9 Trappole

«E si è lamentata ancora che le altre Sapienti sono timide» terminò Faile nel suo miglior tono sottomesso, spostando l’alto canestro che teneva in equilibrio su una spalla, appoggiando il peso da un piede all’altro nella neve fangosa. Il canestro non era pesante, anche se era pieno di bucato sporco, e la lana della sua veste bianca era spessa e calda, con due sottovesti al di sotto, ma i suoi soffici stivali di cuoio, anch’essi candeggiati, le offrivano poca protezione dalla fredda poltiglia.

«Mi è stato detto di riferire con esattezza quello che la Sapiente Sevanna diceva» si affrettò ad aggiungere. Someryn era una delle ‘altre’ Sapienti, e la sua bocca si era piegata all’mgiù alla parola ‘timide’. Tenendo gli occhi bassi, quello era tutto ciò che Faile riusciva a vedere del volto di Someryn. I gai’shain erano costretti a mantenere un comportamento umile, specialmente quelli che non erano Aiel, e per quanto lei cercasse di guardare verso l’alto attraverso le proprie ciglia per scorgere l’espressione di Someryn, l’altra donna era più alta di molti uomini, perfino Aiel, una gigantessa dai capelli biondi che torreggiava sopra di lei. La maggior parte di ciò che poteva vedere era il suo seno spropositato, una carnosa fenditura scurita dal sole esposta da una blusa slacciata fino a metà del petto e coperta per la maggior parte da un’enorme collezione di lunghe collane, gocce di fuoco e smeraldi, rubini e opali, tripli fili di grosse perle e catene d’oro dal disegno intricato. Parecchie delle Sapienti parevano disprezzare Sevanna, che faceva da portavoce finché non ci sarebbe stata la possibilità di scegliere un nuovo capoclan Shaido – un evento che con tutta probabilità non si sarebbe presentato a breve – e cercavano di minare la sua autorità quando non erano impegnate a litigare fra loro o a formare gruppetti, ma molte condividevano la sua passione per i gioielli degli abitanti delle terre bagnate, e alcune avevano perfino cominciato a indossare anelli sulle dita come Sevanna. Sulla sua mano destra Someryn portava una grande opale bianca che guizzava riflessi rossi ogni volta che si aggiustava lo scialle, e sulla sinistra un lungo zaffiro blu circondato da rubini. Non si era abituata a indossare abiti di seta, però. La sua blusa era di semplice algode bianco, proveniente dal Deserto, e la gonna e lo scialle erano di spessa lana scura quanto la sciarpa ripiegata che tratteneva lontano dal viso i suoi capelli biondi lunghi fino in vita. Il freddo non pareva causarle il minimo disagio.

Le due donne erano in piedi appena oltre quello che Faile riteneva essere il confine fra l’accampamento degli Shaido e il campo dei gai’shain – il campo dei prigionieri – anche se non c’erano in effetti due accampamenti. Alcuni gai’shain dormivano fra gli Shaido, ma gli altri venivano tenuti al centro del campo a meno che non fossero impegnati nei compiti loro assegnati, bestiame tenuto lontano dalla lusinga della libertà da un recinto costituito da una muraglia umana di Shaido. La maggior parte degli uomini e delle donne che incrociavano indossava vesti da gai’shain, anche se poche erano finemente intrecciate come le sue. Con così tante persone da vestire, gli Shaido raccoglievano qualunque genere di stoffa bianca che riuscivano a trovare. Alcuni erano abbigliati in strati di lino grezzo o tela o vesti fatte di ruvido tessuto di tenda, e molti degli abiti erano macchiati di fango o fuliggine. Solo di rado uno dei gai’shain mostrava l’altezza e gli occhi pallidi propri degli Aiel. La vasta maggioranza era costituita da Amadiciani dai volti rubicondi, Altarani dalla carnagione olivastra e pallidi Cairhienesi assieme a viaggiatori o mercanti occasionali da Illian, Tarabon o altre zone che si erano trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. I Cairhienesi erano quelli che venivano trattenuti più a lungo e i più rassegnati alla situazione a parte la manciata di Aiel in bianco, ma tutti tenevano gli occhi bassi e andavano in giro a svolgere i loro compiti quanto più rapidamente la calpestata poltiglia di neve e fango consentiva loro. Ci si aspettava che i gai’shain mostrassero umiltà, obbedienza, e desiderio di accettare entrambe. Qualunque altro atteggiamento procurava dolorosi promemoria.

Anche a Faile sarebbe proprio piaciuto affrettarsi. I piedi gelati erano solo un minimo motivo, e l’entusiasmo di fare il bucato di Sevanna lo era ancora meno. Troppi occhi potevano vederla lì all’aperto con Someryn e, perfino col suo profondo cappuccio a celarle il viso, l’ampia cintura a maglie di luccicanti anelli dorati attorno alla sua vita e uno stretto collare dello stesso tipo la contrassegnavano come uno dei servitori di Sevanna. Nessuno li chiamava a quel modo – agli occhi degli Aiel, essere un servitore era umiliante – ma in sostanza era quello il loro ruolo, perlomeno degli abitanti delle terre bagnate, per di più non pagati e con meno diritti e libertà di qualunque servitore Faile avesse mai conosciuto. Presto o tardi Sevanna sarebbe venuta a sapere che le Sapienti trattenevano i suoi gai’shain per interrogarli. Sevanna aveva ben oltre un centinaio di servitori e continuava ad aggiungerne altri, e Faile era certa che tutti loro, fino all’ultimo, stessero ripetendo ogni parola pronunciata da Sevanna alle Sapienti.

Era una trappola crudelmente efficace. Sevanna era una padrona severa in un modo piuttosto disinvolto: non si lasciava mai trascinare dall’ira, di rado pareva apertamente arrabbiata, ma la più lieve infrazione, il minimo sbaglio nell’atteggiamento o nel comportamento era punito immediatamente con la frusta o la cinghia, e ogni notte i cinque gai’shain che quel giorno l’avevano compiaciuta di meno venivano selezionati per ulteriori castighi, talvolta legati e imbavagliati per una notte dopo essere stati percossi, col solo scopo di stimolare gli altri. Faile non voleva pensare a cosa quella donna avrebbe ordinato di fare a una spia. Dall’altra parte, le Sapienti avevano messo in chiaro che chiunque non avesse riferito senza riserve quello che aveva udito, chiunque tentasse di tirarsi indietro o contrattare, sarebbe andato incontro a un futuro incerto e sarebbe probabilmente finito in una fossa poco profonda. Fare del male a un gai’shain oltre i limiti permessi dalla disciplina era una violazione del ji’e’toh – la rete di onore e obbligo che governava le vite degli Aiel – ma i gai’shain delle terre bagnate sembravano trovarsi al di fuori di parecchie di quelle regole. Presto o tardi, una delle due parti della trappola sarebbe scattata. Tutto quello che aveva tenuto separate le ganasce così a lungo era che gli Shaido sembravano ritenere i loro gai’shain delle terre bagnate nient’affatto diversi da cavalli da tiro o bestie da soma, anche se in realtà gli animali ricevevano un trattamento di gran lunga migliore. Ogni tanto un gai’shain cercava di fuggire, ma, a parte quello, a loro veniva semplicemente dato cibo e riparo, ed erano obbligati a lavorare e puniti se indugiavano. Le Sapienti non si aspettavano che disobbedissero e Sevanna non si aspettava che la spiassero più di quanto non si aspettasse che un cavallo da tiro si mettesse a cantare. Presto o tardi, però... E quella non era l’unica trappola in cui Faile era invischiata.

«Sapiente, non ho nient’altro da riferirti» mormorò quando Someryn non disse nulla. A meno di non essere fuori di testa, non potevi allontanarti da una Sapiente prima che fosse stata lei a congedarti. «La Sapiente Sevanna parla liberamente di fronte a noi, ma dice poco.»

L’alta donna rimase in silenzio, e dopo un lungo momento Faile si arrischiò a sollevare gli occhi un po’ di più. Someryn teneva lo sguardo fisso sopra la testa di Faile, la bocca aperta in un imbambolato stupore. Accigliandosi, Faile spostò il canestro sulla sua spalla e guardò dietro di sé, ma non c’era nulla che potesse aver causato l’espressione di Someryn, solo la distesa dell’accampamento, scure e basse tende aiel assieme ad altre a cono, squadrate e di ogni altro genere, per la maggior parte in tonalità di bianco sporco o marrone pallido, altre verdi, blu, rosse o perfino a strisce. Gli Shaido prendevano ogni cosa di valore quando colpivano, tutto ciò che poteva rivelarsi utile, e non lasciavano indietro nulla che assomigliasse a una tenda.

Nella situazione attuale, c’erano a malapena abbastanza ripari disponibili. Qui erano radunate dieci sette, più di settantamila Shaido e quasi altrettanti gai’shain, secondo la sua stima, e ovunque vedeva solo il consueto andirivieni: Aiel vestiti di scuro che andavano in giro per gli affari propri tra frettolosi prigionieri ammantati di bianco. Un fabbro stava facendo funzionare i mantici sulla sua forgia di fronte a una tenda aperta con i suoi attrezzi disposti su una pelle di toro conciata, dei bambini stavano radunando greggi di capre belanti con delle verghe, una commerciante stava mettendo in mostra le sue mercanzie in un tendone aperto di tela gialla, qualunque cosa da candelieri d’oro e scodelle d’argento fino a bricchi e pentole, tutto saccheggiato. Un uomo scarno che teneva la cavezza di un cavallo stava parlando con una Sapiente dai capelli grigi di nome Masalin, senza dubbio per cercare una cura per qualche malanno che affliggeva l’animale, dal modo in cui continuava a indicare la pancia della bestia. Nulla che potesse far rimanere Someryn a bocca aperta.

Proprio mentre Faile stava per voltarsi di nuovo, notò una donna aiel dai capelli scuri rivolta nell’altra direzione. I suoi capelli non erano solo scuri, ma neri come l’ala di un corvo, caratteristica assai rara fra gli Aiel. Perfino da dietro, Faile pensò di riconoscere Alarys, un’altra delle Sapienti. Cerano oltre quattrocento Sapienti nell’accampamento, ma lei aveva imparato in fretta a conoscerle tutte di vista. Confondere una Sapiente per una tessitrice o una vasaia era un modo veloce per guadagnarsi una fustigazione.

Forse poteva non voler dire nulla il fatto che Alarys se ne stesse in piedi immobile con gli occhi fissi nella stessa direzione di Someryn, o che avesse lasciato scivolare a terra il suo scialle, tranne che un po’ più in là Faile riconobbe un’altra Sapiente ancora, che pure stava guardando verso nord e ovest, scacciando a ceffoni la gente che camminava di fronte a lei. Quella doveva essere Jesain, una donna che sarebbe stata definita bassa anche se non fosse stata Aiel, con una gran massa di capelli rossi sufficienti a far sembrare pallido un fuoco e un caratteraccio a essi intonato. Masalin stava parlando all’uomo col cavallo e faceva gesti verso l’animale. Lei non era in grado di incanalare, ma tre Sapienti che sapevano farlo avevano tutte lo sguardo fisso nella stessa direzione. C’era solo una ragione che poteva spiegarlo: vedevano qualcuno che stava incanalando sul crinale boscoso oltre il campo. Una Sapiente che stava incanalando di certo non avrebbe suscitato quella reazione in alcuna di loro. Poteva trattarsi di una Aes Sedai? O più di una? Meglio non nutrire false speranze. Era troppo presto.

Uno scappellotto in testa la fece barcollare, e quasi lasciò cadere il canestro.

«Perché te ne stai lì impalata come un salame?» ringhiò Someryn.

«Continua col tuo lavoro. Va’, prima che io...»

Faile se ne andò, tenendo in equilibrio il canestro con una mano, sollevando le gonne della sua veste dalla neve fangosa con l’altra e muovendosi più veloce che poteva senza scivolare e cadere nella mota. Someryn non colpiva mai nessuno e non alzava mai la voce. Se stava facendo entrambe le cose, era meglio levarsi di torno senza indugio. In maniera docile e ubbidiente.

L’orgoglio imponeva di mantenere un freddo atteggiamento di sfida, un silenzioso rifiuto a lasciarsi sottomettere, tuttavia il buonsenso diceva che quello era il modo per trovarsi sorvegliata due volte più attentamente di quanto lo era già. Gli Shaido potevano considerare i gai’shain delle terre bagnate come animali addomesticati, ma non erano del tutto ciechi. Dovevano pensare che avesse accettato la sua prigionia come ineluttabile se voleva essere in grado di fuggire, e questo era ciò che si trovava in cima ai suoi pensieri. Tanto prima, tanto meglio. Certo prima che Perrin la raggiungesse. Non aveva mai dubitato che Perrin la stesse seguendo, che in qualche modo l’avrebbe trovata – quell’uomo sarebbe passato attraverso un muro, se si fosse ficcato in testa di farlo! – ma lei doveva scappare prima che accadesse. Faile era la figlia di un soldato. Sapeva quanti erano gli Shaido, sapeva di quanti uomini poteva disporre Perrin, e sapeva che doveva raggiungerlo prima che quello scontro potesse avere luogo.

C’era solo il piccolo problema di liberarsi dagli Shaido, prima. Cos’erano rimaste a fissare le Sapienti? Le Aes Sedai o le Sapienti con Perrin? Per la Luce, sperava di no, non ancora! Ma altre faccende avevano la precedenza, non ultimo il bucato. Trasportò il canestro verso ciò che rimaneva della città di Malden, zigzagando attraverso un flusso costante di gai’shain. Quelli che lasciavano la città portavano ciascuno un paio di secchi pesanti tenuti in equilibrio sulle estremità di un’asta che tenevano sulle spalle, mentre i secchi di quelli che vi entravano oscillavano vuoti sulle loro pertiche. La moltitudine di gente che c’era nell’accampamento necessitava di un’enorme quantità d’acqua, ed era così che arrivava, secchio dopo secchio. Era facile distinguere i gai’shain che erano stati abitanti di Malden. Come a nord nell’Altara, la loro carnagione era chiara invece che olivastra, e alcuni avevano perfino occhi azzurri, ma tutti barcollavano come storditi. Gli Shaido che si erano arrampicati su per le mura della città durante la notte avevano sopraffatto le difese prima che molti degli abitanti si rendessero conto di essere in pericolo, e sembravano ancora incapaci di credere a quello che le loro vite erano diventate.

Faile cercava un volto in particolare, però, una persona che sperava non avrebbe portato l’acqua oggi. La stava cercando fin da quando gli Shaido si erano accampati qui, quattro giorni prima. Appena fuori dai cancelli cittadini, che erano spalancati e spinti contro le mura di granito, la trovò, una donna vestita di bianco più alta di lei con un piatto canestro di pane contro l’anca e il cappuccio tirato indietro quanto bastava per mostrare alcune ciocche di capelli color rosso scuro. Chiad pareva intenta a esaminare i cancelli borchiati di ferro che non erano riusciti a proteggere Malden, ma distolse lo sguardo da essi non appena Faile si avvicinò. Sostarono fianco a fianco, senza scambiarsi alcuno sguardo mentre fingevano di cambiar posto ai loro canestri. Non c’era motivo per cui due gai’shain non dovessero parlarsi, ma era bene che nessuno si ricordasse che erano state catturate insieme. Bain e Chiad non venivano sorvegliate così attentamente come i gai’shain al servizio di Sevanna, ma ciò sarebbe potuto cambiare se qualcuno se ne fosse ricordato. Quasi tutte le persone in vista erano gai’shain, per di più provenienti da ovest del Muro del Drago, tuttavia in troppi avevano imparato a ingraziarsi gli Shaido riportando racconti e dicerie. Molte persone facevano ciò che dovevano per sopravvivere, e alcuni cercavano sempre di portare acqua al proprio mulino, quali che fossero le circostanze.

«Sono scappate la prima notte qui» sussurrò Chiad. «Bain e io le abbiamo guidate fuori dagli alberi e abbiamo nascosto le tracce ritornando. Nessuno sembra essersi reso conto che se ne sono andate, a quanto ho visto. Con così tanti gai’shain, c’è da meravigliarsi che questi Shaido si accorgano quando qualcuno fugge.»

Faile emise un piccolo sospiro di sollievo. Erano passati tre giorni. Gli Shaido non si accorgevano dei fuggitivi. Pochi riuscivano a restare liberi per una giornata intera, ma le probabilità di successo aumentavano ogni giorno che non venivano ripresi, e pareva certo che gli Shaido avrebbero proseguito l’indomani o il giorno successivo. Non si erano fermati per un tempo così lungo da quando Faile era stata catturata. Lei sospettava che potessero cercare di marciare di nuovo verso il Muro del Drago e riattraversarlo per tornare nel Deserto.

Non era stato facile persuadere Lacile e Arrela ad andarsene senza di lei. Quello che infine le aveva convinte era stata l’argomentazione che avrebbero potuto riferire a Perrin dove si trovava Faile, oltre ad avvertirlo di quanti Shaido si trovavano lì e a sostenere che Faile aveva già la propria fuga sotto controllo e ogni interferenza da parte sua avrebbe compromesso tutto. Era sicura di aver fatto credere loro tutto ciò. Aveva la propria fuga sotto controllo, in un certo senso: in effetti aveva diversi piani, e uno di essi doveva funzionare, ma fino a questo momento era stata quasi convinta che le due donne avrebbero deciso che i loro giuramenti nei suoi confronti richiedevano loro di rimanere. I giuramenti d’acqua erano più stringenti di quelli di fedeltà, per alcuni versi, tuttavia lasciavano un considerevole spazio per la stupidità in nome dell’onore. In verità, lei non sapeva se quelle due sarebbero state in grado di trovare Perrin, ma in ogni caso erano libere e lei doveva preoccuparsi soltanto di altre due donne. Certo l’assenza di tre servitrici di Sevanna sarebbe stata notata molto in fretta, nel giro di poche ore, e sarebbero stati inviati i migliori cacciatori per riportarle indietro. Faile conosceva bene i boschi, ma sapeva che non era il caso di avere cacciatori aiel sulle proprie tracce. Era molto spiacevole per i gai’shain fuggitivi ‘normali’ essere ricatturati. Per i gai’shain di Sevanna, poteva essere preferibile morire nel tentativo. Nella migliore delle ipotesi, non avrebbero più avuto l’opportunità di provarci di nuovo.

«Il resto di noi avrebbe migliori possibilità se tu e Bain veniste con noi» disse a bassa voce. Il flusso di uomini e donne in bianco che trasportava acqua intorno a loro continuava, nessuno che sembrava lanciare più di un’occhiata nella loro direzione, ma la cautela si era radicata in lei in queste due settimane. Per la Luce, sembravano più di due anni! «Che differenza può esserci fra aiutare Lacile e Arrela a raggiungere la foresta e aiutare il resto di noi ad andare più lontano?»

Questa era un’argomentazione disperata. Lei conosceva la differenza –

Bain e Chiad erano sue amiche e le avevano insegnato le usanze degli Aiel, il ji’e’toh e perfino un po’ del linguaggio delle mani delle Fanciulle – e non rimase sorpresa quando Chiad voltò lievemente il capo per osservarla con occhi grigi che non avevano nulla dell’umiltà da gai’shain. Nemmeno la sua voce, anche se parlava ancora piano.

«Vi aiuterò come posso perché non è giusto che gli Shaido vi trattengano. Voi non seguite ji’e’toh. Io sì. Se getto via il mio onore e i miei obblighi solo perché così hanno fatto gli Shaido, allora permetto loro di decidere le mie azioni. Io vestirò il bianco per un anno e un giorno e poi mi libereranno, oppure me ne andrò, ma non getterò via chi sono.» Senza aggiungere altro, Chiad si allontanò a grandi passi fra le torme di gai’shain.

Faile fece per alzare una mano per fermarla, poi la lasciò ricadere. Aveva posto quella domanda prima ricevendo una risposta più gentile e, nel chiederlo di nuovo, aveva insultato la sua amica. Si sarebbe dovuta scusare. Non per conservare l’assistenza di Chiad – la donna non l’avrebbe ritirata – ma perché lei stessa aveva il proprio onore, anche se non seguiva il ji’e’toh. Non si potevano insultare gli amici e semplicemente dimenticarsene o aspettarsi che fossero loro a farlo. Le scuse avrebbero dovuto attendere, però. Non era il caso di arrischiarsi a essere viste parlare troppo a lungo.

Malden era stata una città fiorente e produceva buona lana e ingenti quantitativi di vino di discreta qualità, ma ora non era che rovine vuote all’interno delle mura. Le case dal tetto d’ardesia erano per metà di pietra, ma per l’altra metà di legno, e il fuoco si era propagato incontrollato durante l’assedio. L’estremità meridionale della città era in parte cataste di tizzoni anneriti adornati di ghiaccioli, in parte muri bruciacchiati e privi di tetto. Dappertutto le strade, che fossero in terra battuta o pavimentate in pietra, erano grigie di cenere portata dal vento e calpestata nella neve, e l’intera città puzzava di legno bruciato. Apparentemente l’acqua era una delle cose di cui non c’era mai penuria a Malden, ma, come tutti gli Aiel, gli Shaido le attribuivano grande valore e non sapevano nulla su come estinguere gli incendi. C’era ben poco che potesse bruciare, nel Deserto Aiel. Avrebbero potuto lasciare che l’intera città venisse consumata dalle fiamme se avessero smesso di saccheggiare, e in effetti avevano esitato di fronte allo spreco d’acqua prima di costringere i gai’shain a formare file di secchi minacciandoli con le lance e di lasciare che gli uomini di Malden prendessero i loro carri con le pompe. Faile aveva pensato che gli Shaido avrebbero perlomeno ricompensato quegli uomini permettendo loro di andarsene con le persone che non erano state scelte come gai’shain, ma gli uomini che azionavano le pompe erano giovani e forti, proprio il genere che gli Shaido volevano come loro gai’shain. Gli Shaido mantenevano delle regole al riguardo – donne incinte o con bambini piccoli spesso venivano lasciate andare, così come giovani sotto i sedici anni e i fabbri della città, che erano rimasti perplessi e riconoscenti –, ma la gratitudine non rientrava fra quelle.

Del mobilio era disseminato per le strade, grossi tavoli rovesciati, forzieri decorati e sedie, e a volte uno spiegazzato tendaggio da parete o piatti rotti. Frammenti di vestiti giacevano ovunque, giubbe, brache e abiti lunghi, per la maggior parte fatti a brandelli. Gli Shaido avevano preso qualunque cosa fatta d’oro e d’argento, ogni oggetto che avesse delle gemme, tutto ciò che era utile o commestibile, ma i mobili dovevano essere stati gettati fuori nella frenesia del saccheggio, poi abbandonati quando chi li stava trasportando aveva deciso che un bordino dorato o un intaglio eccellente non valevano lo sforzo. In ogni caso gli Aiel non usavano sedie, tranne per i capi, e non c’era spazio sui carretti o nei carri per nessuno di quei tavoli pesanti. Qualche Shaido si aggirava ancora lì attorno, ispezionando case, locande e negozi in cerca di qualunque cosa potesse essere sfuggita, tuttavia la maggior parte delle persone che lei vedeva erano gai’shain che trasportavano secchi. Gli Aiel non avevano alcun interesse per le città se non come magazzini da saccheggiare. Incrociò un paio di Fanciulle che stavano usando l’impugnatura delle loro lance per condurre un uomo nudo dagli occhi spiritati e con le braccia legate dietro la schiena verso i cancelli. Senza dubbio aveva pensato di potersi nascondere in una cantina o in un solaio finché gli Shaido non se ne fossero andati. E senza dubbio le Fanciulle vi erano andate per cercare un nascondiglio di monete o argenteria. Quando un uomo enorme nel cadin’sor di un algai’d’siswai le si parò davanti, lei deviò per girargli attorno nel modo più gentile possibile. Un gai’shain lasciava sempre passare qualunque Shaido.

«Sei davvero graziosa» disse lui, mettendosi sulla sua strada. Era l’uomo più grande che avesse mai visto, alto forse sette piedi e grosso in proporzione. Non grasso – non aveva mai visto un Aiel grasso – ma molto corpulento. Lui ruttò, e Faile percepì effluvi di vino. Di Aiel ubriachi ne aveva visti, da quando avevano trovato tutte quelle botti di vino qui a Malden. Non era spaventata, però. I gai’shain potevano essere puniti per un gran numero di infrazioni, spesso trasgressioni che pochi fra gli abitanti delle terre bagnate comprendevano, ma le vesti bianche offrivano anche una certa protezione, e lei disponeva di uno strato supplementare.

«Sono gai’shain per la Sapiente Sevanna» disse nel suo tono più ossequioso possibile. Con suo disgusto, era arrivata al punto in cui ci riusciva molto bene. «Sevanna sarebbe scontenta se io mi sottraessi ai miei doveri per parlare.» Tentò di nuovo di aggirarlo ed emise un rantolo quando lui le afferrò il braccio in una mano che avrebbe potuto avvolgerlo due volte avanzando perfino alcuni pollici.

«Sevanna ha centinaia di gai’shain. Non sentirà la mancanza di una di loro per un’ora o due.»

Il canestro cadde a terra mentre lui la sollevava in aria con tanta facilità come se stesse raccogliendo un cuscino. Prima che lei potesse rendersi conto di cosa stava accadendo, si ritrovò infilata sotto la sua spalla, con le braccia intrappolate contro i fianchi. Spalancò la bocca per urlare e lui utilizzò la sua mano libera per premerle il viso contro il suo torace. La puzza di lana intrisa di sudore le riempì il naso. Tutto ciò che riusciva a vedere era lana grigio-bruna. Dov’erano quelle due Fanciulle?

Le Fanciulle della Lancia non gli avrebbero permesso di fare questo!

Qualunque Aiel l’avesse visto sarebbe intervenuto! Lei non si aspettava certo aiuto da nessuno dei gai’shain. Uno o due sarebbero potuti correre a chiedere aiuto, se era fortunata, ma la primissima lezione che ogni gai’shain apprendeva era che perfino una parvenza di comportamento violento poteva farti finire appeso per le caviglie e percosso fino a urlare. La prima lezione che gli abitanti delle terre bagnate apprendevano, perlomeno: ai gai’shain era proibito usare violenza per qualunque motivo. Qualunque. Il che non le impedì di scalciare furiosamente verso l’uomo. Era come prendere a calci un muro, per quello che serviva. Lui si stava muovendo, portandola da qualche parte. Lei morse più forte che poteva e per i suoi sforzi ottenne un pezzetta di ruvida lana sporca, i suoi denti che scivolavano sopra il muscolo senza riuscire a trovare alcun appiglio. Sembrava fatto di pietra. Faile urlò, ma il suo strillo suonò attutìto perfino alle sue stesse orecchie. All’improvviso il mostro che la trasportava si fermò.

«Io ho reso questa donna gai’shain, Nadric» disse la voce profonda di un altro uomo.

Faile percepì un rimbombo di risa nel petto contro il suo volto prima ancora di udirne il suono. Non smise di scalciare, non cessò di dimenarsi o tentare di urlare, tuttavia il suo aguzzino sembrava non prestare attenzione ai suoi sforzi. «Lei appartiene a Sevanna ora, Senza Fratelli» disse l’uomo enorme – Nadric? – in tono sprezzante. «Sevanna prende quello che vuole, e io prendo quello che voglio. È la nuova usanza.»

«Sevanna se l’è presa,» replicò l’altro uomo con calma «ma io non l’ho mai data a Sevanna. Non mi sono mai offerto di cederla a Sevanna. Tu abbandoni il tuo onore perché Sevanna abbandona il suo?»

Ci fu un lungo silenzio rotto solo dai suoni soffocati emessi da Faile. Lei non smise di dibattersi, non poteva, ma era come se fosse un neonato in fasce.

«Non è una preda abbastanza graziosa per cui combattere» disse infine Nadric. Non suonava spaventato né tanto meno preoccupato. Le mani di lui la lasciarono andare e i denti di Faile si liberarono con uno strappo così improvviso dalla sua giubba che pensò che uno o due sarebbero schizzati fuori, ma sbatté con forza la schiena contro il terreno, tutto il fiato le uscì dai polmoni e perse anche buona parte delle sue facoltà mentali. Quando riuscì a riprendere abbastanza aria da tirarsi su con le mani, l’uomo mastodontico se ne stava andando a grandi falcate lungo il vicolo, ed era quasi arrivato di nuovo in strada. Era proprio un vicolo, una stretta striscia di terra battuta fra due edifici in pietra. Nessuno avrebbe visto quello che lui avrebbe potuto farle lì. Rabbrividendo – non stava tremando, solo rabbrividendo! – e sputando via il saporaccio di lana sudicia e del sudore di Nadric, sbirciò alle proprie spalle. Se avesse avuto a portata di mano il coltello che aveva nascosto, lo avrebbe pugnalato. Non era una preda abbastanza graziosa per cui combattere, vero? Parte di lei sapeva che ciò era ridicolo, ma si stava aggrappando a qualunque cosa potesse alimentare la sua rabbia, solo per il calore che le dava. Per aiutarla a smettere di rabbrividire. L’avrebbe pugnalato ancora e ancora, fino a non riuscire più a sollevare le braccia.

Alzandosi in piedi su gambe traballanti, saggiò i propri denti con la lingua. Erano tutti a posto, nessuno rotto o mancante. Aveva il viso grattato dalla ruvida lana della giubba di Nadric e le labbra livide, ma era illesa. Cercò di tenere a mente quello. Era illesa e libera di camminare per conto proprio fuori dal vicolo. Libera per quanto poteva esserlo qualcuno in vesti da gai’shain, perlomeno. Se c’erano molti come Nadric che non riconoscevano più la protezione di quelle vesti, allora fra gli Shaido stava venendo meno l’ordine. L’accampamento sarebbe diventato un posto più pericoloso, ma la confusione avrebbe portato maggiori opportunità di fuggire. Era questo il modo in cui doveva vedere ciò che era accaduto. Aveva appreso qualcosa che poteva esserle d’aiuto. Se solo fosse riuscita a smettere di rabbrividire. Alla fine, con riluttanza, guardò il suo salvatore. Aveva riconosciuto la sua voce. Lui si teneva a distanza da lei, osservandola con calma, non facendo alcun gesto per offrirle solidarietà. Faile pensava che avrebbe urlato, se lui l’avesse toccata. Un’altra assurdità, dato che l’aveva salvata, tuttavia era così. Rolan era più basso di Nadric solo di una spanna e quasi altrettanto corpulento, e lei non aveva certo ragione di volerlo accoltellare. Non era uno Shaido, ma uno dei Senza Fratelli, i Mera’din, uomini che avevano abbandonato i loro clan perché non avevano intenzione di seguire Rand al’Thor, ed era stato davvero lui a renderla gai’shain. Vero, le aveva impedito di congelare a morte la notte dopo che era stata catturata avvolgendola nella propria giubba, tuttavia Faile non ne avrebbe avuto bisogno se lui innanzitutto non le avesse tagliato via i vestiti fino all’ultima cucitura. La prima parte nell’essere resi gai’shain consisteva sempre nell’essere spogliati, ma non era una ragione sufficiente per perdonarlo.

«Grazie» disse lei, le parole amare sulla sua lingua.

«Non pretendo gratitudine» replicò lui in tono gentile. «Non guardarmi come se volessi mordermi solo perché non sei riuscita a mordere Nadric.»

Riuscì a non ringhiargli contro – a malapena, in quel momento non sarebbe riuscita a far appello all’umiltà nemmeno se avesse voluto – prima di voltarsi e procedere impettita verso la strada. Cercò di camminare impettita. Le sue gambe stavano ancora tremando tanto da farla sembrare più che altro ingobbita. I gai’shain di passaggio guardarono appena nella sua direzione mentre arrancavano per le strade coi loro secchi d’acqua. Pochi dei prigionieri volevano condividere i guai di qualcun altro. Ne avevano a sufficienza di propri. Allungando una mano verso il canestro del bucato, Faile emise un sospiro. Giaceva su un lato, bluse di seta bianca e gonne divise di seta scura per cavalcare si erano riversate sullo sporco selciato macchiato di cenere. Almeno sembrava che nessuno le avesse calpestate. Tutti quelli che avevano trascorso la mattinata a trasportare acqua e avevano ancora davanti a sé il resto della giornata per farlo potevano essere perdonati, se vi fossero passati sopra, con tutti quei frammenti di vestiti tagliati via dalla gente di Malden resa gai’shain che giacevano tutt'intorno. Lei avrebbe tentato di perdonarli. Rimettendo dritto il canestro, cominciò a raccogliere gli abiti, scrollando via la terra e le ceneri che potevano staccarsi e attenta a non schiacciarvi contro il resto. A differenza di Someryn, Sevanna si era abituata alla seta. Non indossava nient’altro. Era orgogliosa dei suoi indumenti di seta quanto lo era dei suoi gioielli, e ugualmente possessiva verso entrambi. Non sarebbe stata compiaciuta se qualcuno di quei vestiti non le fosse stato restituito pulito. Mentre Faile appoggiava l’ultima blusa in cima al resto, Rolan allungò una mano oltre lei e sollevò il canestro. Sul punto di redarguirlo – poteva portare da sé i suoi pesi, molte grazie! – si rimangiò le parole. Il suo cervello era l’unica arma a sua disposizione e doveva utilizzarlo invece di lasciare che la collera prendesse il sopravvento. Rolan non si era trovato lì per caso. Non era poi così ingenua. Lo aveva visto di frequente, da quando era stata catturata, molto più spesso di quanto il caso potesse spiegare. La stava seguendo. Cos’era che aveva detto a Nadric? Non l’aveva data a Sevanna né si era offerto di cedergliela. Per quanto fosse stato lui a catturarla, Faile pensava che disapprovasse il fatto che degli abitanti delle terre bagnate venissero resi gai’shain – proprio come la maggior parte dei Senza Fratelli – ma, a quanto pareva, accampava ancora i suoi diritti su di lei.

Era certa di non dover temere che lui tentasse di prenderla con la forza. Rolan aveva avuto la sua occasione per farlo, quando l’aveva avuta con sé nuda e legata, e allora era stato come se guardasse il palo di una staccionata. Forse non gli piacevano le donne in quel senso. A ogni modo, i Senza Fratelli erano estranei fra gli Shaido quanto gli abitanti delle terre bagnate. Nessuno degli Shaido si fidava davvero di loro, e i Senza Fratelli stessi parevano uomini altezzosi, che acconsentivano a quello che consideravano un male minore piuttosto che accettarne uno maggiore, ma non sembravano più davvero sicuri che quello fosse il minore. Se fosse riuscita a farselo amico, forse lui sarebbe stato disposto ad aiutarla. Non a fuggire, certo – quello sarebbe stato chiedere troppo – ma... Oppure sì? L’unico modo per scoprirlo era tentare.

«Grazie» disse di nuovo, e stavolta accompagnò le parole con un sorriso. Con sua sorpresa, lui le sorrise di rimando. Era accennato, a malapena visibile, ma gli Aiel non erano persone espansive. Finché non ci si abituava a loro, potevano sembrare inespressivi. Per alcuni passi camminarono fianco a fianco in silenzio, lui che portava il canestro in una mano e lei che teneva sollevate le gonne delle sue vesti. Era come se fossero fuori per una passeggiata. Da non credere ai propri occhi. Alcuni dei gai’shain li osservarono sorpresi, ma riabbassarono sempre lo sguardo in tutta fretta. Faile non riusciva a pensare a come iniziare – non voleva che lui pensasse che stava amoreggiando, poteva darsi che gli piacessero le donne, dopotutto – ma lui la esentò da quel compito.

«Ti ho osservata» disse. «Sei forte e fiera, e non hai paura, ritengo. Molti degli abitanti delle terre bagnate sono spaventati a morte. Presto o tardi danno in escandescenze e vengono puniti, e poi piangono e strisciano. Io penso che tu sia una donna di grande ji.»

«Sono spaventata» replicò lei. «Cerco solo di non lasciarlo trasparire. Piangere non serve mai a nulla.» La maggior parte degli uomini ci credeva. Le lacrime potevano essere d’ostacolo, se si lasciava che prendessero il sopravvento, ma versarne qualcuna di notte poteva aiutare a superare la giornata successiva.

«Ci sono momenti per piangere e momenti per ridere. Mi piacerebbe vederti ridere.»

Lei rise, una risata asciutta. «Non vi sono molti motivi per farlo finché indosso il bianco, Rolan.» Lei lo scrutò con la coda dell’occhio. Stava andando troppo in fretta? Lui però si limitò ad annuire.

«Ciononostante, mi piacerebbe vederlo. Il sorriso si addice al tuo volto. Il riso sarebbe ancora meglio. Io non ho moglie, ma riesco a far ridere una donna, a volte. Ho sentito che hai un marito.»

Sconcertata, Faile inciampò nei suoi stessi piedi e si aggrappò al suo braccio. Rapidamente ritrasse la mano, scrutandolo oltre l’orlo del proprio cappuccio. Lui si fermò per il tempo che le occorse per rimettersi saldamente in piedi, poi ricominciò a camminare quando lo fece lei. L’espressione di Rolan era moderatamente incuriosita. Malgrado Nadric, l’usanza aiel era che fosse una donna a chiedere, dopo che un uomo aveva attirato il suo interesse. Farle dei doni era una cosa. Farla ridere era un’altra faccenda. E dire che aveva pensato che non gli piacessero le donne. «Sì, ho un marito, Rolan, e lo amo molto. Davvero molto. Non vedo l’ora di tornare da lui.»

«Quello che accade mentre siete gai’shain non vi può essere rimproverato quando smettete il bianco,» disse lui con calma «ma forse voi abitanti delle terre bagnate non la vedete a questo modo. Tuttavia ci si può sentire soli quando si è gai’shain. Forse possiamo parlare, qualche volta.»

Quell’uomo voleva vederla ridere, e lei non sapeva se ridere o piangere. Lui stava manifestando che non era intenzionato a smettere di cercare di attirare il suo interesse. Le donne aiel ammiravano la perseveranza in un uomo. Tuttavia, se Chiad e Bain non volevano o non potevano aiutarla se non dandole una mano a raggiungere gli alberi, Rolan era la sua speranza migliore. Pensò che avrebbe potuto convincerlo, col tempo. Certo che avrebbe potuto: chi non era sicuro di sé non poteva farcela! Lui era un reietto disprezzato, accolto solo perché agli Shaido occorreva la sua lancia. Ma lei gli avrebbe dato una ragione per andare avanti.

«Mi piacerebbe» disse Faile con cautela. Un po’ di amoreggiamento poteva essere necessario dopotutto, ma non poteva passare direttamente dal dirgli quanto amava suo marito al guardarlo con occhi languidi e senza fiato. Non che avesse alcuna intenzione di spingersi a tanto – non era mica una Domanese! – tuttavia forse ci sarebbe dovuta andare vicino. Per il momento, un piccolo promemoria sul fatto che Sevanna aveva usurpato il suo ‘diritto’ non sarebbe stato fuori luogo. «Ho del lavoro da fare ora, però, e dubito che Sevanna sarebbe contenta se sapesse che invece ho trascorso il tempo a parlare con te.»

Rolan annuì di nuovo e Faile sospirò. Poteva sapere come far ridere una donna, stando a quello che sosteneva, ma non era certo un gran conversatore. Avrebbe dovuto faticare per indurlo a parlare se intendeva ottenere da lui qualcosa di più di battute che non capiva. Perfino con l’aiuto di Chiad e Bain, gli umori degli Aiel le rimanevano incomprensibili.

Avevano raggiunto la vasta piazza di fronte alla fortezza all’estremità nord della città, una turrita massa di grigie pareti di pietra che non aveva protetto i suoi abitanti meglio delle mura cittadine. Faile pensava di aver visto la signora che aveva governato Malden e ogni cosa nel raggio di venti miglia, una dignitosa vedova di mezz’età di bell’aspetto, fra i gai’shain che trasportavano l’acqua. Uomini e donne vestiti di bianco coi loro secchi affollavano la piazza lastricata di pietra. All’estremità orientale, quella che sembrava una sezione delle mura esterne della città, grigia e alta trenta piedi, era in realtà la parete di un’enorme cisterna alimentata da un acquedotto. Da quattro pompe, ognuna azionata da una coppia di uomini, sgorgava l’acqua che andava a riempire i secchi, e sul selciato ne schizzava molta più di quanta gli uomini avrebbero osato permettere, se solo avessero saputo che Rolan era tanto vicino da vedere. Faile aveva preso in considerazione di strisciare per i trafori simili a cunicoli dell’acquedotto per fuggire, ma non avrebbero avuto modo di tenere niente asciutto e, ovunque fossero sbucate, sarebbero state bagnate fradice e molto probabilmente sarebbero congelate a morte prima di riuscire a percorrere un miglio o due nella neve.

C’erano altri due posti nella città per prendere l’acqua, entrambi alimentati da condotti sotterranei di pietra, ma qui un lungo tavolo in legno nero con le gambe a zampa di leone era stato piazzato ai piedi della parete della cisterna. Una volta era stato un tavolo per banchetti, la superficie intarsiata con avorio, ma i cunei eburnei erano stati staccati a forza e ora sulla sommità erano appoggiati diversi mastelli di legno. Un paio di secchi, anch’essi di legno, si trovavano accanto al tavolo, e a un’estremità un bricco di rame emetteva vapore sopra un fuoco fatto di sedie rotte. Faile dubitava che Sevanna facesse portare il suo bucato in città per risparmiare ai gai’shain la fatica di portare acqua alle tende, ma, qualunque fosse la ragione, Faile era grata. Un canestro di bucato era più leggero dei secchi pieni d’acqua. Lo sapeva bene, dopo averne portati un bel po’. C’erano due canestri sul tavolo, ma solo una donna che indossava la cintura e il collare d’oro era al lavoro, le maniche della sua veste bianca arrotolate il più in alto possibile e i suoi lunghi capelli neri legati con una striscia di stoffa bianca per impedire che finissero nell’acqua del mastello.

Quando Alliandre vide Faile avvicinarsi con Rolan, si raddrizzò asciugandosi le braccia nude sulla veste. Alliandre Maritha Kigarin, regina di Ghealdan, Benedetta dalla Luce, Protettrice della Muraglia di Garen e una dozzina di altri titoli, era stata una donna elegante e riservata, posata e solenne. Alliandre la gai’shain era ancora graziosa, ma aveva in viso un’espressione perennemente tormentata. Con macchie umide sulle sue vestì e le mani grinzose per la lunga immersione in acqua, sarebbe potuta passare per una lavandaia carina. Osservando Rolan appoggiare per terra il canestro e sorridere a Faile prima di allontanarsi a grandi passi e vedendo quest’ultima restituirgli il sorriso, sollevò un sopracciglio con fare interrogativo.

«È stato lui a catturarmi» disse Faile, prendendo i capi di vestiario dal canestro e appoggiandoli sul tavolo. Perfino qui dove c’erano soltanto gai’shain era meglio non parlare mentre si lavorava. «È uno dei Senza Fratelli, e penso che non approvi davvero che gli abitanti delle terre bagnate vengano resi gai’shain. Credo che possa aiutarci.»

«Capisco» disse Alliandre. Con una mano sfiorò con delicatezza la veste di Faile sulla schiena.

Accigliandosi, Faile si torse per guardare oltre la propria spalla. Per un momento fissò la terra e le ceneri che le coprivano la schiena dalle spalle in giù, poi un rossore le avvampò in viso. «Sono caduta» si affrettò a spiegare. Non poteva dire ad Alliandre cos’era accaduto con Nadric. Non pensava di poterlo dire a nessuno. «Rolan si è offerto di portare il mio canestro.»

Alliandre scrollò le spalle. «Se mi aiutasse a scappare, lo sposerei. Oppure no, se lui preferisse così. Non è molto bello, ma non sarebbe doloroso, e non sarebbe necessario che mio marito, se ne avessi uno, lo sapesse. Se avesse un po’ di buonsenso, sarebbe felicissimo di riavermi con sé e non farebbe domande di cui non vorrebbe udire le risposte.»

Stringendo le mani su una blusa di seta, Faile digrignò i denti. Alliandre era la sua vassalla, attraverso Perrin, e rivestiva il suo ruolo piuttosto bene, perlomeno finora, per quanto riguardava l’obbedire agli ordini, ma la natura di quel rapporto si era fatta tesa. Avevano convenuto che era necessario cercare di pensare come serve, cercare di essere serve, se volevano sopravvivere, tuttavia ciò implicava che ognuna aveva visto l’altra fare riverenze e affrettarsi a obbedire. Le punizioni di Sevanna erano amministrate dai gai’shain che si trovavano più vicino a lei quando prendeva la sua decisione, e una volta a Faile era stato ordinato di fustigare Alliandre. Peggio ancora, ad Alliandre era stato comandato di restituire il favore due volte. Rifiutarsi significava solo ottenere l’assaggio della stessa medicina per sé stessi, oltre al fatto che l’altra donna doveva sopportare una dose doppia da qualcuno che non avrebbe avuto remore a utilizzare il proprio braccio. Doveva fare la differenza quando per due volte avevi scalciato e strillato a causa della tua vassalla.

All’improvviso Faile si rese conto che la blusa che stava afferrando era una di quelle che si erano maggiormente sporcate di terra quando il canestro era caduto. Allentando la presa, esaminò l’indumento con fare ansioso. Non pareva che la terra fosse penetrata nelle fibre. Per un momento provò una sensazione di sollievo, poi di irritazione per sentirsi sollevata. Cosa ancora più irritante, il sollievo non se ne andò.

«Arrela e Lacile sono fuggite tre giorni fa» disse a bassa voce.

«Dovrebbero essere piuttosto distanti, a quest’ora. Dov’è Maighdin?»

Un preoccupato cipiglio apparve sul viso dell’altra donna. «Sta tentando di introdursi nella tenda di Therava. L’abbiamo incrociata assieme a un gruppo di Sapienti e, da quello che abbiamo udito di nascosto, sembravano dirette a un incontro con Sevanna. Maighdin mi ha ficcato in mano il suo canestro e ha detto che aveva intenzione di provare. Penso... penso che stia diventando talmente disperata da correre troppi rischi» disse con una nota di disperazione nella sua stessa voce. «Sarebbe dovuta essere qui, a quest’ora.»

Faile trasse un profondo respiro e lo esalò lentamente. Stavano tutte diventando disperate. Avevano raccolto provviste per la loro fuga – coltelli e cibo, stivali e brache e giacche da uomo che calzavano abbastanza bene, il tutto attentamente nascosto nei carri, le vesti bianche sarebbero servite come coperte e mantelli per nasconderle nella neve – ma l’opportunità di utilizzare tutti quei preparativi non sembrava più vicina ora rispetto al giorno in cui erano state catturate. Solo due settimane. Ventidue giorni, per essere precisi. Non poteva certo essere un tempo tanto lungo da modificare qualcosa, ma la loro finzione di essere serve le stava cambiando, malgrado tutto quello che potevano fare per impedirlo. Solo due settimane e già si ritrovavano a sobbalzare senza neanche pensarci per obbedire agli ordini, preoccupandosi delle punizioni e del fatto che stessero o meno compiacendo Sevanna. Il peggio era che potevano vedere sé stesse fare queste cose e sapevano che qualche parte del loro essere veniva modellata contro la loro volontà. Per ora potevano ripetersi che stavano solo facendo il necessario per evitare sospetti finché non fossero riuscite a fuggire, tuttavia ogni giorno le reazioni diventavano più automatiche. Quanto tempo sarebbe passato prima che la fuga diventasse una pallida immagine sognata di notte dopo una giornata passata come perfetti gai’shain, nella mente come nelle azioni? Nessuno aveva osato porre quella domanda ad alta voce, finora, e Faile sapeva che lei stessa tentava di non pensarci, ma quell’interrogativo era sempre ai margini della sua consapevolezza. In un certo senso, aveva paura che quella domanda svanisse. Quando fosse accaduto, sarebbe stato perché aveva trovato una risposta?

Con uno sforzo, si costrinse a riscuotersi dallo sconforto. Quella era la seconda trappola, e solo la forza di volontà la manteneva aperta.

«Maighdin sa di dover fare attenzione» disse con voce ferma. «Sarà qui presto, Alliandre.»

«E se viene presa?»

«Non accadrà!» rispose Faile in tono deciso. Se lo fosse stata... No. Doveva pensare alla vittoria, non alla sconfitta. Chi non era sicuro di sé non poteva vincere.

Lavare la seta portava via tempo. L’acqua che andavano a prendere coi secchi dalle pompe della cisterna era gelata, ma attingendo quella calda dal bricco di rame la facevano diventare tiepida nei mastelli. Non si poteva lavare la seta con l’acqua calda. Affondare le mani nei mastelli era una sensazione meravigliosa col freddo che faceva, ma bisognava sempre tirarle fuori e allora il gelo era due volte più pungente. Non c’era sapone, perlomeno nessuno che fosse abbastanza delicato, cosicché tutte le gonne e bluse dovevano essere immerse una a una e strofinate con gentilezza l’una contro l’altra. Poi venivano appoggiate su un panno per asciugare e arrotolate con cura per strizzare quanta più acqua possibile. L’indumento umido veniva immerso di nuovo, in un altro mastello pieno di una mistura di aceto e acqua – che riduceva lo scolorimento e aumentava la lucentezza della seta – poi veniva di nuovo arrotolato sul panno. Quella pezza umida veniva strizzata forte e distesa al sole ovunque ci fosse spazio, mentre ogni indumento di seta veniva appeso a un’asta orizzontale, sospesa all’ombra di un rozzo padiglione di tela eretto al bordo della piazza, e poi lisciato a mano per togliere le grinze. Con un po’ di fortuna, non ci sarebbe stato bisogno di stirare nulla. Entrambe sapevano quanta cura bisognava avere per la seta, ma la stiratura richiedeva esperienza di cui nessuna di loro disponeva. Nessuno dei gai’shain di Sevanna ce l’aveva, nemmeno Maighdin, anche se era stata la domestica di una nobildonna prima di entrare al servizio di Faile, ma Sevanna non accettava scuse. Ogni volta che Faile o Alliandre andavano ad appendere un altro indumento, controllavano quelli che erano già lì e ne lisciavano qualcuno, se pareva averne bisogno.

Faile stava aggiungendo acqua calda a un mastello quando Alliandre disse in tono aspro: «Ecco che arriva la Aes Sedai.»

Galina era una Aes Sedai fino in fondo, con il volto di età indefinibile e un anello d’oro col Gran Serpente al dito, ma anche lei indossava vesti bianche da gai’shain – in seta spessa quanto la lana di chiunque altro, nientemeno! – assieme a un’ampia ed elaborata cintura d’oro e gocce di fuoco che le cingeva stretta la vita e un alto collare dello stesso tipo attorno al collo, gioielli adatti a un monarca. Era una Aes Sedai e qualche volta cavalcava fuori dall’accampamento da sola, ma tornava sempre, e balzava quando qualunque Sapiente piegava un dito, specialmente Therava, con cui spesso condivideva la tenda. In un certo senso, quest’ultimo particolare era il più strano di tutti. Galina era al corrente dell’identità di Faile, sapeva chi era suo marito Perrin e conosceva il suo legame con Rand al’Thor, e aveva minacciato di rivelarlo a Sevanna a meno che Faile e le sue amiche non avessero rubato dalla stessa tenda in cui lei dormiva. Quella era la terza trappola pronta a scattare su di loro. Sevanna era ossessionata da al’Thor, follemente convinta di poter riuscire in qualche modo a sposarlo e, se avesse saputo di Perrin, a Faile non sarebbe mai stato consentito di allontanarsi tanto dalla sua vista da tentare di fuggire. Sarebbe stata come una capra legata a un palo per attirare un leone. Faile aveva visto Galina svignarsela e farsi piccola, ma ora la Sorella incedeva attraverso la piazza come una regina che guarda con sdegno la marmaglia attorno a lei, una Aes Sedai fino al midollo. Qui non c’erano Sapienti a cui lei potesse rivolgere i suoi sciocchi sorrisi. Galina era graziosa ma non certo bella, e Faile non capiva cosa Therava vedesse in lei, a meno che non si trattasse semplicemente del piacere di dominare una Aes Sedai. Questo lasciava ancora irrisolta la questione del perché la donna rimanesse quando Therava sembrava avvalersi di ogni opportunità per umiliarla.

Fermandosi a un passo dal tavolo, Galina le esaminò con un sorrisetto che avrebbe potuto essere definito di commiserazione. «Non state facendo molti progressi col vostro lavoro » affermò. Non stava parlando del bucato.

Spettava a Faile parlare, ma fu Alliandre a replicare, con tono ancora più aspro di prima. «Maighdin è andata a prendere la tua verga d’avorio stamane, Galina. Quando vedremo un po’ dell’aiuto che hai promesso?» L’assistenza nella loro fuga era la carota che Galina aveva offerto assieme al bastone della minaccia di smascherare Faile. Finora, comunque, loro avevano visto solo il bastone.

«È andata alla tenda di Therava stamane?» sussurrò Galina, il sangue che le defluiva dal volto.

Faile all’improvviso si rese conto che il sole era a metà della sua discesa verso l’orizzonte a ovest e il suo cuore cominciò a palpitare dolorosamente. Maighdin avrebbe dovuto raggiungerle da un bel pezzo. La Aes Sedai sembrava ancora più scossa di lei. «Stamane?» ripeté Galina, guardando sopra la spalla. Ebbe un sussulto e lanciò un grido quando Maighdin comparve all’improvviso dalla moltitudine di gai’shain che affollavano la piazza.

A differenza di Alliandre, la donna dai capelli dorati si era indurita dal giorno della loro cattura. Non era meno disperata, ma sembrava fecalizzare tutto quanto nella determinazione. Aveva sempre avuto una presenza più appropriata a una regina che non alla domestica di una nobildonna, anche se per donne del genere era una caratteristica comune, ma ora arrancò oltre loro con occhi foschi e affondò le mani in un secchio d’acqua, prendendola in entrambe le mani a coppa e portandosela alla bocca per bere avidamente, strofinandosi poi il dorso di una mano sulle labbra.

«Voglio uccidere Therava quando ce ne andiamo» disse in tono indistinto. «Vorrei ucciderla ora.» I suoi occhi azzurri riacquistarono vita e calore. «Tu sei al sicuro, Galina. Lei ha pensato che io fossi lì per rubare. Non avevo nemmeno cominciato a cercare. Qualcosa... qualcosa è accaduto, e lei se n’è andata. Dopo avermi legata. Per dopo.» Il calore nel suo sguardo si spense per essere sostituito da perplessità. «Di cosa si tratta, Galina? Perfino io posso percepirlo, e la mia abilità è tanto scarsa che queste donne aiel hanno deciso che non ero un pericolo.» Maighdin era in grado di incanalare. Non in modo affidabile, però, e non molto – dal poco che Faile sapeva, la Torre Bianca l’aveva mandata via nel giro di poche settimane, e lei affermava di non esserci mai andata – perciò la sua abilità non sarebbe stata molto utile per aiutare la loro fuga. Faile avrebbe voluto chiedere di cosa stava parlando, ma non ne ebbe la possibilità.

Il volto di Galina era ancora pallido, ma per il resto era tutta calma da Aes Sedai. Tranne che afferrò nel pugno il cappuccio di Maighdin e i capelli al di sotto e le tirò con forza la testa all’indietro. «Non interessarti di cosa si tratta» disse in tono freddo. «Non ha nulla a che fare con te. Tutto quello di cui devi preoccuparti è procurarmi ciò che voglio. Ma devi preoccupartene con tutte le tue forze.»

Prima che Faile potesse muoversi per difendere Maighdin, comparve un’altra donna che indossava l’ampia cintura dorata sopra le sue vesti bianche, tirando via Galina e scagliandola a terra. Grassoccia e schietta, Aravine aveva avuto gli occhi stanchi e rassegnati la prima volta che Faile l’aveva vista, il giorno in cui la donna amadiciana le aveva porto la cintura dorata che indossava e le aveva detto che adesso era al servizio di ‘lady Sevanna’. I giorni trascorsi avevano indurito Aravine ancor più di quanto avessero fatto con Maighdin, però.

«Sei pazza a mettere le mani su una Aes Sedai?» sbottò Galina, rimettendosi in piedi con difficoltà. Sfregando la terra che macchiava le sue vesti di seta, diresse tutta la sua furia verso la donna paffuta. «Ti farò...»

«Devo dire a Therava che stavi maltrattando una dei gai’shain di Sevanna?» la interruppe Aravine in tono freddo. Il suo accento era raffinato. Poteva essere stata una commerciante di una certa importanza, o forse perfino una nobildonna, ma non parlava mai di ciò che era stata prima di indossare il bianco. «L’ultima volta che Therava ha pensato che tu avessi ficcato il naso dove non voleva, tutti entro cento passi potevano sentirti strillare e implorare.»

Galina fremeva davvero dalla rabbia: era la prima volta che Faile vedeva la Aes Sedai tanto fuori di sé. Con uno sforzo evidente, riprese il controllo di sé stessa. A malapena. La sua voce grondava acidità. «Noi Aes Sedai facciamo ciò che facciamo per le nostre ragioni, Aravine, ragioni che tu non puoi lontanamente comprendere. Ti pentirai di aver contratto questo debito quando deciderò di esigerne il pagamento. Te ne pentirai con tutto il cuore.» Sfregando le sue vesti un’ultima volta, si allontanò a grandi passi, non più la regina che guardava sdegnata la marmaglia ma un leopardo che sfidava una pecora a bloccargli il passo. Osservandola allontanarsi, Aravine non parve affatto impressionata, né incline a chiacchierare. «Sevanna ti vuole, Faile» fu tutto ciò che disse.

Faile non si prese la briga di chiedere perché. Si limitò ad asciugarsi le mani e a srotolarsi le maniche, e seguì l’Amadiciana dopo aver promesso ad Alliandre e Maighdin che sarebbe tornata il prima possibile. Sevanna era affascinata da loro tre. Maighdin, l’unica vera domestica fra i suoi gai’shain, pareva interessarla quanto la regina Alliandre e Faile stessa, una donna tanto potente da avere una regina come propria vassalla, e talvolta mandava a chiamare una di loro per nome per aiutarla a cambiarsi d’abito o farsi un bagno nell’ampia vasca di rame che usava più spesso della tenda della sauna, o solo per versarle il vino. Il resto del tempo venivano assegnate loro le stesse faccende degli altri suoi servitori, ma lei non chiedeva mai se stessero svolgendo altri compiti o le liberava da essi per questo. Qualunque cosa Sevanna volesse, Faile sapeva che sarebbe stata comunque ritenuta responsabile per il bucato assieme alle altre due. Sevanna voleva quello che voleva quando lo voleva, e non accettava scuse.

Anche se Faile non aveva bisogno che le mostrasse la via per la tenda di Sevanna, Aravine fece strada attraverso la calca di portatori d’acqua finché non raggiunsero le prime basse tende aiel, poi indicò nella direzione opposta rispetto alla tenda di Sevanna e disse: «Da questa parte, prima.»

Faile si fermò dove si trovava. «Perché?» chiese in tono sospettoso. In effetti c’erano uomini e donne fra i servitori di Sevanna che erano gelosi delle attenzioni che lei riservava a Faile, Alliandre e Maighdin, e anche se Faile non aveva mai percepito niente del genere in Aravine, alcuni degli altri avrebbero potuto cercare di metterle nei guai fornendo delle istruzioni false.

«Sarà bene che tu veda questo prima di incontrare Sevanna. Credimi.»

Faile aprì la bocca per chiedere ulteriori spiegazioni, ma Aravine semplicemente si voltò e si allontanò. Faile raccolse le gonne delle sue vestì e la seguì.

Tutti i tipi di carri grandi e piccoli si trovavano fra le tende, le loro ruote rimpiazzate da pattini. Molti erano carichi di alte pile di fagotti, casse di legno e barili, con le ruote legate in cima al resto, ma Faile non dovette seguire a lungo Aravine prima di vedere un carretto privo di sponde che era stato svuotato. Tranne per il fatto che non era vuoto. Due donne erano distese sulle scabre assi di legno, nude e crudelmente incaprettate, rabbrividivano al freddo e tuttavia ansavano come se avessero corso. Le teste di entrambe le donne pendevano con fare stanco, ma, come se in qualche modo sapessero che Faile era lì, entrambe alzarono lo sguardo. Arrela, una scura Tarenese alta quanto la maggior parte delle donne aiel, distolse gli occhi per l’imbarazzo. Lacile, una Cairhienese esile e pallida, si fece di un rosso vivido.

«Sono state riportate indietro stamattina» disse Aravine, osservando il volto di Faile. «Verranno slegate prima che faccia buio, dato che è la prima volta che hanno tentato di scappare, anche se dubito che saranno in condizioni di camminare prima di domani.»

«Perché mi hai mostrato questo?» chiese Faile. Erano state così accorte a mantenere il legame fra loro un segreto.

«Tu dimentichi, mia signora, che io ero lì quando siete state tutte messe in bianco.» Aravine la esaminò per un momento, poi all’improvviso prese le mani di Faile e le girò in modo che le sue fossero fra i palmi di Faile. Piegando le ginocchia quasi fino a genuflettersi, disse rapidamente: «In nome della Luce e per la mia speranza di rinascita, io, Aravine Carnei, offro la mia fedeltà e obbedienza in tutte le cose a lady Faile t’Aybara.»

Solo Lacile pareva essersene accorta; gli Shaido che passavano lì accanto non prestavano attenzione a due donne gai’shain. Faile liberò le proprie mani con uno strattone. «Come sai quel nome?» Aveva dovuto aggiungere altro oltre Faile, naturalmente, ma aveva scelto Faile Bashere una volta che si era resa conto che nessuno degli Shaido aveva la minima idea di chi fosse Davram Bashere. A parte Alliandre e le altre, solo Galina conosceva la verità. O così lei aveva pensato. «E chi te l’ha detto?»

«Io ascolto, mia signora. Ho udito per caso Galina parlarti, una volta.» Una punta di ansia si fece strada nella voce di Aravine. «E non l’ho detto a nessuno.» Non pareva sorpresa che Faile volesse nascondere il proprio nome, anche se era chiaro che t’Aybara non significava niente per lei. Forse Aravine Carnei non era il suo vero nome, oppure non era completo. «In questo posto i segreti devono essere conservati con tanta attenzione come ad Amador. Sapevo che queste donne erano tue, ma non l’ho detto a nessuno. So che hai intenzione di scappare. Ne sono stata certa fin dal secondo o dal terzo giorno, e niente di ciò che ho visto da allora mi ha convinto del contrario. Accetta il mio giuramento e prendimi con te. Posso aiutare e, ancora più importante, puoi fidarti di me. Te l’ho dimostrato mantenendo i tuoi segreti. Per favore.» Le ultime parole le uscirono forzate, come se venissero da qualcuno non abituato a dirle. Una nobildonna, allora, piuttosto che una commerciante. Quella donna non aveva dimostrato nulla tranne che poteva scoprire dei segreti, ma quella da sola era una caratteristica utile. D’altro canto Faile conosceva almeno due gai’shain che avevano tentato di fuggire ed erano stati traditi da altri. Alcune persone cercavano davvero di portare acqua al proprio mulino, qualunque fossero le circostanze. Ma Aravine già sapeva abbastanza da rovinare tutto. Faile ripensò al suo coltello nascosto. Una donna morta non poteva rivelare nulla. Ma il coltello era a mezzo miglio di distanza, lei non riusciva a pensare ad alcun modo per occultare il corpo, e inoltre la donna avrebbe potuto ingraziarsi Sevanna anche solo dicendo che pensava che Faile stesse progettando di scappare.

Prendendo le mani di Aravine fra le sue, lei parlò rapidamente come l’altra donna. «Nel nome della Luce, accetto la tua offerta e proteggerò e difenderò te e le tue genti dai tormenti della battaglia, dairinfuriare dell’inverno e da tutto ciò che il tempo porterà. Ora. Conosci qualcun altro di cui ci si possa fidare? Non persone di cui pensi ci si possa fidare, ma persone di cui lo sai per certo.»

«Non per questo, mia signora» rispose Aravine in tono mesto. Il suo volto era raggiante di sollievo, però. Non era stata sicura che Faile l’avrebbe accettata. Che si trattasse di sollievo piuttosto che di qualcos’altro rendeva Faile incline a credere in lei. Incline, il che voleva dire che non le credeva del tutto. «Metà di loro tradirebbe la propria madre nella speranza di procurarsi la libertà, e l’altra metà è troppo spaventata per tentare o troppo intontita perché ci si possa fidare che non si facciano prendere dal panico. Deve esserci qualcuno, e io ne tengo d’occhio uno o due, ma voglio essere molto cauta. Un errore è qualcosa che non posso permettermi.»

«Molto cauta» convenne Faile. «Sevanna mi ha davvero mandata a chiamare? Se non l’ha fatto...»

Pareva che invece fosse così, e Faile fu lesta a raggiungere la tenda di Sevanna – più di quanto le sarebbe piaciuto in realtà, era irritante scattare per evitare di scontentare Sevanna – ma nessuno le prestò la minima attenzione quando lei entrò e rimase in piedi con aria umile accanto ai lembi dell’ingresso.

La tenda di Sevanna non era una bassa struttura aiel, ma una quadrangolare di tela rossa tanto grande da aver bisogno di due pertiche centrali, illuminata da quasi una dozzina di lampade su sostegni dotate di specchi. Due bracieri dorati emanavano un po’ di calore, emettendo sottili sbuffi di fumo che mulinavano fuori dalle apposite aperture nel soffitto, ma dentro faceva poco più caldo che all’esterno. Ricchi tappeti, la neve attentamente raschiata via prima che venissero poggiati per terra, creavano un pavimento di tonalità rosse, verdi e blu, intrichi tarenesi, fiori e animali. Cuscini di seta muniti di nappe giacevano sparpagliati sui tappeti, e una sedia, un oggetto massiccio intagliato in maniera intricata e con una pesante doratura, era posta in un angolo. Faile non aveva mai visto nessuno sedervisi, ma si supponeva che si trovasse lì per evocare la presenza di un capoclan, a quanto lei sapeva. A lei bastava starsene lì in pace con gli occhi bassi. Altri tre gai’shain con cinture e collari dorati, fra cui un uomo barbuto, erano in piedi lungo una parete della tenda, nel caso occorresse qualche servigio. Sevanna era lì, e così Therava.

Sevanna era una donna alta, poco più della stessa Faile, con pallidi occhi verdi e capelli come fili d’orò. Sarebbe potuta essere bella se non fosse stato per un forte piglio rapace attorno alla sua bocca carnosa. C’era poco in lei di tìpico degli Aiel oltre gli occhi, i capelli e il volto scurito dal sole. La sua blusa era di seta bianca, la gonna dello stesso tessuto divisa per cavalcare, anche se color grigio scuro, e la sciarpa attorno alle sue tempie era uno sfavillare di cremisi e oro, anch’essa di seta. Stivali rossi facevano capolino sotto l’orlo della sua gonna quando si muoveva. Anelli ingemmati decoravano ogni dito, e collane e braccialetti di grosse perle, diamanti tagliati e rubini grossi come uova di piccione, zaffiri, smeraldi e gocce di fuoco, facevano impallidire qualunque gioiello avesse Someryn. Nemmeno uno era di fattura aiel. Therava, d’altro canto, era completamente Aiel, in lana scura e algode bianco, le sue mani spoglie e le collane e i braccialetti in oro e avorio. Nessun anello sulle dita o gemme per lei. Più alta di molti uomini, i suoi capelli color rosso scuro appena striati di bianco, era un’aquila dagli occhi azzurri che sembrava voler divorare Sevanna come se fosse un agnello azzoppato. Faile avrebbe preferito far adirare Sevanna dieci volte che non Therava una sola, ma le due donne si fronteggiavano sedute a un tavolo intarsiato di avorio e turchesi, e Sevanna rispondeva a tono a ogni occhiataccia di Therava.

«Ciò che sta accadendo oggi significa pericolo» disse Therava con l’aria di una persona stanca di doversi ripetere. E forse sul punto di estrarre il coltello che portava alla cintura. Ne carezzava l’impugnatura mentre parlava, e con aria non del tutto assente, pensò Faile.

«Dobbiamo mettere quanta più distanza possibile fra noi e qualunque cosa sia, e prima che possiamo. Ci sono delle montagne a est. Una volta che le avremo raggiunte, potremo starcene al sicuro finché non avremo nuovamente radunato tutte le sette. Sette che non sarebbero mai state separate se tu non fossi stata così sicura di te, Sevanna.»

«Tu parli di sicurezza?» Sevanna rise. «Sei diventata così vecchia e sdentata che hai bisogno di essere nutrita a pane e latte? Guarda. Queste tue montagne quanto sono distanti? Quanti giorni, o settimane, quanto dobbiamo strisciare attraverso questa dannata neve?» Fece un gesto verso il tavolo fra loro dove era stesa una mappa, tenuta aperta da due grosse ciotole dorate e un pesante candelabro d’oro a tre bracci. La maggior parte degli Aiel disdegnava le mappe, ma Sevanna si era abituata a esse assieme ad altri costumi degli abitanti delle terre bagnate.

«Qualunque cosa sia accaduta è molto lontana, Therava. Sei stata d’accordo anche tu, come tutte le Sapienti. Questa città è piena di cibo, sufficiente a nutrirci per settimane, se rimaniamo qui. Chi c’è qui a sfidarci, se lo facciamo? E se lo facciamo... tu hai sentito i corrieri, i messaggi. In due o tre settimane, quattro al massimo, altre dieci sette si saranno unite a me. Forse più! Per allora questa neve si sarà sciolta, se possiamo credere a questi abitanti delle terre bagnate della città. Viaggeremo veloci invece di dover trascinare tutto sulle slitte.» Faile si domandò se qualcuno della gente della città avesse menzionato il fango.

«Altre dieci sette si uniranno a te» disse Therava, con voce piatta tranne per l’ultima parola. La sua mano si serrò sull’impugnatura del coltello. «Tu parli per il capoclan, Sevanna, e perciò io sono stata scelta per consigliarti come un capoclan, che deve ascoltare i suggerimenti per il bene del nostro clan. Io ti consiglio di dirigerci a est e continuare a muoverci in quella direzione. Le altre sette possono unirsi a noi altrettanto facilmente su quelle montagne come qui, e se dobbiamo procedere un po’ affamati nel frattempo, chi fra noi è estraneo agli stenti?»

Sevanna tastò le sue collane, un grosso smeraldo sulla sua mano destra come un fuoco verde alla luce delle lampade sui sostegni. La sua bocca si tese e sembrò più affamata per questo. Poteva darsi che lei avesse conosciuto gli stenti, ma nonostante la mancanza di calore nella tenda, aveva scelto di non sperimentarli più. «Io parlo per il capo e dico che noi rimarremo qui.» C’era più che un accenno di sfida nella sua voce, ma non diede a Therava l’opportunità di raccoglierla. «Ah, vedo che è arrivata Falle. La mia brava, obbediente gai’shain.» Prendendo qualcosa avvolto in un panno dal tavolo, tolse via la stoffa. «Riconosci questo, Faile Bashere?»

Quello che Sevanna teneva in mano era un coltello con una lama a filo singolo e lungo una spanna e mezzo, un semplice utensile del tipo che migliaia di contadini portavano. Tranne il fatto che Faile riconobbe il disegno dei rivettini nel manico di legno e la scheggiatura sul bordo. Era il coltello che aveva rubato e occultato con tanta cura. Non disse nulla. Non c’era nulla da dire. Ai gai’shain era proibito possedere qualunque arma, perfino un coltello tranne quando dovevano tagliare carne o verdura per cucinare. Faile non riuscì a non sussultare quando Sevanna proseguì, però.

«Menomale che Galina mi ha portato questo prima che tu potessi usarlo. Per qualunque scopo. Se tu avessi accoltellato qualcuno, mi sarei dovuta arrabbiare molto con te.»

Galina? Ma certo. La Aes Sedai non avrebbe permesso loro di scappare prima che avessero fatto ciò che voleva.

«È sconcertata, Therava.» La risata di Sevanna era divertita.

«Galina sa quello che si richiede ai gai’shain, Faile Bashere. Cosa dovrei fare con lei, Therava? Questo è un consiglio che puoi darmi. Diversi abitanti delle terre bagnate sono stati uccisi per aver nascosto armi, ma odierei dover perdere lei.»

Therava sollevò il mento di Faile con un dito e la fissò negli occhi. Faile incontrò quello sguardo senza battere le palpebre, ma percepì le proprie ginocchia tremare. Non cercò di dire a sé stessa che era solo il freddo. Faile sapeva di non essere una codarda, ma quando Therava la guardò, si immaginò come un coniglio fra gli artigli di un’aquila, vivo e in attesa che il becco gli calasse addosso. Era stata Therava la prima a dirle di spiare Sevanna e, per quanto le altre Sapienti potessero essere state circospette, Faile non nutriva dubbi che Therava le avrebbe squarciato la gola senza il minimo scrupolo se lei l’avesse delusa. Non serviva a niente far finta che quella donna non la spaventasse. Doveva soltanto controllare quella paura. Se solo avesse potuto.

«Penso che stesse progettando di fuggire, Sevanna. Ma ritengo che possa imparare a fare come le viene detto.»

Lo scabro tavolo di legno era stato disposto fra le tende nello spazio aperto più vicino a quella di Sevanna, a cento passi di distanza. All’inizio Faile pensò che la vergogna di essere nuda sarebbe stata la parte peggiore; quello e il gelo che le irruvidiva la pelle. Il sole era basso nel cielo; l’aria si era fatta più fredda, e lo sarebbe diventata ancora di più prima del mattino. Lei sarebbe dovuta rimanere lì fino ad allora. Gli Shaido erano bravi ad apprendere quello di cui gli abitanti delle terre bagnate si vergognavano, e usavano l’onta come una punizione. Faile pensò che sarebbe morta per l’imbarazzo quando chiunque avesse potuto guardarla, ma gli Shaido che passavano lì accanto non si soffermavano nemmeno. Di per sé stessa, la nudità non era motivo di vergogna fra gli Aiel. Aravine apparve di fronte a lei, ma si fermò solo il tempo sufficiente a sussurrare le parole: «Conserva il tuo coraggio» e poi se ne andò. Faile capiva. Che la donna fosse leale o meno, non osava far nulla per aiutarla.

Dopo pochissimo tempo Faile non era più preoccupata della vergogna. Le avevano legato i polsi dietro la schiena, poi le avevano piegato le gambe legandole le caviglie ai gomiti. Ora capiva perché Lacile e Arrela stavano ansimando. Respirare in questa posizione era faticoso. Il freddo mordeva sempre più a fondo, finché lei non si ritrovò a essere scossa da brividi incontrollabili, ma perfino quello passò presto in secondo piano. Le gambe, le spalle, i fianchi cominciarono a bruciarle per via dei crampi, fasci di muscoli che sembravano andare a fuoco, torcendosi sempre più. Concentrò i suoi sforzi nell’impedirsi di urlare. Quello divenne il centro della sua esistenza. Lei-non-avrebbeurlato. Ma, oh, Luce, se faceva male!

«Sevanna ha ordinato che tu rimanga qui fino all’alba, Faile Bashere, ma non ha detto che non potevi avere compagnia.»

Lei dovette battere le palpebre diverse volte prima di poter vedere chiaramente. Il sudore le faceva pizzicare gli occhi. Come faceva a sudare quando era gelata fino al midollo? Rolan era in piedi di fronte a lei e , stranamente, stava portando un paio di bassi bracieri di bronzo pieni di tizzoni ardenti, con pezzi di stoffa avvolti attorno al sostegno di ciascuno per proteggere le sue mani dal calore. Vedendola fissare i bracieri, lui scrollò le spalle. «Una volta una notte al freddo non mi avrebbe impensierito, ma mi sono rammollito da quando ho attraversato il Muro del Drago.»

Faile quasi boccheggiò quando lui mise i bracieri sotto il tavolo. Il tepore si riversò attraverso le fenditure fra le assi. I suoi muscoli urlavano ancora per i crampi, ma oh, benedetto il tepore. Emise un rantolo quando l’uomo le mise una mano contro il petto e l’altra sulle ginocchia piegate. All’improvviso si rese conto che la pressione era svanita dai suoi gomiti. Lui l’aveva... strizzata. Una delle mani di Rolan cominciò a occuparsi della sua coscia e lei quasi gridò quando le sue dita affondarono nei muscoli rattrappiti, ma Faile sentì i nodi cominciare a sciogliersi. Le dolevano ancora, il suo massaggio faceva male, ma il dolore in quell’unico muscolo della coscia stava cambiando tipo. Non stava proprio diminuendo, ma sapeva che l’avrebbe fatto, se lui avesse continuato.

«Non ti spiace se mi tengo occupato mentre cerco di pensare a un modo per farti ridere, vero?» chiese lui.

All’improvviso Faile si rese conto che stava davvero ridendo, e non in modo isterico. Be’, era isteria solo in parte. Era legata come un’oca pronta per il forno e stava venendo salvata dal freddo per la seconda volta da un uomo che pensava che forse, dopotutto, non avrebbe accoltellato. Sevanna d’ora in poi l’avrebbe tenuta sotto osservazione come un falco e Therava avrebbe potuto tentare di ucciderla come un esempio; ma Faile sapeva che sarebbe fuggita. Una porta non si chiude mai senza che se ne apra un’altra. Sarebbe fuggita. Rise fino a piangere.

Загрузка...