La notte si allungava come il silenzio oltre i loro occhi in cerca di qualcosa, e la sua smisurata indifferenza screziata di stelle li confortò. Erano dei recuperatoli, che raccoglievano le ossa dei mondi; la notte dava loro rifugio perché non emetteva giudizi, ed essi le erano grati della sua amoralità.
Shadow Jack scrutò la notte, o la sua immagine nello schermo… a volte, nel grembo buio e chiuso dell’astronave, la sua mente si offuscava, e la realtà cominciava a confondersi con l’immagine. Allungò le gambe e si grattò, poi si lisciò all’indietro i capelli sporchi che gli scendevano fin sugli occhi, capelli neri come la notte che vedeva davanti a sé sullo schermo. Un occhio era verde e l’altro blu; entrambi erano iniettati di sangue, e la sua testa pulsava con il battito del cuore. Il livello del diossido di carbonio nella cabina superava abbondantemente il tre per cento, ma lui da tempo aveva smesso di far caso all’odore. Si sistemò più comodamente sul sedile, fissando un puntolino errante conficcato nell’oscurità, l’unica stella che non era una stella, ma qualcosa di infinitamente più piccolo, e di infinitamente più prezioso.
«Credo che siamo abbastanza vicini da poter iniziare il controllo.»
Gli giunse la voce di Bird Alyn, come al solito appena udibile, perfino nello spazio tranquillo che li separava. Shadow Jack deglutì un paio di volte, cercando di inumidirsi la gola per parlare. «Bene. Comincia pure l’analisi.»
Lei protese la mano destra, tenendo la sinistra inabile sollevata in aria, e programmò il computer da ricognizione che avrebbe iniziato una nuova analisi. Shadow Jack osservò le lunghe dita dalle unghie sporche e spezzate che si muovevano sulla tastiera scintillante, poi guardò per la decimillesima volta la cabina squallida e soffocante; e ancora gli parve un miracolo essere riuscito a trasformare quel guscio di rottami di ferro saldati fra loro in una nave che rivaleggiava con la bellezza tecnologica dell’unità da ricognizione. Quasi per scusarsi, ripulì con la manica sfilacciata le impronte digitali sul pannello lucido. L’unità di ricognizione era il bottino di un’opera di recupero, una cosa più preziosa della sua stessa vita, poiché offriva al suo intero mondo un’occasione di sopravvivenza. Prima della guerra civile era stata un’unità di ricerca programmata per l’analisi laser e radar dei metalli, delle sostanze organiche e dei gas volatili degli asteroidi. Adesso analizzava le cose vecchie invece di quelle nuove, frugando in mezzo ai rifiuti della morte in cerca di prodotti lavorati e allungando così la vita di coloro che erano ancora vivi. Insieme a Bird Alyn osservò pazientemente il quadro indicatore, studiando le cifre che prendevano forma sullo schermo lucido e piatto…
«Niente» disse Bird Alyn. «Nessun riflesso metallico, nessuna radiazione, nessun gas di scarico lungo la superficie… niente, niente, niente. Là dentro non c’è mai stato essere vivente…»
«Sempre niente!» Diede un colpo contro il vetro spesso e scuro dell’oblò, quasi a voler colpire un universo che sfuggiva al suo controllo.
«Andrà meglio la prossima volta, forse. E poi può darsi che qualcun altro abbia trovato ciò che serve. La nostra non è l’unica nave…» La sua voce si affievolì.
«Lo so!» L’esclamazione fu così violenta da ferire i suoi stessi orecchi. Sollevò le mani, quasi per scusarsi. «Mi spiace. Ho la testa che mi scoppia.»
«Anch’io.»
Lui la guardò. Non era un rimprovero: i suoi occhi cerchiati di rosso erano dolci, prima che lei li abbassasse e l’arruffata matassa dei suoi capelli castani li nascondesse alla vista. Il naso era spruzzato di lentiggini, castane anch’esse, come i capelli e gli occhi e il colorito del volto, ma più scure. «Pensi che ci sia dell’acqua?»
«Ora vedo.» Si sganciò la cintura di sicurezza e galleggiò via dal sedile, spingendosi contro il pannello con un piede nudo. Raggiunta la parete alle loro spalle, lesse la misura sull’alambicco. «Sì, ce n’è ancora un po’.» Udì Bird Alyn che sospirava mentre lui premeva il beccuccio sul sifone della tazza; aspettò finché si fu riempita. «Quattro litri.» Sospirò anche lui.
Bevvero entrambi a turno dalla cannuccia, assaporando la calda scipitezza dell’acqua; Bird Alyn allungò una mano per spegnere lo schermo, poi ebbe un attimo di esitazione, e si piegò in avanti. «È strano… guarda, la lettura è cambiata. Là fuori ci deve essere qualche altra cosa. Appare l’analisi retro-diffusa di qualcosa, più avanti. Metallo… bassa radioattività…» Il tono della sua voce crebbe finché lui riuscì a sentirla senza sforzo.
Shadow Jack strinse troppo la tazza e bolle d’acqua gli zampillarono fra le dita, scivolandogli lungo la mano. «Un relitto?»
Lei sfiorò rapidamente i comandi, e sullo specchio Matkusov dello scafo apparve un’immagine: un ago luminoso che trafiggeva l’oscurità stellata. «Un’astronave» bisbigliò la ragazza.
«Oh, è vero, guarda quel…»
«Non ho mai visto un’astronave simile…»
«Non ne è mai esistita una.»
«Non dopo la Guerra. Deve trattarsi…»
«Deve trattarsi… di materiale da recuperare.» Shadow Jack balzò in avanti, toccando la nave con il dito bagnato. «Ti reclamo, astronave! Con una nave come quella… con una nave come quella potremmo fare qualsiasi cosa!»
«Va alla deriva, senza propulsione, ma questo non significa che non ci sia vita a bordo… trovarla proprio qui, così vicina a Lansing…»
«Se non c’è vita, allora significa che è vecchia di oltre due gigasecondi. Qual è la nostra velocità relativa? Possiamo intercettarla?»
Le lunghe dita di lei posero la domanda, e gli strumenti risposero. «Sì!» Bird Alyn guardò in alto. «Se spingiamo al massimo, in quattro o cinque chilosecondi.»
«D’accordo.» Lui annuì. «Spingiamo.»
Attesero, presi nella ragnatela di un sogno privato, mentre l’ago luminoso si trasformava in un incredibile insetto dorato: triple antenne protese in avanti, raggi di una ruota invisibile, il corpo che si allungava nella parte posteriore, sottile come un filamento, e che terminava in un’ampia coda bulbosa, simile a una pera. Un miracolo… La parola gli brillò nella mente e, pur sapendo che i miracoli non esistevano, lui ci credette, quasi per sfida. Una nave che poteva procurare loro l’acqua per riempire le paludi, per restituire la vita alle erbe disseccate e agli alberi moribondi… al popolo moribondo di Lansing.
Con l’occhio della mente ritornò indietro nel tempo, e rivide i campi di Lansing dai limiti del cielo, dove aveva lavorato sospeso come una nuvola a cinquanta metri d’altezza, posando le toppe adesive per riparare la membrana plastica della tenda di protezione. Da qualche parte, sotto di lui, in mezzo al fragile paravento degli alberi, Bird Alyn curava i giardini… Come una visione della Vecchia Terra, lui la rivide attraversare i campi tinti di giallo dalla luce del crepuscolo, e corrergli incontro sollevandosi ad ogni passo come un uccello. Quando fossero riusciti a riportare indietro quella nave, tutto sarebbe andato bene… tutto.
Tornò a fissare Bird Alyn, la sua mano… tre dita deformi e insensibili, e un pollice; e sentì che lei se n’era accorta. Non tutto. Aggrottò la fronte, detestandosi per la sua impotenza, e lei distolse lo sguardo, come se quell’espressione dura fosse un atto d’accusa nei suoi confronti. Shadow Jack fissò la notte, e fece scrocchiare le nocche, ricordando perché non sarebbe mai andato tutto bene. Ricordò la voce rotta di suo padre che cercava di rassicurarlo, un terzo di vita prima… mentre se ne andava, lasciando il suo unico figlio seduto in mezzo all’erba, abbandonato alla luce fatale, e se ne tornava da solo nella protezione degli abissi rocciosi…