CAPITOLO XII

Don Merriam era già da quindici minuti nel corpo della Luna, procedendo a una velocità di due miglia al secondo, e ora la striscia gialla e viola, dopo essersi allargata, fino a diventare un nastro, rimaneva da qualche tempo delle medesime dimensioni — cosa che non poteva essere un buon segno — ma non c'era nulla da fare, se non procedere come un proiettile attraverso l'incredibile crepaccio che divideva la Luna in due emisferi, un crepaccio incredibilmente levigato, come un diamante di taglio perfetto; mentre lui non poteva essere altro che un solo occhio vivente, un solo grande occhio la cui unica funzione era quella di pilotare, e si dovevano subire quei pensieri vaganti che giungevano alla mente, perché il compito di pilotare il proiettile che sfrecciava attraverso la Luna era troppo serio, occupava troppo la mente, perché egli potesse sprecare delle energie per sopprimere o controllare i pensieri vaganti.

Dopo la prima, violenta spinta di accelerazione, continuò accendendo il razzo centrale a brevi intervalli, pilotando il Baba Yaga con i razzi stabilizzatori.

Don Merriam stava viaggiando attraverso il nucleo di un corpo planetario. Era passato attraverso il centro di quel mondo, e finora il viaggio era stato un succedersi di riverberi e di tenebra e di macchie confuse e di un nastro violetto che divideva in due uno schermo a chiazze lattescenti. Il viaggio era tutto questo, e anche una gola bruciante, serrata da un nodo dolente, e occhi gonfi e tesi, e l'immagine di se stesso… un insetto che passava ronzando nel terreno, un tarlo che attraversava un legno lungo chilometri e chilometri, uno scarabeo che viaggiava in una galleria tra coltri smisurate di pietra, o un principe stregato che correva per un corridoio avvelenato, stretto fin quasi a sfiorargli i gomiti… e se lo sfiorava appena, che faux pas sarebbe stato!

Verso la metà del percorso, aveva visto delle striature nere come l'inchiostro, e un lampo di fiamma verde, ma era stato impossibile immaginare quale ne fosse stata la causa.

La lattescenza sullo schermo, in ogni modo, doveva essere causata dall'erosione dei vortici di polvere minutissima che a un certo punto gli avevano quasi nascosto il filamento colorato.

Aveva perduto di vista la luce del sole, a poppa, prima di quanto avesse sperato, e così aveva dovuto guidare il Baba Yaga servendosi soltanto degli scintillii vaghi delle pareti, i riverberi porpora e oro, e si trattava di un sistema infido, ingannevole, perché il giallo era più vivido del color porpora, e lo tentava a tenersi a una distanza eccessiva da esso.

Ma ora il nastro violetto cominciava a restringersi, ed egli capì che si trattava della condanna, un destino peggiore di una rotta di collisione, perché alla sua mente giunse, indomabile, l'immagine folle delle due metà squarciate della Luna che si chiudevano dietro di lui, escludendo tutta la luce solare, e poi… in una massiccia reazione, e per virtù della rabbiosa, mutua attrazione delle masse in movimento… anche davanti a lui, avvicinandosi di qualche metro mentre lui percorreva miglia e miglia, con apparente lentezza, ma velocità sufficiente a precederlo nel punto d'impatto.

Poi, nell'istante in cui gli parve di raggiungere il punto della collisione, quando i suoi calcoli rudimentali indicavano che egli aveva viaggiato per quasi duemila miglia attraverso la Luna, il nastro violetto si spense del tutto.

E poi, incredibilmente, come se egli avesse trovato una vita dopo la morte, Don Merriam uscì come un proiettile dalle tenebre, e si trovò nella luce, con grappoli di stelle che ardevano tutt'intorno a lui, e perfino il vecchio Sole che dardeggiava l'universo con i suoi bianchi raggi accecanti.

Soltanto allora vide ciò che si trovava davanti a lui.

Era un grande disco, grande come la Terra vista da un'orbita di due ore. Questo immenso disco irradiava una luce viola e dorata a destra, dove c'era il Sole, ma a sinistra era nero come l'inchiostro, a eccezione di tre pallidi ovali che irradiavano una vaga fosforescenza verdognola. Si rese conto che prima, nelle viscere della Luna, lui aveva perso di vista il nastro viola non perché le fauci di Selene si fossero serrate davanti a lui, ma semplicemente perché la faccia notturna del pianeta si era spostata, ponendosi di fronte all'abisso che lui aveva attraversato.

Accettò istantaneamente il fatto che si trattasse di un enorme pianeta, e che la Luna fosse entrata in un orbita stretta intorno a esso, perché soltanto questo, evidentemente, poteva spiegare ciò che aveva visto e quanto era accaduto nelle ultime tre ore: il diluvio di luce sulla faccia notturna della Terra, il faro occhieggiante nell'Atlantico, e soprattutto il frantumarsi titanico della Luna.

E, oltre il muro della ragione, c'era qualcosa d'altro in lui… c'era qualcosa che gridava, ora che era là fuori, e stava guardando quel globo maestoso, di credere che fosse davvero un pianeta.

Regolò l'astronave, facendola ruotare lentamente, e laggiù, a sole cinquanta miglia da lui, vide il gran disco della Luna, per metà nero, per metà di un bianco abbagliante, un inferno ivoreo di raggi solari riflessi. E vide che le pareti dell'abisso si erano veramente serrate, come fauci fameliche, dietro di lui, dal fronte dei geyser di polvere che s'innalzavano scintillanti nei raggi solari, nel vuoto illuminato, su tutto il bordo della linea notturna della luna, e lo vide anche dalla scacchiera surreale, dalle caselle distorte, di spaccature minori, segnate da geysers di polvere più piccoli, che s'irradiava dalla linea della spaccatura. Un tratteggio mostruoso, per un evento titanico.

Era sospeso a cinquanta miglia di altezza… e continuava ad allontanarsi… da quello che a ogni secondo acquistava maggiormente l'aspetto di un mare roccioso scosso da fremiti paurosi.

Poi, dato che non voleva tuffarsi… non ancora, almeno… alla velocità di un miglio al secondo nell'emisfero buio chiazzato di sinistra fosforescenza che ora si trovava sotto i suoi razzi, accese il motore principale, per diminuire la velocità… controllando finalmente il quadro degli strumenti, e scoprendo che a bordo c'erano combustibile e ossidante appena sufficienti per quella manovra. Così avrebbe dovuto entrare in orbita intorno al pianeta straniero… un'orbita ancor più interna di quella della Luna.

Sapeva che ben presto il Sole sarebbe affondato sotto il campo visuale, e che la luna, gigantesca creatura in metamorfosi, avrebbe conosciuto un'altra nera eclissi, quando il Baba Yaga e Selene sarebbero entrati insieme nel cono d'ombra… nella notte… di un favoloso mistero.


Fritz Scher sedeva rigido e impettito dietro la scrivania, nella lunga sala dell'Istituto di Ricerche sulle Maree di Amburgo, nella Germania Ovest. Stava ascoltando, con divertimento già sfumato da una traccia di esasperazione, le demenziali notizie del mattino che giungevano dall'altra parte dell'Atlantico. Spense l'apparecchio, con una forza che per poco non ruppe il pulsante, e disse ad Hans Opfel:

«Questi americani! Va bene che la loro presenza è necessaria per tenere a bada quei porci comunisti, ma che degradazione intellettuale, per la Madreterra!»

Si alzò dalla scrivania, e camminò fino alla lucida, aerodinamica macchina che occupava l'intera parete della sala, e la cui funzione era quella di prevedere le maree. All'interno della macchina, un filo scorreva attraverso molte pulegge di precisione asportabili e regolabili; ciascuna puleggia rappresentava un fattore che influenzava la marea, nel punto dell'idrosfera terrestre sul quale la macchina era regolata; alla fine del filo, un pennino sottilissimo tracciava su un cilindro grafico una curva che forniva con esattezza le maree in quel punto, ora per ora.

A Delf c'era una macchina che eseguiva l'intero lavoro elettronicamente, ma quelli erano gli inetti, sfaticati olandesi!

Fritz Scher disse, in tono drammatico:

«La luna in orbita intorno a un pianeta uscito dal nulla? Ah!» Batté con aria significativa la mano sul lucido fianco della macchina. «È qui che abbiamo inchiodato la luna!»


La Machan Lumpur, con la prua rugginosa puntata a sud del sole che tramontava sul Vietnam del Nord, attraversò la barriera che proteggeva il piccolo istmo, a sud di Do-Son. Bagong Bung notò, grazie a una configurazione familiare di radici di mangrovie, e grazie a un basso canneto grigio che faceva praticamente parte della sua famiglia, tanto gli era noto, che l'alta marea era forse un palmo più alta di quanto non fosse mai stata in quel punto. Un ottimo auspicio! Delle piccole onde increspavano misteriosamente le acque della rientranza naturale. Un uccello marino fece udire il suo rauco richiamo.


Richard Hillary vide i raggi del sole raddrizzarsi lentamente, mentre la corriera volava su un soffice cuscino d'aria verso Londra. Bath era lontano, ormai, e stavano passando davanti a Silbury Hill.

Ascoltò pigramente la solenne ridda d'ipotesi, intorno a lui, sulle notizie assurde che erano giunte per radio, e riguardavano un disco volante grosso come un pianeta, avvistato da migliaia di persone negli Stati Uniti. Veramente, la fantascienza stava ammorbando e corrompendo la gente in ogni parte del mondo.

Una ragazza attraente, nella sua bellezza campagnola, che veniva da Devizes e si era trasferita a bordo a Beckhampton — la ragazza indossava dei minishorts, stivaletti e una maglietta trasparente — era seduta nel posto davanti a lui, e aveva cominciato a chiacchierare con la donna che le sedeva vicina praticamente nel momento in cui si era seduta. Stava spaziando, con lo stesso, identico entusiasmo, sulle notizie del disco volante… e il piccolo terremoto che aveva fatto sussultare brevemente molte regioni della Scozia… e l'uovo che aveva mangiato a colazione, e la pietanza che avrebbe mangiato a pranzo. In onore di Edward Lear, Richard forgiò mentalmente un limerick su di lei:


C'era una Giovane Donna di Devizes

Che aveva i pensieri in due misure precise:

Mentre molti passavano per un cruna

Alcuni eran grandi come la Luna;

Quella Donna che amava lo spazio di Devizes.


Pensare e rifinire il limerick lo divertì, per tutta la strada fino alla Foresta di Savernake; e quando ebbe raggiunto quel luogo, si appisolò.

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