CAPITOLO VIII

Hunter e Doc balbettavano ed emettevano torrenti di parole contemporaneamente, osservando il Vagabondo. La cupola calva di Doc aveva un soprannaturale alone color magenta, quando la testa scura e il volto barbuto di Hunter momentaneamente coprirono la metà dorata del corpo celeste.

Paul, improvvisamente percorso da una strana, elettrica energia nervosa, balzò sulla piattaforma, accanto a loro e disse, ad alta voce:

«Sentite, io possiedo alcune informazioni segrete sull'esistenza di fotografie stellari che mostrano regioni di distorsione, le quali confermano completamente quel che lei, signore, ha detto prima…»

«Silenzio! Non ho tempo per ascoltare le affermazioni pazzesche di voi maniaci dei dischi volanti,» ruggì Doc, senza malanimo, e proseguì subito, «Ross, le concedo che, se quell'oggetto è alla stessa distanza della Luna, deve essere grosso come la Terra. Deve essere così. Ma…»

«Ammesso che si tratti di una sfera,» intervenne seccamente Hunter. «Potrebbe essere piatto come un biliardo.»

«Certo, ammesso che sia una sfera. Ma questa è un'ipotesi naturale, razionale, non trova? Stavo dicendo che se invece si trovasse a mille miglia di altezza, allora il suo diametro dovrebbe essere soltanto…» chiuse gli occhi per due secondi, «Di trenta miglia. Mi segue?»

«Sicuro,» disse Hunter. «Triangoli similari e ottomila miglia diviso per 250.»

Doc annuì con tale violenza che per poco non gli caddero gli occhiali, e fu costretto ad afferrarli con una mano, per raddrizzarli.

«E se fosse soltanto a cento miglia di altezza… una quota ancora sufficiente per dare un'illuminazione generale, anche se in questo caso non potrebbe trattarsi di luce solare riflessa…»

«Allora il suo diametro sarebbe di sole tre miglia,» concluse Hunter.

«Sì,» ammise Paul, ad alta voce, «Ma in questo caso dovrebbe muoversi in un'orbita di novanta minuti. Questo significa quattro gradi al minuto… sufficiente per farci giudicare rapidamente la velocità, anche senza le stelle come punto di riferimento.»

«Lei ha perfettamente ragione,» disse Doc, rivolgendosi a lui, ora, come se si fosse trattato di un vecchio collega. «Quattro gradi sono la lunghezza della Cintura di Orione. E saremmo in grado di percepire un simile movimento molto rapidamente.»

«Ma come può essere certo che si tratti di un'orbita, qualsiasi essa sia?» domandò Hunter. «Come facciamo a stabilire con sufficiente certezza una cosa simile?»

«È un'altra ipotesi razionale, e naturale, come la precedente,» gli disse Doc, in tono un po' aspro e alzando la voce. «Come già abbiamo dato per scontato il fatto che l'oggetto rifletta la luce solare. Qualunque ne sia la provenienza, esso si trova ora nello spazio, così dobbiamo presumere che esso obbedisca alle leggi dello spazio, fino a quando non avremo avuto qualche prova contraria.» Si rivolse a Paul. «Cosa diceva prima, a proposito di fotografie stellari?»

Paul cominciò a spiegare la cosa.

Margo non aveva seguito Paul sul palco. Intorno a lei, gli spettatori si affollavano e chiacchieravano freneticamente; due donne erano inginocchiate accanto a Bacchetto, e gli stavano massaggiando i polsi, l'Omino stava dando la caccia a qualcosa, dietro le sedie, ma Margo guardava oltre la sabbia la sagoma spettrale d'ametista e di topazio del Vagabondo, una nuova aurora che rischiarava livida le acque del Pacifico. Fantasticò per qualche istante, e in questo fantasticare un'idea prese forma nella sua mente… il pensiero che tutti i fantasmi e gli spettri del passato, il suo passato, o forse il passato del mondo, sarebbero venuti marciando verso di lei, un cupo battaglione in marcia su quell'autostrada di pietre preziose.

Il viso della Turbantessa apparve nel suo campo visuale, e le disse in tono d'accusa:

«Io la conosco… lei è l'amichetta di quell'astronauta. Ho visto la sua foto su Life.»

«Ha ragione, Rama Joan,» disse una donna che indossava una maglietta grigia e un paio di minishorts, rivolgendosi alla Turbantessa. «Devo avere visto anch'io la stessa foto.»

«È venuta con un uomo,» offrì Ann, che era accanto a Rama Joan. «Ma sono brave persone; hanno portato un gatto. Vedi come sta fissando il grosso disco di velluto, mammina?»

«Sì, cara.» Rama Joan assentì, con un sorriso un po' crudele. «Vede dei demoni. I gatti li amano.»

«La prego, non cerchi di spaventarci più di quanto non lo siamo già,» le disse seccamente Margo. «È stupido e infantile.»

«Oh, lei crede che non ci saranno dei demoni?» domandò Rama Joan, in tono colloquiale. «Non si preoccupi per Ann. A lei piace tutto.»

Ragnarok, avvicinandosi, fissò Miao e ringhiò verso di lei. L'Omino, che stava cercando ancora qualcosa a tentoni dietro le sedie, disse seccamente:

«A cuccia, amico!»

Margo faticò per tener ferma la gatta, e ricevere il minimo possibile di graffi. Rama Joan le voltò le spalle, e osservò pensierosa il Vagabondo, e poi la Luna che stava ancora emergendo dall'eclisse. L'Omino trovò quel che aveva cercato fino a quel momento, e sedette su una delle sedie, posando la cosa sulle ginocchia… qualcosa che aveva le dimensioni di una valigetta da rappresentante, ma aveva gli angoli più acuti.

Sulla piattaforma, Doc stava dicendo a Paul:

«Be', sì, quelle foto sembrano suggerire l'ipotesi di un'emersione dall'iperspazio, ma…» Gli occhiali ingrandirono smisuratamente la sua espressione accigliata. «Purtroppo non vedo come possano contribuire a risolvere i nostri problemi, qui e adesso. Specialmente, quello che riguarda la distanza di quel dannato corpo celeste.» L'espressione accigliata si accentuò.

Hunter disse a Doc, ad alta voce:

«Rudolf! Mi ascolti!»

Doc raccolse un ombrello, e disse:

«Spiacente, Ross, devo fare una cosa,» e balzò dal palco, piuttosto pesantemente, atterrando sulla sabbia.

Paul si rese conto di quale fosse la natura della strana energia che lo inondava, perché ora poteva vedere che essa possedeva tutti gli altri… si trattava di pura esaltazione, come se tutti avessero respirato dell'aria con una percentuale di ossigeno enorme.

«Ma è importante,» continuò Hunter, parlando a gran voce, per metà a Paul, e per metà a Doc che era inginocchiato nella sabbia, dietro Paul. «Se quell'affare si trova solo a cento miglia di altezza, si trova nel cono d'ombra della Terra, e non può riflettere la luce solare. Così, immaginiamo che per un momento l'ipotesi che si trovi a dieci miglia di altezza sia esatta. Si tratta di una quota sufficiente a illuminare un'ampia regione. E in questo caso l'oggetto avrebbe un diametro di tre decimi di miglio… solo cinquecento iarde. Rudolf, ascolti… so che abbiamo tutti riso della vecchia idea di Charles Fulby, quella di un pallone sonda, o di segnalazione… ma sappiamo che dei palloni del diametro di cento iarde sono stati lanciati a quote di venti e più miglia. Se presumiamo che un gigantesco pallone, il quale trasporti all'interno una potentissima sorgente di luce, che probabilmente aiuta la salita scaldando il gas del pallone…» Si interruppe. «Rudolf, ma cosa diavolo sta facendo laggiù?»

Doc aveva infilato l'ombrello chiuso nella sabbia, ed era inginocchiato accanto a esso, e li guardava dal basso, attraverso la curva del manico. Il Vagabondo si rifletteva con riberberi fantastici nelle spesse lenti.

«Sto controllando l'orbita di quel dannato oggetto,» disse Doc. «Voglio allinearlo con l'angolo del tavolo a questo ombrello. Che nessuno muova quel tavolo.»

«Bene, le stavo dicendo,» chiamò Hunter, «Che può darsi che non segua affatto un'orbita, ma che stia semplicemente galleggiando. Le sto dicendo che potrebbe trattarsi soltanto di un pallone, grosso come cinque campi da football!»

«Ross Hunter!» La voce di Rama Joan era squillante, e aveva una sfumatura ironica. L'uomo barbuto si voltò. E tutti gli altri lo imitarono.

«Ross Hunter!» ripeté Rama Joan. «Venti minuti fa, lei ci stava parlando di grandi simboli nel cielo, e ora si accontenta di un grosso pallone rosso e giallo. Oh, bambini che non siete altro, guardate la Luna!»

Paul imitò tutti coloro che portavano una mano alla fronte, per proteggere gli occhi dal riverbero del Vagabondo. Il bordo orientale della Luna riluceva di luce bianca, ormai uscito per quasi un terzo dall'eclissi, ma perfino quell'area aveva delle chiazze colorate, mentre il margine ombreggiato e ancora scuro, intorno alla falce sottile, era pieno di riverberi purpurei e dorati. Senza alcun dubbio, la luce del Vagabondo pioveva con altrettanto vigore, se non di più, su quella faccia della Luna, come sulla Terra.

Il silenzio fu rotto da un improvviso ticchettio. L'Omino aveva aperto una macchina per scrivere portatile sulle ginocchia, e stava battendo industriosamente sui tasti. A Margo, quel ticchettio irregolare parve fuori luogo e solitario come qualcuno che avesse ballato il tip-tap su una tomba di un cimitero.


Il generale Spike Stevens disse, seccamente:

«D'accordo, dato che il Quartier Generale Uno non ha preso il controllo, ci pensiamo noi. Jimmy, invia quest'ordine alla Base Lunare: Lanciare un'astronave e compiere ricognizione del nuovo pianeta dietro di voi. Distanza valutata da vostra posizione 25.000 miglia. (Aggiungere le coordinate spaziali lunacentriche, a questo!). Vitale ottenere dati di ricognizione. Inviare dati direttamente.»

Il colonnello Griswold disse:

«Spike, i trasmettitori delle loro astronavi non sono sufficientemente potenti da raggiungerci.»

«Useranno come relé la Base Lunare.»

«Impossibile. Le onde radio non potranno raggiungerla, attraverso la crosta lunare.»

Spike fece schioccare le dita.

«D'accordo, allora ordina di lanciare due astronavi. Una per effettuare la ricognizione, l'altra… dopo un intervallo adeguato… per funzionare come relé tra il ricognitore e la Base Lunare. Bene. Dovrebbero avere tre astronavi funzionanti, no? Allora cambiamo… facciamo due per esplorare il nuovo pianeta, a nord e a sud, e la terza in orbita lunare, come appoggio e relé. Sì, Will. So che a questo modo sulla Luna rimarrà un uomo solo, senza astronavi, ma dobbiamo avere i frutti della ricognizione anche se questo dovesse costarci la base.»

Il colonnello Mabel Wallingford, rabbrividendo nell'atmosfera elettrica della sala sotterranea, ebbe un pensiero improvviso: E se non fosse stato un problema? Spike non sarebbe stato capace di affrontarlo, in questo caso. E pensò, ancora, In questo caso, io gli avrei dato la sua piccola vittoria, e gliela vedrei portare via!


Margo Gelhorn sentì che una delle donne diceva:

«Aspetta ancora prima di alzarti, Charlie.» Bacchetto era disteso tra le sue braccia, e stava fissando con grande serenità il Vagabondo, con un debole, remoto sorriso sulle labbra.

Impulsivamente, Margo si avvicinò. Anche Rama Joan lo fece, tenendo stretto automaticamente il capo penzolante del suo turbante verde.

«Ispan,» disse debolmente l'uomo allampanato. «Oh, Ispan, come ho potuto non riconoscerti? Immagino di non avere mai pensato a questo tuo volto.» Poi, con voce più alta, «Ispan, mondo di porpora e d'oro, Ispan, il Pianeta Imperiale.»

«Ispan,» disse l'Omino, senza emozione, continuando a scrivere a macchina.

«Charlie Fulby, vecchio bugiardo,» disse Rama Joan, quasi con tenerezza. «Perché continui questa commedia? Sai benissimo di non avere mai messo piede su un altro pianeta in tutta la tua vita.»

La donna lanciò un'occhiata infuocata, ma Bacchetto sollevò lo sguardo, fissando senza rancore la donna dal turbante verde.

«Non in carne e ossa, non col mio corpo, no, questo è verissimo, Rama,» disse. «Ma li ho visitati per anni e anni, nei miei pensieri. Sono sicuro della loro realtà, come Piatone era sicuro della realtà degli universali e come Euclide era sicuro della realtà dell'infinito. Ispan e Arietta e Brina devono esistere, proprio come Dio. Io lo so. Ma per far comprendere questo alla gente, nella nostra epoca materialistica, ho dovuto fingere di averli visitati fisicamente.»

«E perché adesso abbandoni la finzione?» lo incoraggiò gentilmente Rama Joan, come se già avesse conosciuto la risposta.

«Ora nessuno ha più bisogno di fingere,» disse sommessamente Bacchetto. «Ispan è qui.»

L'Omino fece uscire il foglio dal rullo della macchina per scrivere, lo infilò in un cartone a molletta, salì sul palco, e batté sul tavolo per richiamare l'attenzione.

Leggendo il foglio, annunciò:

«Dopo il luogo, data, ora e minuto, ho scritto: Noi sottoscritti abbiamo visto un oggetto circolare nel cielo, vicino alla Luna. Il suo diametro apparente era di quattro volte superiore a quello della Luna. Le sue due metà erano color porpora e oro, e assomigliavano a un Yin-Yang, o all'immagine speculare del numero sessantanove. Esso emetteva luce sufficiente a leggere correntemente e ha mantenuto il medesimo aspetto per almeno 20 minuti. Qualche correzione? Benissimo, lo farò circolare tra i presenti, pregandoli di firmare in caratteri chiari quanto è stato dichiarato. Desidero anche i vostri indirizzi.»

Qualcuno brontolò, ma Doc chiamò, dal punto in cui si trovava sulla sabbia:

«Benissimo così, adesso agli atti!» L'Omino presentò il suo foglio alle due donne più vicine a lui. Una ridacchiò istericamente, l'altra prese la penna e firmò.

Paul chiamò Doc:

«È già riuscito a notare qualche movimento?»

«No, non posso ancora essere sicuro di niente,» fu la risposta di Doc, che si rialzò con prudenza, come se non volesse disturbare l'ombrello infilato profondamente nella sabbia. «Certamente possiamo escludere l'ipotesi dell'orbita vicina alla Terra.» Si issò nuovamente sul palco. «C'è nessuno, qui, che abbia un piccolo telescopio o un cannocchiale?» domandò, senza troppa speranza. «O un binocolo da teatro?» Aspettò ancora un momento, poi si strinse nelle spalle. «Proprio degno di loro,» disse a Paul, togliendosi gli occhiali e pulendoli con un pezzetto di stoffa. «Che branco di orecchianti.»

Il viso di Hunter s'illuminò.

«C'è qualcuno, qui, che abbia una radio?» gridò.

«Io,» disse la donna magra, seduta sulla piattaforma accanto a Bacchetto.

«Bene, allora cerchi una stazione che trasmetta dei notiziari,» le disse Hunter.

«Cercherò di prendere la KFAC… trasmettono musica classica, con regolari bollettini sul traffico e giornali radio.»

Il commento di Hunter fu:

«Se l'hanno avvistato anche a New York o a Buenos Aires, saremo sicuri che deve trovarsi molto in alto.»

Margo stava contemplando di nuovo il Vagabondo, quando qualcuno le tirò il gomito, quello della mano che non teneva la gatta. L'Omino le disse, in tono cortese:

«Mi chiamo Clarence Dodd. Lei è…?»

«Margo Gelhorn,» rispose lei. «Quell'enorme bestione è il suo cane, signor Dodd?»

«Sì, infatti,» le disse in fretta, con un sorriso smagliante. «Posso avere la sua firma su questo documento?»

«Oh, per favore!» disse lei in tono acido, sollevando di nuovo lo sguardo in direzione del Vagabondo.

«Se ne pentirà,» le assicurò pacificamente l'Omino. «L'unica volta che io ho visto un disco plausibile, ho trascurato di procurarmi delle dichiarazioni firmate da parte delle quattro persone che si trovavano in auto con me. Una settimana dopo, dicevano tutti che si trattava probabilmente di qualcos'altro.»

Margo si strinse nelle spalle, poi andò fino al margine della piattaforma e disse:

«Paul, mi sembra che la metà purpurea si stia facendo più piccola, e c'è una striatura purpurea laggiù, al bordo esterno della metà gialla, che prima non si vedeva.»

«Ha ragione,» confermarono diverse persone. Doc cercò gli occhiali, ma prima di poter parlare, fu preceduto da Hunter.

«Sta ruotando. Deve essere una sfera!»

Improvvisamente il Vagabondo, che Paul aveva visto come una superficie piatta, parve arrotondarsi. C'era qualcosa di strano, d'indescrivibilmente misterioso nell'altra faccia nascosta, e totalmente ignota, che lentamente stava apparendo.

Doc sollevò una mano.

«Sta ruotando verso est,» asserì. «Cioè, questa sua parte… la qual cosa significa che la sua rotazione è retrograda rispetto alla Terra e a quasi tutti gli altri pianeti del sistema solare.»

«Dio mio, Bill, adesso dobbiamo subire anche delle lezioni di astronomia,» bisbigliò con voce bassa e sarcastica la donna in grigio all'uomo che le stava accanto.

La radiolina della donna magra si fece udire, molto debolmente, a eccezione delle forti scariche di statica. La musica che essa trasmetteva aveva un ritmo galoppante, travolgente. Dopo un momento, Paul riconobbe la 'Cavalcata delle Valchirie' di Wagner, che risuonava, là nella grande spiaggia all'aperto, come se a suonarla fosse stata un'orchestra di topi.


Don Merrian era già a metà strada dalla Capanna, e i suoi stivali sollevavano nubi di polvere lunare, mentre egli procedeva cautamente nella pianura sempre più illuminata, quando la voce di Johannsen risuonò al suo orecchio. Egli si fermò.

Johannsen disse:

«Ascolta, Don. Tu non devi rientrare nella Capanna. Devi salire a bordo della Nave Uno, e prepararti a un decollo solitario.»

Don soppresse l'impulso di protestare, di esclamare, «Ma, Yo…»

L'altro ridacchiò, approvando il suo silenzio, e proseguì:

«So che non le abbiamo mai guidate in volo solitario, se non nei voli di addestramento o nelle simulazioni, ma questi sono gli ordini che giungono dai pezzi grossi. Dufresne ha già indossato la tuta. Ti seguirà a bordo della Nave Due. Io sarò a bordo del Baba Yaga Tre, per fare da relé a Gompert alla Base, e lui ritrasmetterà al Quartier Generale sulla Terra. Tu e Dufresne dovrete decollare non appena riceverete il via. Dovrete compiere una ricognizione: tu dell'emisfero settentrionale, e lui di quello meridionale, dell'oggetto nascosto dietro la Luna che sta producendo la luce gialla e purpurea. È difficile crederlo, ma il Quartier Generale della Terra dice che si tratta di un…»

La voce si perse in un brontolio lacerante poderoso, quasi subconscio, che veniva attraverso gli stivali di Don, e gli risaliva il corpo. La Luna si mosse lateralmente di almeno mezzo metro, sotto i piedi di Don, gettandolo al suolo. Dopo due secondi, cadendo, il suo unico pensiero attivo fu quello di sollevare le braccia, tenendole piegate ai gomiti, per creare una specie di protezione intorno al casco, ma poté vedere la polvere grigia frangersi e sollevarsi qua e là, come un folto tappeto gonfiato dal basso da un vento forte, come se l'inerzia lo avesse tenuto fermo, mentre la luna solida si muoveva sotto di esso.

Cadde sul dorso, producendo un rumore cupo e profondo. Il ruggito si moltiplicò, veniva da ogni punto della crosta lunare, dal sottosuolo, o forse soltanto dalla suola magnetica dei suoi stivali. Piccole masse di polvere galleggiavano lentamente qua e là, intorno a lui, descrivendo parabole basse. Il casco non si era incrinato.

Il ruggito diminuì. Egli disse: «Yo!» e ripeté «Yo», e poi, con la lingua, azionò il fischio di allarme della Capanna.

Il faro di luce pupurea e gialla lo fissò minaccioso come un grande occhio baluginante, dal bordo occidentale dell'Atlantico, toccando la Florida.

Non venne alcuna risposta dalla Capanna.

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