(SPAZIO DELLA DEMARCHIA)
Wadie Abdhiamal, negoziatore per la Demarchia, si mosse pigramente, strappato al sonno dallo squillo del telefono. Accese le luci quel tanto che bastava a distinguerne la sagoma e attivò il collegamento. «Sì?» Vide la faccia color mogano di Lije MacWong illuminarsi sullo schermo, e si tirò su dal letto, appoggiandosi a un gomito.
«Mi dispiace di averti svegliato, Wadie.»
Lui fece una smorfia. «Ci puoi scommettere.» A MacWong piaceva svegliarsi di buon’ora. Wadie diede un’occhiata all’orologio digitale alla base del telefono. «Qualcuno ha bisogno di un negoziatore a quest’ora della notte? La gente non dorme mai?»
«Spero che adesso dormano tutti… Sei solo?»
Wadie girò lo sguardo al disopra della sua spalla, e vide il fianco snello e abbronzato di Kimoni, con i neri capelli scompigliati. Poi tornò a guardare l’immagine di MacWong, e dalla disapprovazione nei suoi occhi azzurro-pallidi capì che già conosceva la risposta. Infastidito, ma senza darlo a vedere, Wadie rispose: «No, non lo sono.»
«Prendi il ricevitore.»
Wadie obbedì, togliendo il sonoro dal microfono generale. Ascoltò in silenzio, per i pochi secondi che occorsero a MacWong per dissipare definitivamente le nebbie del sonno. «Sarò lì il più presto possibile.»
Scese dal letto, quasi galleggiando nella scarsa gravità, e si recò in bagno per lavarsi e radersi. Quando ritornò, trovò Kimoni seduto nel letto con la trapunta tirata su fino al mento. Ammiccò con aria di riprovazione, mostrando il color lavanda delle palpebre.
«Wadie, tesoro…» con una punta di dispetto, «non è ancora mattina! Perché ti alzi già? Sono così noiosa a letto?» Con una sfumatura di disperazione.
«Kimoni.» Attraversò la piccola e confortevole stanza per baciarla lungamente. «Non devi dirmi cose simili. Il dovere mi chiama, e io devo andare… lo sai che detesto alzarmi presto. Soprattutto quando tu sei qui. Continua a dormire; tornerò a prenderti per andare a colazione… o a pranzo, se preferisci.» Mentre si abbottonava la camicia con una mano, con l’altra le accarezzò la guancia.
«Be’, d’accordo.» Kimoni scivolò sotto le coperte. «Ma non fare troppo tardi. Lo sai che a cinquanta chilosecondi devo fare compagnia a un cliente del caro vecchio Chang.» Sbadigliò. Aveva i denti bianchissimi e aguzzi. «Non capisco perché non ti trovi un lavoro decente. Solo un funzionario del governo potrebbe accontentarsi di una vita come la tua… o sarebbe costretto a farlo.»
O una geisha…? Continuò a vestirsi, senza esprimere il pensiero a voce alta, sapendo che lei non aveva altra scelta, e che quindi ricordarglielo sarebbe stato inutile e privo di tatto. Una donna sterilizzata per difetti genetici aveva ben poche opportunità davanti a sé, in una società che vedeva nella donna soprattutto una madre potenziale. Se fosse stata sposata a un uomo comprensivo, disposto a farsi procurare degli eredi da una madre a contratto, lei avrebbe potuto continuare a condurre una vita normale. Ma una donna divorziata per sterilità — o una donna sterile non sposata — aveva soltanto due alternative: svolgere un’attività servile e sgradevole, esposta alle radiazioni emanate dalle nocive batterie atomiche postbelliche, oppure lavorare come geisha, intrattenendo i clienti di una corporazione. Era prostituzione, ma veniva accettata. Una geisha aveva pochi diritti e ancor meno considerazione, tuttavia poteva contare sulla sicurezza, su un ambiente confortevole, bei vestiti e denaro a sufficienza da garantirle una vecchiaia serena. Era una vita sterile, ma la sterilità fisiologica le lasciava poca scelta.
Conoscendo l’alternativa, Wadie si asteneva sia dal disprezzo che dal biasimo. E spesso gli veniva in mente che, lavorando per il governo, lui aveva scelto una carriera che la maggior parte della gente rispettava ancor meno dell’aperta prostituzione… una carriera che aveva reso la sua vita privata altrettanto sterile di rapporti profondi quanto quella di una qualsiasi geisha. Guardò nello specchio, oltre la sua immagine riflessa, e scorse Kimoni che si era già riaddormentata, con un braccio allungato verso la metà vuota del letto. Lui non aveva figli, né moglie. La maggior parte delle donne che frequentava erano come Kimoru, geishe in cui s’imbatteva negoziando le dispute per le corporazioni che se ne servivano. Finché era impegnato nella sua missione Wadie le evitava, come ogni cosa che potesse anche lontanamente esser considerata strumento di corruzione. Ma quando erano libere, le geishe amavano scegliersi il proprio accompagnatore, e lui aveva abbastanza denaro da offrir loro delle ore piacevoli.
Raramente, però, si fermava in un posto abbastanza a lungo da conoscere bene una donna; e le poche donne normali che aveva conosciuto lo avevano tutte annoiate con una conversazione insulsa e prolungata, e con la loro infinita civetteria.
Wadie si pettinò all’indietro i capelli neri e ricci, e sistemò con cura sulla testa il berretto floscio. Si vestiva sempre con molta meticolosità, anche all’alba, come del resto ci si attendeva da lui. Prese un anello d’argento tempestato di rubini e se lo infilò sul pollice. Gli era stato donato in segno di gratitudine da due persone che aveva aiutato molti megasecondi prima, una coppia di coniugi ricercatori. Si ricordava ancora di quella donna: una donna pilota piena di salute, che aveva scelto di farsi sterilizzare per recarsi nello spazio. L’ultima cosa che si potesse immaginare di una donna, senza dubbio, perché nessuna vera donna avrebbe rifiutato di sua volontà una casa e una famiglia. Una creatura stravagante, ostinata, ipocrita e presuntuosa, una donna spostata e priva di sentimento. Eppure il suo compagno l’aveva sposata. Ma anche lui era uno strano tipo: un pubblicitario — un bugiardo di professione — con degli scrupoli. Non c’era da stupirsi che ambedue avessero scelto di trascorrere il resto della loro vita nel bel mezzo del nulla, alla ricerca di rottami da recuperare sui mondi in rovina.
A quel ricordo Wadie scrollò il capo, guardando nello specchio, nel passato. Si domandò di nuovo, come aveva già fatto in precedenza, quale bizzarra alchimia li avesse messi insieme, e continuasse a tenerli uniti. E si domandò brevemente, quasi con invidia, perché quell’alchimia non avesse mai funzionato su di lui. Si strinse nelle spalle e s’infilò la larga giacca color verde foresta, abbottonandosi l’alto colletto sopra i disegni di seta ricamata. Che diavolo, aveva millecentocinquanta megasecondi «trentotto anni, secondo il computo del Vecchio Mondo — gran parte dei quali trascorsi a risolvere i problemi degli altri, a vivere la vita degli altri invece della sua. Se a questo punto non trovava una donna disposta ad accettarlo così com’era, oppure una donna che gli facesse dimenticare tutto il resto, non ci sarebbe mai più riuscito. Non era più tanto giovane; se voleva un figlio, non poteva permettersi di aspettare troppo a lungo. Una volta concluso quell’incarico avrebbe preso in affitto una madre a contratto che gli desse un figlio e lo allevasse mentre lui era lontano. Rivolse un’ultima occhiata alla ragazza addormentata, poi uscì dall’appartamento richiudendo la porta senza fare rumore.»
Wadie lasciò l’ombra del palazzo sbadigliando con discrezione e si avviò verso la piazza tranquilla. Cominciava appena a fare giorno; la luce delle lampade fluorescenti imitava quella dell’alba sul finto cielo del soffitto, dieci metri sopra la sua testa. Le suole magnetizzate dei suoi stivali lucidi ticchettavano debolmente sul metallo levigato della piazza, aggiungendo sicurezza alla leggera gravità artificiale del planetoide Toledo. La superficie della piazza si curvava lungo l’interno di un massiccio blocco cavo di acciaio, rinvenimento di un ricco minatore e casa ben solida, ma che stava incominciando sgradevolmente a mostrare i segni dell’età. L’argentea filigrana geometrica di purissimo acciaio sotto i suoi piedi era stata una volta protetta da una sottile pellicola coesiva, ma ora che questa si era consumata si vedevano chiare tracce di ossidazione. Wadie seguì con gli occhi i sentieri rugginosi, di un color rosso scuro sotto le prime luci, che attraversavano la piazza e giungevano lungo il muro rococò, anch’esso ossidato, fino all’ingresso del centro governativo. Sintomi di una malattia più profonda… qualcosa di simile al panico gli strinse la gola; come d’abitudine respirò a fondo e si ritrasse dal ciglio dell’abisso, dal dover ammettere che quella era una malattia senza rimedio. Si diresse verso il centro, sistemandosi i merletti dei polsini. Vivere bene è la miglior difesa, pensò amaramente.
All’interno lo attendeva Lije MacWong. Ufficialmente Wadie lavorava per i cittadini della Demarchia; in realtà lavorava per MacWong. MacWong, la Scelta del Popolo: la democrazia assoluta della Demarchia era un mare ignoto sotto la fragile imbarcazione del governo, e aveva inghiottito innumerevoli rappresentanti sconsiderati. Ma MacWong si muoveva istintivamente sull’onda dell’opinione popolare, a volte rischiando addirittura di sviare tale opinione per adattarla alle sue visioni personali delle necessità del popolo. Lui ne svolgeva i compiti, e faceva in modo che a loro piacesse. Di tanto in tanto Wadie si domandava quale fosse il segreto di MacWong; e poi si chiedeva se davvero gli interessasse saperlo. «Pace e prosperità, Lije.»
Quando Wadie entrò nell’ufficio, MacWong sollevò lo sguardo, mostrando gli azzurri occhi gelidi e tranquilli sul volto abbronzato. «Pace e prosperità, Wadie.» Sì alzò in piedi, restituì l’inchino formale, e si allontanò con riluttanza dal suo acquario.
Wadie guardò oltre, cercando di vedere i pesci: tre oggetti dorati e scintillanti non più grossi di un dito, con le code leggere e iridescenti, che si muovevano sinuosamente tra le alghe marine nell’acqua illuminata di verde. I pesci dorati erano le uniche creature non umane che lui avesse mai visto e, per quanto ne sapeva, MacWong li stava ancora pagando. Si tolse il cappello, e lo osservò mentre si afflosciava accanto a quello di MacWong, sopra la scrivania. «Con tutto il dovuto rispetto, credo che questa notizia di un Messaggio Misterioso dallo Spazio Esterno sia genuina, e io non sono qui perché a te piace vedermi soffrire.» Affondò lentamente nella poltrona neocoloniale della scrivania di MacWong, lisciandosi le pieghette sulla giacca.
«Mettiti pure seduto.» MacWong gli rivolse un sorriso tollerante. «Il “messaggio” è genuino. Non ho intenzione di mostrarti filmetti per passare il tempo.» Si chinò attentamente verso l’angolo della sua scrivania, evitando l’affresco di argentee teste d’animale, e fece scattare un interruttore sul pannello comunicazioni. Non successe nulla. «Dannazione.» Sollevò un fermacarte di platino a forma di gatto in procinto di scattare e lo sbatté sul pannello. L’impatto non fu particolarmente violento, ma la proiezione murale Kleinfelter sulla parete più lontana scomparve e venne sostituita dall’immagine di un volto femminile. «Non so cosa farò se questa scrivania smetterà di funzionare. Non le costruiscono più come una volta.» Rimise delicatamente a posto il fermacarte.
«Non le costruiscono più per niente, Lije.» Wadie seguì con le dita le volute ricamate sulla parte anteriore della sua giacca, e s’immobilizzò quando sollevò gli occhi verso lo schermo. «Un ologramma? Dove l’hai trovato, MacWong?»
«L’abbiamo captato dall’aria, o dallo spazio, se preferisci, trenta chilosecondi fa’. È una vera e propria trasmissione ologrammica; ci abbiamo messo dieci chilosecondi per accorgercene. E non è orientata. Pensa alla potenza e all’ampiezza d’onda che richiede una cosa del genere! Non conosco nessuno che sia più disposto a farlo, ormai.»
«Non sono in molti a poterlo fare…» Wadie si interruppe, osservando e ascoltando mentre la voce della donna cresceva di tono. La sua carnagione era talmente pallida da sembrare priva di colorito, così come i suoi capelli tagliati corti e svolazzanti; il volto era lungo e angoloso. Indossava una camicetta sbiadita aperta sul collo, e non portava gioielli. Doveva essere sui trentacinque, giudicò Wadie, e non sì sforzava minimamente di nasconderlo; era tanto scialba da far pena. Se ne disinteressò, concentrandosi unicamente sulla sua voce. Parlava in Anglo, ma con un accento non familiare; nella sua bocca le parole più comuni sembravano possedere delle sillabe in più.
«…fatevi riconoscere nuovamente, prego. Non ci eravamo resi conto che stavamo violando il vostro spazio. Non proveniamo, ripeto non proveniamo, dal vostro sistema; noi…» Venne interrotta da un rumore appena udibile sulla registrazione; Wadie vide la sua pelle esangue arrossarsi per l’ira, e i suoi occhi indurirsi come zaffiri. Diede un’occhiata a MacWong.
«La marina degli Anellani» disse quest’ultimo. «La loro trasmissione andava nella direzione opposta. Questo è tutto ciò che abbiamo captato.»
La donna guardò fuori dallo schermo, e pronunciò delle parole che lui non riuscì a udire, parole offensive, gli parve; ma la sua voce ritornò sicura appena lei si volse di nuovo verso lo schermo. «Questa non è una nave dei Cinturani, non siamo “Demarchisti”, e non abbiamo commesso nessun atto di “pirateria”. Voi non avete nessuna autorità sulla mia nave; il permesso di salire a bordo è negato. Ma se ci fornirete le coordinate del vostro…»
Venne interrotta nuovamente; Wadie vide la tensione crescere sul suo volto, irrigidendole i lineamenti. «Noi non siamo armati…» E poi, con fermezza: «Ma neghiamo il vostro “diritto di sequestro”. Pappy, fai…» Si girò ancora, e la sua immagine venne spezzata in due da una scarica elettrica rossa. Wadie continuò a vederla per un altro mezzo secondo, poi lo schermo divenne bianco.
«Allora?»
Wadie allentò la stretta delle mani sulla sagoma metallica della poltrona. «L’hanno distrutta? Tutto qui?»
MacWong scrollò il capo. «La nave è stata colpita, ma è riuscita a sfuggire agli Anellani… escluso uno. Abbiamo seguito in parte ciò che è successo dopo; quella nave aliena ha un motore stellare, e quando uno dei vascèlli Anellani lanciato all’inseguimento si è avvicinato troppo, quella donna si è servita dei gas di scarico per ridurlo a un ammasso di rottami liquefatti. Forse quella sdegnosa Regina Vichinga non è armata, ma è pericolosa.»
Wadie non disse nulla, aspettando il seguito del discorso.
«Non sappiamo dove si trovi adesso la nave, e nemmeno perché sia qui. Ma ho qualche idea in proposito. Lei ha detto di provenire dallo spazio esterno, e io le credo. Nessuno nella Cintura possiede più nulla di così sofisticato. E poi il fatto che sia guidato da una donna… in particolare da una donna che sembra…»
«Forse è un’albina… forse proviene dalla Cintura Principale. I recuperatori non si preoccupano di chi va nello spazio; e comunque non hanno nessuna protezione contro le radiazioni. Può darsi che siano stati molto fortunati, nella loro opera di recupero.» Però sapeva che MacWong aveva ragione, che quella donna e il suo accento erano troppo alieni.
MacWong lo guardò. «Nessuno è così fortunato. Cos’è che non va, Wadie, ti sembra un miracolo eccessivo? Questa non è la fantasia di qualche pubblicitario, credi a me. Quella nave proviene dall’Esterno, il primo contatto che abbiamo avuto con il resto dell’umanità da più di tre gigasecondi. E la rotta che hanno seguito dagli Anelli potrebbe condurli alla vecchia capitale, Lansing. Se le cose stanno così, può esserci solo una spiegazione circa la presenza di quella nave: non sanno niente della Guerra Civile. Sono venuti su Paradiso credendo di trovare strade lastricate d’oro, e quando si renderanno conto che non ne esistono più se ne andranno via per sempre. Non possiamo permettere che ciò accada…»
«Che bene potrebbe farci ormai una sola nave?» Wadie fissò la parete bianca, e suo malgrado sentì un’altra domanda prender forma ostinatamente dentro di sé.
«Quella nave potrebbe farci un mondo di bene.» MacWong prese il suo gatto di platino. «Quella nave è un tesoro, quella nave è potenza… quella nave potrebbe salvarci.»
Wadie annuì, ammettendo fra sé che l’immenso reattore a fusione della nave sarebbe bastato da solo per consentire alla Demarchia di gettare le basi di una ricostruzione industriale su larga scala. E Dio solo sapeva quali altri prodigi tecnologici — e funzionanti — potevano trovarsi a bordo. Il semplice possesso di una nave come quella poteva dare una svolta decisiva al commercio di neve della Demarchia con gli Anelli. Avrebbero potuto addirittura fare a meno di Discus e degli Anellani, e impiantare delle proprie distillerie sulle lune di Sevin…
Per quanto riusciva a ricordare, Wadie aveva sempre visto intorno a sé i segni di una società che gradualmente si era andata lacerando in corrispondenza delle linee di giunzione, sentendosi solo in quella terra desolata che la Cintura di Paradiso era divenuta a causa della guerra civile. In virtù della sua collocazione periferica, la Demarchia era uscita dalla guerra civile relativamente intatta. Ma la Cintura Principale era stata distrutta, e ora l’unico contatto commerciale che la Demarchia aveva con l’esterno era quello con la Grande Armonia degli Anelli di Discus, e gli Anellani riuscivano appena a sopravvivere. La Demarchia era anch’essa sul punto di precipitare insieme agli altri, ma dal momento che la strada del declino era ancora lunga, Wadie si era accorto che nessun altro sembrava aver intuito la verità. Erano accecati dal fiero, tradizionale egocentrismo che era stato la forza della Demarchia… e che adesso, forse, ne era la fatale debolezza.
Lui era diventato negoziatore nella speranza di guarire le ferite che il suo popolo si era inflitto da solo. Aveva creduto che in qualche modo l’elemento unificante, il comune legame del bisogno che univa ogni essere umano, potesse essere usato come una forza contro la disintegrazione e il decadimento; che la Demarchia sarebbe sopravvissuta; che essi avrebbero trovato una risposta. E adesso quella nave… La sua fantasia fece un balzo, per poi ricadere nel momento in cui la domanda tornò a colpirlo: chi avrebbe controllato una nave del genere… e chi avrebbe controllato i controllori? «Ma, come hai detto, quando vedranno ciò che è rimasto di Lansing, quelli ritorneranno in patria.»
«Può darsi.» MacWong si tolse qualche granello di polvere dal polsino. «Ma Osuna ritiene che forse hanno prima bisogno di fare rifornimento. La strada di casa è lunghissima per chiunque, da qui. Non è probabile che ritornino sugli Anelli per rifornirsi, date le circostanze. Il che significa che potrebbero venire da noi; se hanno bisogno di idrogeno trattato, non c’è altro posto dove possono andare. Perciò sto distaccando tutti gli uomini disponibili. Voglio che tu vada su Mecca. Le distillerie ne fanno un obbiettivo primario, e tu hai più esperienza di ogni altro membro del personale nel trattare con gli… alieni.»
Wadie accettò il tacito complimento e la tacita ripugnanza, ricordando i cinquanta milioni di secondi trascorsi nella Grande Armonia degli Anelli di Discus e tutte le cose viste lì, cose che non avrebbe mai immaginato di vedere. Si alzò in piedi, allungando la mano per prendere il cappello. «E se non hanno voglia di negoziare?»
«Non mi aspetto che ce l’abbiano. Ma questo non importa; tu sei pagato per fargliela venire. Prometti loro quello che vuoi, ma tienili lì, blocca la nave finché potremo assumerne il controllo.»
Wadie si aggiustò il berretto guardandosi nella parete a specchio. «Cosa intendi dire con quel “potremo”, Lije? Chi controllerà quella nave? Non sarà il governo, ci penserà il popolo. E il primo ragazzetto più intraprendente degli altri che se la ritroverà fra le mani…»
MacWong non ne fu divertito. «A volte mi domando se non hai passato troppo tempo con gli Anellani, Abdhiamal. Dannazione, Wadie, non metto più in dubbio la tua lealtà, dopo duecento megasecondi. Ma c’è chi lo fa ancora, e pensa che forse ti piacerebbe davvero vedere un governo centralizzato.» Si interruppe. «Quando avremo la nave ci sarà una riunione generale per risolvere la faccenda.» Si piegò in avanti al disopra della scrivania dai bordi sporgenti. «La Demarchia deve avere quella nave, e nessun altro al di fuori della Demarchia.»
«Il capo sei tu» replicò Wadie con un inchino.
«No.» MacWong si raddrizzò. «Il capo è la Demarchia. Noi diamo al popolo ciò che il popolo ritiene di volere. Nient’altro ha significato. Dimenticatene, e abbiamo perso il posto… o peggio. Fossi in te, non me ne dimenticherei mai.»
Sapendo che MacWong non se ne scordava mai, Wadie lasciò l’ufficio.