birilli non erano pezzi di legno torniti. Erano uomini, fermi a guardare la boccia che rotolava verso di loro. Nessuno si mosse finché la palla non li fece volare via. Mat si voltò per prenderne un’altra, e ci furono altri birilli, altri uomini, disposti in una formazione ordinata fra gli uomini sdraiati al suolo come morti. No, erano morti. Imperturbato, Mat lanciò.
Era un vero sogno: lo seppe molto prima che svanisse. Uno scorcio del futuro che si sarebbe potuto avverare, un monito di qualcosa da cui guardarsi. I veri sogni erano sempre possibilità, non certezze – spesso doveva ricordarlo a sé stessa: Sognare non era Predire – ma questa era una possibilità terribile. Ognuno di quei birilli umani rappresentava migliaia di uomini. Di quello lei era certa. E un Illuminatore ne era parte. Mat aveva incontrato un Illuminatore una volta, ma era stato molto tempo fa. Questo era qualcosa di più recente. Gli Illuminatori erano sparpagliati, le loro case di gilda perdute. Una stava perfino dedicandosi al proprio mestiere con uno spettacolo viaggiante con cui Elayne e Nynaeve si erano spostate per un po’ di tempo. Mat avrebbe potuto trovare un Illuminatore ovunque. Tuttavia, era solo un possibile futuro. Lugubre e sanguinoso, ma solo possibile. Tuttavia lei lo aveva sognato almeno due volte. Non esattamente lo stesso sogno, ma sempre il medesimo significato. Questo forse rendeva più probabile che si avverasse? Avrebbe dovuto chiedere alle Sapienti di scoprirlo, ma era sempre più riluttante a farlo. Ogni domanda che poneva rivelava loro qualcosa, e i loro obiettivi non erano i suoi. Per salvare quello che potevano degli Aiel, avrebbero lasciato che la Torre Bianca venisse ridotta in polvere. Lei aveva più di un solo popolo, più di una sola nazione a cui pensare.
Altri sogni.
Stava arrancando su per uno stretto sentiero roccioso lungo la facciata di un altissimo dirupo. Le nuvole la circondavano, nascondendo il suolo sottostante e la cresta sopra di lei, tuttavia sapeva che erano entrambi molto distanti. Doveva procedere con estrema cautela. Il sentiero era una sporgenza incrinata di roccia larga a malapena per stare in piedi con una spalla premuta contro il dirupo, una cengia disseminata di sassi grandi quanto il suo pugno che potevano farle mettere il piede in fallo e precipitare oltre il bordo. Sembrava quasi come i sogni in cui spingeva macine e tirava carretti, tuttavia sapeva che si trattava di un vero sogno.
All’improvviso, la sporgenza crollò sotto di lei con lo schianto di roccia che si sgretola, ed Egwene cercò freneticamente di aggrapparsi al dirupo, le dita che raspavano per trovare un appiglio. Le punte scivolarono in una minuscola crepa e la sua caduta si arrestò con un sobbalzo che le strattonò le braccia. Con i piedi che dondolavano fra le nuvole, ascoltò il fracasso delle rocce che cadevano contro il dirupo finché il rumore non svanì nel nulla senza che le pietre avessero toccato il suolo. Poteva vedere la cornice frantumata alla sua sinistra, in modo indistinto. A dieci piedi di distanza, era come se fosse stata a un miglio, per la possibilità che aveva di raggiungerla. Nell’altra direzione, le nebbie celavano qualunque cosa rimanesse del sentiero, ma riteneva che dovesse essere ancora più lontano. Non c’era forza nelle sue braccia. Non riusciva a tirarsi su, solo a rimanere appesa aggrappata con la punta delle dita finché non fosse caduta. Il bordo del crepaccio sembrava tagliente come un coltello sotto le sue dita.
All’improvviso apparve una donna, che calava dalla scoscesa parete del dirupo sbucando dalle nuvole, procedendo tanto agilmente come se stesse scendendo delle scale. C’era una spada assicurata con delle cinghie alla sua cintura. Il suo volto guizzava, senza mai stabilizzarsi chiaramente, ma la spada pareva solida quanto la roccia. La donna raggiunse il livello di Egwene e protese una mano. «Possiamo raggiungere la cima assieme» disse con un familiare accento strascicato. Egwene scacciò via il sogno come avrebbe fatto con una vipera. Avvertiva il suo corpo dibattersi, sentiva sé stessa gemere nel sonno, ma per un momento non riuscì a fare nulla. Aveva sognato di quella Seanchan in precedenza, una donna in qualche modo connessa a lei, ma questa era una Seanchan che l’avrebbe salvata. No! Le avevano messo un guinzaglio al collo, l’avevano resa damane. Avrebbe preferito morire che essere salvata da una Seanchan! Passò moltissimo tempo prima che riuscisse a dedicarsi a calmare il suo corpo dormiente. O forse parve solo lungo. Non una Seanchan, mai!
Lentamente, i sogni tornarono.
Si stava inerpicando su per un altro sentiero lungo un dirupo ammantato dalle nuvole, ma questo era un ampio ripiano con una liscia pavimentazione in pietra bianca e non c’erano rocce fra i piedi. Il dirupo stesso era bianco come gesso e liscio come se fosse stato levigato. Malgrado le nubi, la pallida pietra quasi luccicava. Si affrettò a salire e presto si rese conto che la cornice procedeva a spirale. Il dirupo era in realtà una guglia. Non appena quel pensiero si fece strada nella sua mente si ritrovò sulla cima, un piatto disco levigato circondato dalla nebbia. Non proprio piatto, in realtà. Un piccolo basamento bianco era al centro di quel cerchio, sormontato da una lampada a olio fatta di limpido vetro. La fiamma in quella lampada ardeva vivida e ferma, senza tremolare. Ed era bianca.
Tutt’a un tratto un paio di uccelli guizzarono fuori dalla foschia, due corvi neri come la notte. Volando sopra la cima della guglia, colpirono la lampada e proseguirono senza la minima esitazione. La lampada ruotò su sé stessa e dondolò, oscillando in cima al basamento, scagliando gocce d’olio tutt’intorno. Alcune di esse presero fuoco a mezz’aria e svanirono. Altre caddero attorno alla corta colonna, ognuna che alimentava una minuscola, tremolante fiammella bianca. E la lampada continuò a dondolare rischiando di cadere.
Egwene si svegliò nell’oscurità con un sussulto. Lo sapeva. Per la prima volta sapeva con esattezza il significato del sogno. Ma perché avrebbe sognato di una donna seanchan che la salvava e poi dei Seanchan che attaccavano la Torre Bianca? Un attacco che avrebbe scosso le Aes Sedai fin nel profondo e minacciato la Torre stessa. Ovviamente era solo una possibilità. Ma gli eventi nei veri sogni erano più probabili degli altri.
Riteneva di riflettere in tutta calma, ma quando udì un fruscio di tela dai lembi dell’ingresso per poco non abbracciò la Vera Fonte. Si affrettò a passare in rassegna esercizi da novizia per ricomporsi, l’acqua che scorreva su pietre lisce, il vento che soffiava fra l’erba alta. Per la Luce, sì che era spaventata. Gliene occorsero due per raggiungere una sorta di calma. Aprì la bocca per chiedere chi era.
«Addormentata?» borbottò piano la voce di Halima. Sembrava molto tesa, quasi eccitata. «Be’, anche a me non dispiacerebbe una buona notte di sonno.»
Ascoltando la donna che si svestiva al buio per andare a letto, Egwene giacque completamente immobile. Se le avesse fatto sapere che era sveglia, avrebbe dovuto parlare con lei e, al momento, sarebbe stato imbarazzante. Era piuttosto certa che Halima avesse trovato compagnia, seppure non per l’intera notte. Halima poteva fare come voleva, naturalmente, ma Egwene era comunque delusa. Desiderò essere rimasta addormentata, e si ritrovò ad assopirsi di nuovo, e stavolta non cercò di fermarsi a metà. Si sarebbe ricordata ogni altro sogno, e aveva bisogno di un po’ di vero sonno.
Chesa arrivò di buon mattino per portarle la colazione su un vassoio e aiutarla a vestirsi. In realtà non era ancora mattina e non pareva affatto una buona giornata. C’era solo un minimo accenno di luce solare, e la luce delle lampade era necessaria per poter vedere qualcosa. Le ceneri ardenti nel braciere si erano spente durante la notte, e il freddo che aleggiava nell’aria pareva grigio. Era possibile che nevicasse ancora. Halima sgusciò nella sottoveste di seta e poi nel suo vestito, facendo battute allegre su quanto le sarebbe piaciuto avere una cameriera, mentre Chesa stava allacciando file di bottoni che scendevano lungo la schiena di Egwene. La donna grassoccia assunse un’espressione studiata, ignorando del tutto Halima. Egwene non disse nulla. Fu molto risoluta nel non dire nulla. Halima non era la sua serva. Non aveva alcun diritto di imporre delle norme per quella donna. Proprio quando Chesa ebbe terminato con l’ultimo dei minuscoli bottoni ed ebbe dato una pacca sul braccio a Egwene, Nisao chinandosi entrò nella tenda assieme a un refolo di aria fredda. La breve occhiata che riuscì a dare prima che i lembi si richiudessero dietro di lei le mostrò che fuori era ancora grigio. Era molto probabile che nevicasse.
«Devo parlare da sola con la Madre» disse, tenendo il mantello attorno a sé come se già avvertisse la neve. Un tono così risoluto era insolito per la donna minuta.
Egwene annuì a Chesa, la quale le rivolse una riverenza, ma ciononostante la ammonì mentre usciva dalla tenda: «Non lasciare che la tua colazione si raffreddi, eh.»
Halima si soffermò a osservare sia Nisao che Egwene prima di raccogliere il mantello che giaceva in un cumulo disordinato ai piedi del suo giaciglio. «Suppongo che Delana abbia del lavoro per me» disse in un tono che suonava irritato.
Nisao guardò accigliata la schiena della donna mentre se ne andava, ma senza dire nulla abbracciò saidar e intessé una protezione contro orecchie indiscrete attorno a lei ed Egwene. Senza chiedere il permesso. «Anaiya e il suo Custode sono morti» disse. «Alcuni degli operai che portavano dentro sacchi di carbone la scorsa notte hanno udito un rumore, come qualcuno che si stava dibattendo e, cosa sorprendente, sono accorsi a vedere cosa fosse. Hanno trovato Anaiya e Setagana stesi nella neve, morti.»
Egwene si mise a sedere lentamente sulla sua sedia, che al momento non pareva particolarmente confortevole. Anaiya, morta. Non aveva nulla di particolarmente bello a parte il sorriso, ma quando sorrideva riscaldava ogni cosa attorno a lei. Una donna dal volto franco che amava il merletto sulle vesti. Egwene sapeva che avrebbe dovuto provare tristezza anche per Setagana, ma lui era stato un Custode. Se fosse sopravvissuto ad Anaiya, era improbabile che lo sarebbe stato per molto. «Come?» chiese. Nisao non avrebbe certo intessuto quella protezione solo per dirle che Anaiya era morta.
Il viso di Nisao si irrigidì e, malgrado il flusso, guardò sopra la propria spalla come se temesse che qualcuno fosse in ascolto accanto ai lembi d’ingresso. «Gli operai hanno pensato che avessero mangiato dei funghi malconservati. Alcuni contadini sono incauti nel raccogliere quello che intendono vendere, e il tipo sbagliato può paralizzare i polmoni o gonfiare la gola tanto da farti morire annaspando.» Egwene annuì con impazienza. Dopotutto era cresciuta in un villaggio di campagna. «Tutti sono sembrati disposti ad accettarlo » proseguì Nisao, senza fretta. Con le mani che si contorcevano e si flettevano sui bordi del mantello, appariva riluttante a giungere alla conclusione. «Non c’erano ferite, nessuna lesione di sorta. Nessuna ragione per pensare che non fosse altro che un agricoltore avido che vende funghi nocivi. Ma...»
Sospirò, dando un’occhiata sopra la spalla, e abbassò la voce.
«Suppongo che sia stato per tutti quei discorsi sulla Torre Nera nel Consiglio oggi. Ho controllato se ci fosse una risonanza. Sono stati uccisi con saidin.» Una smorfia di disgusto attraversò il suo volto.
«Penso che qualcuno abbia semplicemente intessuto flussi solidi di Aria attorno alle loro teste e li abbia lasciati soffocare.» Rabbrividendo, si strinse ancora di più nel mantello.
Anche Egwene voleva rabbrividire. Era sorpresa di non averlo già fatto. Anaiya, morta. Soffocata. Un modo deliberatamente crudele di uccidere, usato da qualcuno che sperava di non lasciare tracce. «L’hai già detto a qualcuno?»
«Certo che no» rispose Nisao indignata. «Sono venuta dritta da te. Non appena ho saputo che eri sveglia.»
«Un peccato. Dovrai spiegare il perché del tuo ritardo. Non possiamo mantenere questo segreto.» Be’, le Amyrlin avevano mantenuto segreti ben più oscuri per il bene della Torre, per come lo vedevano. «Se abbiamo fra noi un uomo in grado di incanalare, allora le Sorelle devono stare in guardia.» Un uomo in grado di incanalare che si nascondeva fra gli operai o i soldati pareva improbabile, ma lo era ancora meno la possibilità che uno venisse lì solo per uccidere un’unica Sorella e il suo Custode. Il che faceva sorgere un’altra domanda.
«Perché Anaiya? Si trovava solo nel posto sbagliato al momento sbagliato? Dove sono morti?» chiese. «Vicino ai carri sul lato meridionale dell’accampamento. Non so perché fossero lì a quell’ora di notte. A meno che Anaiya non stesse andando alle latrine e Setagana pensasse di doverla sorvegliare anche lì.»
«Allora lo scoprirai per me, Nisao. Cosa stavano facendo Anaiya e Setagana fuori quando tutti gli altri erano a dormire? Perché sono stati uccisi? Questo lo terrai segreto. Finché non saprai fornirmi i motivi, nessuno tranne noi due deve sapere che li stai cercando.»
La bocca di Nisao si aprì e si richiuse. «Se devo farlo, lo farò» borbottò a mezza voce. Non era davvero adatta per mantenere segreti importanti, e lo sapeva. L’ultimo che aveva provato a mantenere l’aveva portata direttamente a dover giurare fedeltà a Egwene. «Questo porterà a una fine delle discussioni su un accordo con la Torre Nera?»
«Ne dubito» rispose Egwene in tono stanco. Per la Luce, come poteva essere già stanca? Il sole non era ancora del tutto in cielo. «A ogni modo, penso che sarà un’altra giornata molto lunga.» E la migliore speranza che poteva trovare in tutto ciò era riuscire ad arrivare a un’altra notte senza mal di testa.