25 Quando indossare gioielli

Perrin camminava con impazienza su e giù per i tappeti a fiori che fungevano da pavimento per la tenda, scrollando le spalle dallo sconforto nella giacca di scura seta verde, che aveva indossato di rado da quando Faile gliel’aveva fatta cucire. Diceva che l’elaborato ricamo argenteo si addiceva alle sue spalle, ma l’ampia cintura che reggeva l’ascia al suo fianco, una disadorna come l’altra, non faceva altro che indicare che era uno sciocco che faceva finta di essere qualcosa di più. Alle volte si stringeva di più i guanti d’arme, oppure guardava torvo il suo mantello orlato di pelliccia, steso sullo schienale di una sedia e pronto da mettere. Per due volte estrasse un foglio di carta dalla manica e lo spiegò per studiare lo schizzo della mappa di Malden mentre passeggiava avanti e indietro. Quella era la cittadina dove Faile era tenuta prigioniera.

Jondyn, Get e Hu avevano raggiunto gli abitanti di Malden in fuga, ma l’unica cosa utile che avevano ottenuto era stata la mappa, e farli fermare il tempo che serviva per tracciarla era stata un’impresa. Quelli abbastanza forti per combattere erano morti o indossavano il bianco da gai’shain per gli Shaido; quelli che erano fuggiti erano i vecchi e i giovanissimi, i malati e gli storpi. Stando a Jondyn, il pensiero che qualcuno potesse obbligarli a tornare a combattere gli Shaido non aveva fatto altro che accelerare i loro passi a nord verso l’Andor e la salvezza. La mappa era un enigma, col suo dedalo di strade, la fortezza della lady e la grande cisterna nell’angolo nordorientale. Lo tentava con numerose possibilità. Ma erano possibilità solo se avesse trovato una soluzione all’enigma più complesso che la mappa non mostrava: l’enorme massa di Shaido che circondava la cinta muraria della cittadina, per non parlare di quattro o cinquecento Sapienti in grado di incanalare. Perciò rimise la mappa nella manica e continuò a camminare.

La stessa tenda a strisce rosse lo irritava quanto la mappa, così come il mobilio, le sedie dai bordi dorati che potevano essere piegate in modo da essere trasportate e il tavolo con la superficie mosaicata che invece non poteva, lo specchio a figura intera e la toletta con specchiera e perfino le cassapanche borchiate di ottone poste in fila lungo una parete esterna. Fuori c’era a malapena la luce e tutte le dodici lampade erano accese, gli specchi che scintillavano. I bracieri che avevano tenuto lontano il freddo pungente della notte ancora contenevano alcune braci. Aveva perfino fatto tirar fuori e appendere alle aste del soffitto due arazzi di seta, decorati con file di uccelli e fiori. Aveva lasciato che Lamgwin gli spuntasse la barba e gli radesse le guance e il collo; si era lavato e aveva indossato indumenti puliti. Aveva fatto predisporre la tenda come se Faile stesse per tornare da un momento all’altro da una cavalcata. Tutto in modo che chiunque l’avrebbe guardato vedendo un dannato lord, si sarebbe sentito colmo di fiducia. E ogni minima cosa gli ricordava che Faile non era là fuori a cavalcare. Sfilandosi uno dei suoi guanti d’arme, frugò nella tasca della sua giacca e fece scorrere le dita lungo la corda di cuoio grezzo infilata lì dentro. Trentadue nodi, ora. Non aveva bisogno che gli venisse ricordato, ma alle volte giaceva sveglio una notte intera nel letto in cui Faile non c’era, contando quei nodi. In qualche modo erano diventati una connessione con lei. Comunque stare sveglio era meglio degli incubi.

«Se non ti siedi, sarai troppo stanco per cavalcare a So Habor perfino con l’aiuto di Neald» disse Berelain, suonando lievemente divertita. «Solo guardarti mi spossa.»

Lui riuscì a non lanciarle un’occhiataccia. In un vestito per cavalcare blu scuro, con una spessa collana d’oro costellata di gocce di fuoco attorno al collo e la stretta corona di Mayene con un falco dorato in volo sopra la sua fronte, la Prima di Mayene era seduta, con le mani conserte attorno ai guanti rossi che teneva in grembo, sul suo mantello cremisi steso su una delle sedie pieghevoli. Pareva compassata quanto una Aes Sedai e odorava paziente. Perrin non capiva perché avesse smesso di odorare come se lui fosse un agnello grasso intrappolato nei rovi pronto per essere divorato da lei, ma provò quasi gratitudine nei suoi confronti. Era bello avere qualcuno con cui parlare su quanto gli mancava Faile. Lei ascoltò e assunse un odore di solidarietà.

«Voglio essere qui se... quando Gaul e le Fanciulle porteranno alcuni prigionieri.» Quella parola subito corretta gli provocò una smorfia quanto il ritardo. Era come se dubitasse. Presto o tardi avrebbero catturato alcuni Shaido, tuttavia a quanto pareva non era una faccenda semplice. Prendere prigionieri non sarebbe servito a nulla, a meno che non fossero riusciti a portarli via, e gli Shaido erano incauti solo se paragonati ad altri Aiel. Anche Sulin era stata paziente nello spiegarglielo. Ma per Perrin stava diventando difficile essere paziente.

«Cosa sta trattenendo Arganda?» grugnì.

Come se il nome del Ghealdano l’avesse infine evocato, Arganda entrò dai lembi d’ingresso, il suo volto come pietra e gli occhi infossati. Pareva che avesse dormito poco quanto Perrin. L’uomo basso indossava la sua corazza d’argento ma non l’elmo. Non si era ancora rasato e una peluria brizzolata gli ingrigiva il mento. Penzolando da una mano avvolta in un guanto d’arme, un pingue borsello di cuoio tintinnò quando lo posò sul tavolo accanto ai due che erano già lì. «Dal forziere della regina» disse con amarezza. Negli ultimi dieci giorni poche delle parole che aveva pronunciato non erano state amare. «Abbastanza per coprire la nostra quota e oltre. Ho dovuto mettere tre uomini a guardia dello scrigno, dopo aver rotto la serratura. Ora che è spaccata, è una tentazione anche per i più onesti di loro.»

«Bene, bene» disse Perrin, cercando di non suonare impaziente. Non gli sarebbe importato nemmeno se Arganda avesse dovuto mettere cento uomini a guardia del forziere della regina. Il borsello di Perrin era il più piccolo dei tre, e aveva raggranellato ogni pezzo d’oro e d’argento che era riuscito a trovare per riempirlo. Gettandosi sulle spalle il suo mantello, raccolse i borselli e oltrepassò l’uomo uscendo nella mattinata grigia.

Con suo disgusto, l’accampamento aveva assunto un’aria più permanente, anche se non era nei progetti originari, e non c’era nulla che lui potesse fare al riguardo. Molti degli uomini dei Fiumi Gemelli ora dormivano al riparo delle tende, di tela rattoppata marrone pallido invece che a strisce rosse come la sua, ma ciascuna abbastanza grande per otto o dieci uomini, con le loro armi ad asta malassortite ammassate fuori; mentre gli altri avevano convcrtito i loro ripari temporanei fatti di ramoscelli in piccole ma solide capanne di rami di sempreverdi intrecciati. Le tende e le capanne formavano file serpeggianti nella migliore delle ipotesi, del tutto diverse dalle strade diritte che si vedevano fra Ghealdani e Mayenesi; tuttavia pareva comunque simile a un villaggio, con sentieri e viuzze fra la neve calpestata fino alla nuda, gelida terra. Un semplice anello di pietre circondava ogni fuoco da campo, dove capannelli di uomini se ne stavano infagottati nei loro mantelli col cappuccio tirato contro il freddo, in attesa della colazione. Era quello che Perrin aveva visto muoversi stamattina in quelle pentole di ferro nero. Con così tanti uomini a cacciare, la selvaggina disponibile stava diminuendo e il resto cominciava a scarseggiare. Erano perfino arrivati a cercare le scorte di ghiande degli scoiattoli per macinarle e allungare la farina d’avena, ma con l’inverno così avanzato tutte quelle che trovavano erano secche, se andava bene. L’amaro miscuglio riempiva lo stomaco, se così si poteva dire, ma bisognava essere davvero affamati per ingurgitarlo. Molte delle facce che Perrin poteva vedere stavano osservando con bramosia le pentole. Gli ultimi carretti stavano procedendo rumorosi attraverso un varco fra l’anello di pali appuntiti che circondavano l’accampamento, i carrettieri cairhienesi imbacuccati fino alle orecchie e ingobbiti come scuri sacchi di lana. Tutto quello che i carri avevano trasportato era stato ammassato al centro del campo. Vuoti, sobbalzavano nei solchi lasciati da quelli più avanti, un’unica fila che scompariva nella foresta circostante. La comparsa di Perrin con Berelain e Arganda alle sue spalle causò un certo subbuglio, anche se non fra gli uomini affamati dei Fiumi Gemelli. Alcuni fecero dei cauti cenni col capo nella sua direzione – uno o due sciocchi si profusero perfino in rozzi inchini! – ma la maggior parte cercava di non guardarlo quando Berelain era nelle vicinanze. Idioti. Cocciutissimi idioti! Ma c’erano anche molte altre persone, radunate a poca distanza dalla tenda a strisce rosse, che si affollavano nelle viuzze fra le altre tende. Un soldato mayenese, senza armatura e in giacca grigia, giunse di corsa con la giumenta bianca di Berelain, inchinandosi e piegandosi per reggerle la staffa. Annoura era già in sella a una lucida giumenta tanto scura quanto la cavalcatura di Berelain era pallida. Con le sottili trecce adornate di perline che le uscivano dal cappuccio del mantello fino a penderle sopra il torace, l’Aes Sedai pareva a malapena notare la donna che si supponeva dovesse consigliare. La schiena rigida, scrutò con attenzione le basse tende aiel, dove nulla si muoveva tranne i sottili pennacchi di fumo ondeggianti che si levavano dagli appositi fori. Gallenne, con elmo e pettorale rossi e la benda sull’occhio, suppliva con quello sano alla disattenzione della Sorella tarabonese. Non appena Berelain apparve, sbraitò un ordine che fece irrigidire come statue cinquanta delle Guardie Alate, le lunghe lance con la punta d’acciaio e i pennacchi rossi dritti ai loro fianchi, e quando lei montò in sella, Gallenne impartì loro un altro comando al quale anch’essi salirono a cavallo con un movimento così fluido da sembrare all’unisono.

Arganda scoccò un’occhiata corrucciata verso le tende aiel e poi verso i Mayenesi, quindi si diresse con ampie falcate verso il punto in cui attendevano altrettanti lancieri ghealdani, nelle loro armature scintillanti e i verdi elmi conici, e parlò in tono sommesso all’uomo che li avrebbe comandati. Questi era un individuo snello di nome Kireyin e, dallo sguardo altezzoso visibile dietro le sbarre del suo elmo argentato, Perrin sospettò che fosse di nobili natali. Arganda era così basso che Kireyin dovette piegarsi per ascoltare ciò che aveva da dirgli, e quella necessità gelò la sua espressione ancora di più. Al posto di una lancia con un pennacchio verde, uno degli uomini dietro Kireyin stava portando un’asta con uno stendardo rosso su cui campeggiavano le tre stelle argentee a sei punte di Ghealdan, e una delle Guardie Alate recava il falco dorato di Mayene in campo azzurro.

Anche Aram si trovava lì, anche se in disparte e non pronto per cavalcare. Avviluppato nel suo mantello verde putrido, l’elsa della spada che gli spuntava dalla spalla, divise equamente le sue occhiatacce di gelosia fra i Mayenesi e i Ghealdani. Quando vide Perrin, lo sguardo dell’uomo si fece imbronciato e lui si allontanò in tutta fretta, passando fra gli uomini dei Fiumi Gemelli in attesa della colazione. Non si fermò per scusarsi quando andò a sbattere contro qualcuno. Col passare dei giorni e mentre se ne stavano seduti ad aspettare Aram era diventato sempre più permaloso, schernendo e prendendo a male parole chiunque eccetto Perrin. Il giorno precedente era quasi venuto alle mani con un paio di Ghealdani su qualcosa che nessuno di loro riuscì a ricordare quando li ebbero separati; Aram sosteneva che i Ghealdani non avessero rispetto e loro gli avevano detto di lavarsi la bocca. Quella era la ragione per cui l’ex Calderaio veniva lasciato indietro. La faccenda a So Habor sarebbe stata già abbastanza delicata senza bisogno che Aram scatenasse un litigio che Perrin non andava cercando.

«Tieni d’occhio Aram» disse piano quando Dannil gli portò il suo baio. «E soprattutto Arganda» aggiunse, infilando i borselli nelle sue bisacce e chiudendo per bene i lembi con la fibbia. Il peso del contributo di Berelain era addirittura pari al suo e quello di Arganda messi assieme. Be’, aveva motivo di essere generosa. I suoi uomini erano affamati come chiunque altro. «A me Arganda pare un uomo pronto a fare qualcosa di stupido.» Resistenza saltellò un poco e gettò indietro la testa quando Perrin prese le redini, ma lo stallone si calmò rapidamente sotto una mano ferma e gentile.

Dannil si strofinò i baffi simili a zanne con le nocche arrossate dal freddo e lanciò un’occhiata verso Arganda, poi espirò profondamente in una nebbiolina. «Lo sorveglierò, lord Perrin,» borbottò, dando uno strattone al proprio mantello «ma per quanto tu abbia detto che, una volta che ti sarai allontanato, avrò io il comando, lui non ascolterà nulla di quello che dirò.»

Purtroppo era vero. Perrin avrebbe preferito prendere Arganda con sé e lasciare Gallenne, ma nessuno dei due era stato disposto ad accettarlo. Il Ghealdano si rendeva conto che uomini e cavalli avrebbero cominciato presto a morire di fame se cibo e foraggio non fossero stati trovati da qualche parte, ma non si lasciava convincere a trascorrere un giorno più lontano di quanto non fosse già dalla sua regina. Per certi versi, il suo comportamento pareva più frenetico di quello di Perrin, o forse era solo più pronto a farsi sopraffare da esso. Lasciato a sé stesso, Arganda si sarebbe avvicinato agli Shaido ogni giorno di più fino a trovarsi proprio sotto il loro naso. Perrin era pronto a morire per liberare Faile. Arganda pareva pronto a morire e basta.

«Fa’ quello che puoi per impedirgli di commettere qualcosa di stupido, Dannil.» Dopo un momento aggiunse: «Ma senza arrivare a sferrare colpi.» Non si aspettava che Dannil si spingesse oltre un certo limite per trattenere quell’individuo, in effetti. C’erano tre Ghealdani per ogni uomo dei Fiumi Gemelli, e Faile non sarebbe mai stata liberata se fossero arrivati a uccidersi fra loro. Perrin per poco non appoggiò la testa sul fianco di Resistenza. Per la Luce, com’era stanco, e non riusciva ancora a intravedere la fine di tutta questa faccenda. Un lento scalpitio di zoccoli annunciò l’arrivo di Masuri e Seonid, con i loro tre Custodi che cavalcavano proprio dietro di loro, avvolti in mantelli che li facevano scomparire quasi del tutto assieme a parte dei loro destrieri. Entrambe le Aes Sedai indossavano sete luccicanti, e una voluminosa collana d’oro, con i suoi pesanti fili a strati, risaltava sotto il bordo dello scuro mantello di Masuri. Una piccola gemma bianca dondolava sulla fronte di Seonid da una catenella dorata assicurata fra i suoi capelli. Annoura si rilassò, sistemandosi più comoda sulla sua sella. Lontano fra le tende aiel, le Sapienti erano in fila a osservare, sei donne alte col capo avvolto in scialli scuri. La gente di So Habor avrebbe potuto accogliere gli Aie! come quella di Malden, ma Perrin non era stato sicuro che le Sapienti avrebbero lasciato che qualunque Sorella andasse senza di loro. Erano state l’ultima ragione della loro attesa. Il sole era un bordo rosso dorato sulla sommità degli alberi.

«Prima arriviamo, prima torniamo» disse lui, montando in sella al baio. Mentre cavalcava attraverso il varco creato per far uscire i carri, gli uomini dei Fiumi Gemelli stavano già cominciando a rimettere a posto i pali mancanti. Nessuno difettava di cautela, con gli uomini di Masema nelle vicinanze.

Pur essendo a cento passi di distanza, i suoi occhi colsero un movimento, qualcuno a cavallo che scivolava via fra le ombre sotto gli alberi svettanti. Uno degli osservatori di Masema, senza dubbio, che correva a riferire al Profeta che Perrin e Berelain avevano lasciato l’accampamento. Per quanto potesse cavalcare veloce, però, non avrebbe fatto in tempo. Se Masema voleva Berelain o Perrin morti, come pareva probabile, avrebbe dovuto attendere un’altra opportunità. Gallenne però non aveva intenzione di correre rischi. Nessuno aveva visto tracce di Santes o Gendar, i cacciatori di ladri di Berelain, sin dal giorno in cui non erano tornati dal campo di Masema, e per Gallenne questo era un messaggio chiaro quanto le loro teste in un sacco. Fece disporre i suoi lancieri in un anello vigile attorno a Berelain prima che raggiungessero gli alberi. E anche attorno a Perrin, ma quello era solo fortuito. Se avesse potuto fare a modo suo, Gallenne avrebbe portato tutte e novecento le sue Guardie Alate o, meglio ancora, avrebbe convinto Berelain a non andare. Anche Perrin ci aveva provato, senza miglior fortuna. Quella donna aveva l’abitudine di ascoltare e poi fare esattamente quello che le pareva. Anche Faile era così. Alle volte un uomo non poteva far altro che conviverci. Molto spesso, dato che non c’era nient’altro da fare.

Gli enormi alberi e gli affioramenti di roccia che spuntavano dalla neve ruppero la formazione, naturalmente, ma era ancora uno spettacolo variopinto perfino nella fioca illuminazione della foresta, i rossi pennacchi che sventolavano con la leggera brezza ai raggi obliqui del sole, cavalieri in armatura rossa che svanivano ogni tanto dietro massicce querce ed ericacee. Le tre Aes Sedai cavalcavano dietro Perrin e Berelain, seguite dai loro Custodi, tutti intenti a perlustrare il bosco attorno a sé, e poi gli uomini con lo stendardo di Berelain. Kireyin e il vessillo di Ghealdan venivano poco più indietro, i suoi disposti in lucenti file ordinate, o quanto più vi si potevano avvicinare. Il fatto che la foresta sembrasse rada era solo un’impressione, e mal si addiceva a file ordinate e sgargianti stendardi, ma con l’aggiunta di sete broccate, gemme, una corona e i Custodi nei loro mantelli cangianti, era una vista davvero impressionante. Perrin avrebbe potuto ridere, anche se con poca allegria.

Berelain parve percepire i suoi pensieri. «Quando vai a comprare un sacco di farina,» disse «indossa lana semplice, in modo che il venditore pensi che non puoi permetterti di pagare più di quanto devi. Quando te ne serve un carico, indossa gioielli in modo che pensi che ti puoi permettere di comprare tutta quella su cui riesce a mettere le mani.»

Perrin malgrado il suo umore borbottò una risata. Suonava molto simile a qualcosa che una volta gli aveva detto mastro Luhhan, con una gomitata nelle costale per fargli capire che era una battuta e uno sguardo negli occhi che diceva che era qualcosa di più. Vestiti male quando vuoi un piccolo favore, ed elegante quando ne vuoi uno grosso. Era davvero lieto che Berelain non odorasse più come un lupo in caccia. Almeno aveva una cosa di meno di cui preoccuparsi.

Raggiunsero presto la coda dei carri, una linea che non era più in movimento quando arrivarono al terreno di Viaggio. Asce e sudore avevano rimosso gli alberi recisi dai passaggi e avevano creato una piccola radura, ma era affollata ancora prima che Gallenne comandasse al suo anello di lancieri di circondarla rivolti verso l’esterno. Fager Neald si trovava già lì, un vanesio Murandiano con i baffi incerati a punta, in sella a un castrone pezzato. La sua giubba non sarebbe stata riconoscibile per chi non avesse mai visto un Asha’man: l’unica di ricambio che aveva era sempre nera, e almeno non aveva delle spille che potessero distinguerlo. La neve non era alta, ma anche i venti uomini dei Fiumi Gemelli guidati da Wil al’Seen erano sui loro cavalli, invece di starsene a terra ad aspettare che i piedi gli gelassero negli stivali. Avevano l’aria più dura di quando avevano lasciato i Fiumi Gemelli con lui, archi lunghi appesi lungo la schiena, faretre traboccanti e spade di varie forme alla cintura. Perrin sperava di poterli mandare a casa presto o, ancora meglio, di portarli a casa.

Molti stavano tenendo in equilibrio un’arma ad asta sopra la sella, ma Tod al’Caar e Flann Barstere portavano degli stendardi, la testa di lupo cremisi di Perrin e l’aquila rossa di Manetheren. La forte mascella di Tod aveva un piglio ostinato, e Flann, un tizio alto e ossuto da Watch Hill, pareva imbronciato. Era probabile che non avesse voluto quell’incarico. E forse neanche Tod. Wil rivolse a Perrin uno di quegli sguardi schietti e innocenti che in patria ingannavano così tante ragazze – a Wil piaceva fin troppo ricamo sulla sua giacca nei giorni di festa, e adorava cavalcare davanti a quegli stendardi, probabilmente nella speranza che qualche donna pensasse fossero i suoi – ma Perrin lasciò correre. Nella radura c’erano altre tre persone ancor più inaspettate dei vessilli.

Tenendo stretto attorno a sé il mantello come se la brezza leggera fosse un vento forte, Balwer spronò goffamente in avanti il suo roano dal muso schiacciato a incontrare Perrin. Due dei seguaci di Faile procedevano dietro di lui con espressione di sfida. Gli occhi azzurri di Medore parevano strani nel suo scuro volto tarenese, ma d’altro canto la sua giacca, con le maniche a sbuffo a strisce verdi, pareva altrettanto strana attorno alla sua sagoma prosperosa. Figlia di un Sommo Signore, era una nobildonna fino al midollo, e abiti da uomo non le si addicevano. Latian, cairhienese e pallido in una giubba scura quasi quanto quella di Neald, seppur caratterizzata da quattro strisce rosse e blu lungo il torace, non era molto più alto di lei, e il modo in cui tirava su col naso affilato per un raffreddore e se lo strofinava, lo faceva sembrare meno competente. Nessuno dei due portava una spada, un’altra sorpresa.

«Mio signore; mia signora Prima» disse Balwer in quella sua voce asciutta, profondendosi in un inchino dalla sua sella, come un passero che si muove su e giù sopra un ramo. I suoi occhi guizzarono verso le Aes Sedai dietro di loro, ma quello fu l’unico segno che diede di aver notato le Sorelle. «Mio signore, mi sono ricordato di avere un conoscente in questa So Habor. Un coltellinaio che viaggia con la sua mercanzia, ma potrebbe essere a casa, e sono diversi anni che non lo vedo.» Questa era la prima volta che aveva menzionato di avere un amico da qualche parte, e una cittadina sepolta nel nord dell’Altara sembrava un posto singolare per una cosa del genere; ma Perrin annuì. Stava cominciando a sospettare che su Balwer ci fosse più di quanto l’uomo lasciava intendere.

«E i tuoi compagni, mastro Balwer?» Il volto di Berelain rimase impassibile nel suo cappuccio orlato di pelliccia, ma odorava divertita. Sapeva molto bene che Faile aveva utilizzato i suoi giovani seguaci come spie ed era sicura che Perrin li impiegasse allo stesso modo.

«Desideravano fare una gita, mia signora Prima» replicò in tono cortese l’ometto ossuto. «Garantirò io per loro, mio signore. Hanno promesso di non causare guai, e potrebbero apprendere qualcosa.»

Odorava divertito – un aroma stantio, ovviamente, provenendo da lui – anche se con una punta di irritazione. Balwer sapeva che lei sapeva, cosa di cui non era compiaciuto, ma Berelain non menzionava mai la cosa direttamente, il che andava bene. C’era decisamente di più su Balwer di quanto lasciava intendere.

L’uomo doveva avere le proprie ragioni per portarli con sé. Era riuscito a impiegare tutti i giovani seguaci di Faile in un modo o nell’altro, e li mandava a origliare od osservare fra i Ghealdani, i Mayenesi e perfino gli Aiel. Stando a lui, quello che gli amici dicevano poteva essere altrettanto interessante di quello che pianificavano i nemici, e questo quando c’era la certezza che fossero amici. Naturalmente Berelain sapeva che la sua gente veniva spiata. E anche Balwer sapeva che lei lo sapeva. E lei sapeva che lui... Era tutto troppo complicato per un fabbro di campagna.

«Stiamo perdendo tempo» disse Perrin. «Apri il passaggio, Neald.»

L’Asha’man gli rivolse un sogghigno e accarezzò i suoi baffi incerati – Neald sogghignava fin troppo da quando erano stati trovati gli Shaido; forse non vedeva l’ora di venire a uno scontro con loro – fece un sogghigno e un gesto ampolloso con una mano. «Come tu comandi» disse con voce allegra, e la familiare sferzata di luce argentea comparve, allargandosi in un buco nell’aria.

Senza aspettare nessun altro, Perrin vi cavalcò attraverso giungendo in un campo ammantato di neve, circondato da un muricciolo di pietra, in una campagna ondulata che pareva quasi priva di alberi, paragonata alla foresta che si era lasciato alle spalle; si trovava solo a poche miglia da So Habor, a meno che Neald non avesse commesso un errore sostanziale. In tal caso, Perrin pensò che avrebbe potuto strappargli dalla faccia quegli stupidi baffi. Come faceva quell’uomo a essere allegro?

Presto, però, stava cavalcando a ovest sotto un plumbeo cielo nuvoloso lungo una strada innevata, con i carri dalle alte ruote che procedevano in fila dietro di lui e le ombre del primo mattino che si allungavano davanti a loro. Resistenza strattonò le redini, bramando correre, ma Perrin lo mantenne a un’andatura costante, non più veloce di quella che riuscivano a mantenere i cavalli da tiro. I Mayenesi di Gallenne dovettero attraversare i campi accanto alla strada per mantenere il loro anello attorno a lui e Berelain, e questo implicò oltrepassare i muretti di pietra grezza che dividevano un campo dall’altro. Alcuni avevano dei cancelli tra la proprietà di un contadino e un’altra, probabilmente per consentire di condividere le bestie per l’aratura, ma superarono altri saltandoli presuntuosamente con i pennacchi delle lance che svolazzavano, rischiando le zampe degli animali e i propri colli. Per la verità, di quegli ultimi a Perrin importava poco.

Wil e i due stolti che recavano la testa di lupo e l’aquila rossa si unirono al portabandiera mayenese dietro le Aes Sedai e i Custodi, ma gli altri uomini dei Fiumi Gemelli si disposero in fila fiancheggiando la linea dei carri. C’erano fin troppi carretti perché venti uomini li potessero sorvegliare, tuttavia i carrettieri si sarebbero sentiti più a loro agio nel vederli. Non che qualcuno si aspettasse dei briganti, o degli Shaido, se era per quello, ma nessuno si sentiva al sicuro fuori dalla protezione dell’accampamento. In ogni caso, qui sarebbero stati in grado di vedere qualunque minaccia molto prima che li raggiungesse. Le basse colline ondulate non consentivano una visuale molto distante, ma era un territorio agricolo, con solide case di pietra dal tetto di paglia e granai sparpagliati fra i campi, e non c’erano zone selvagge da nessuna parte. Perfino la maggior parte delle macchie di alberi abbarbicati ai pendii erano boschi cedui per la legna da ardere. Ma quello che Perrin notò all’improvviso fu che la neve sulla strada davanti a lui non era fresca, tuttavia le uniche tracce erano quelle dell’avanguardia di Gallenne. Nessuno si muoveva attorno a quelle case e a quei granai scuri; non c’era fumo che si levava da nessuno degli spessi camini. La campagna pareva del tutto immobile e vuota. I peli dietro il suo collo si mossero, come per rizzarsi.

Un’esclamazione da una delle Aes Sedai gli fece lanciare un’occhiata sopra la spalla e seguire il dito di Masuri che indicava a nord una sagoma che volava in cielo. A un primo sguardo poteva essere confusa con un grosso pipistrello, che si librava verso est su lunghe ali palmate, un pipistrello ben strano con quel collo lungo e una lunga coda sottile che si trascinava dietro. Gallenne sbraitò un’imprecazione e premette il proprio cannocchiale contro l’occhio. Perrin poteva vedere bene la creatura anche senza aiuto, e perfino distinguere la figura di un essere umano aggrappato alla sua schiena, che la montava come fosse un cavallo.

«Seanchan» mormorò Berelain, e sia la sua voce sia il suo odore erano preoccupati.

Perrin si girò sulla sella per osservare il volo della creatura finché il bagliore del sole non lo costrinse a distogliere lo sguardo. «Non ha nulla a che fare con noi» disse. Se Neald aveva commesso un errore, l’avrebbe strangolato.

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