RANGER 2,40 MEGASECONDI

(IN TRANSITO DALLA DEMARCHIA A DISCUS)

Betha sedeva da sola davanti al quadro comandi nella semioscurità carezzevole, fissando la luminosa, ininterrotta corrente di traffico televisivo della Demarchia, silenziosa per sua stessa scelta, che ancora li inseguiva, lontana duecento milioni di chilometri. Presa nell’incantesimo di una reazione ipnotica, si stupiva per il moto perpetuo dei mezzi di comunicazione della Demarchia, domandandosi come potesse ciascun cittadino — demarca? — prendere una sana decisione sotto lo strepito costante di un centinaio di diverse distorsioni della realtà. Ricordando i pubblicitari incontrati sul campo d’atterraggio di Mecca, lei avrebbe dovuto saperne abbastanza da prestare fede a Wadie Abdhiamal e lasciarlo parlare…

All’improvviso interruppe la trasmissione e fece apparire sullo schermo la mezzaluna di Discus. Vide con gli occhi della mente il Ranger, un minuscolo puntolino, solo in mezzo ai cinquecento milioni di chilometri di sterile oscurità, che ripercorreva a ritroso l’itinerario di Discus intorno al sole da quell’isolato sciame di rocce che era la Demarchia. Poi si ricordò che non erano del tutto soli. Ampliando la sua visione mentale, vide le grottesche e ponderose navi da carico ripiene di minerali o di gas volatili che annaspavano nel mezzo della desolazione, navi che impiegavano cento giorni per coprire un percorso che il Ranger copriva in sei giorni. Si trattava ormai di un abisso difficilmente colmabile; e da ciò dipendeva la sopravvivenza della Demarchia, e degli Anelli. E un giorno non ci sarebbero state più navi…

Ma adesso, seguendo la nebbiolina violetta dei gas di scarico del Ranger, lei individuò a fatica sui più sensibili strumenti della nave quelle che avrebbero potuto essere tre navi a fusione.

Maledì la Demarchia, l’ossessiva maschera della sofisticazione, l’allegria artificiale, l’inutile spreco delle trasmissioni informative. Erano degli sciocchi, che si trastullavano con la loro fanatica indipendenza quando avrebbero dovuto lavorare tutti insieme, che tendevano a un’egoistica autosufficienza senza un governo stabile che li tenesse a freno, senza onesti legami di parentela, ma con l’anonimo individualismo di ciascun cittadino… E le loro donne: inutili, frivole, vistose, lo spreco finale in una società che aveva un disperato bisogno di ogni risorsa, comprese quelle dell’uomo.

Frammenti di conversazione si ricomposero nella sua mente, e lei ricordò all’improvviso quello che aveva detto Clewell a proposito di Bird Alyn e della sua deformità. Forse in un certo senso esse costituivano una risorsa, donne sane e fertili che dovevano essere protette, in una società dove i livelli di radiazioni erano sempre alti in modo anormale; donne che avevano fatto della protezione un modo di vita artificiale come ogni altra cosa nel loro mondo… Forse il rischio del danno genetico era alla radice di tutte le incomprensibili involuzioni delle loro abitudini sessuali. La gente disperata fa cose disperate; anche il popolo di Mattino, all’inizio…

Si girò leggermente sul sedile per osservare Shadow Jack che giaceva addormentato sul pavimento, perduto in un sogno sereno, con un libro illustrato di Mattino aperto accanto a lui. Se quelle erano misure disperate, per la Demarchia; si domandò Betha, come si sarebbe comportato Lansing? Con la mano si carezzò nervosamente gli anelli, mentre Wadie Abdhiamal entrava nella sala.

«Capitano.» Si inchinò come di consueto, e lei rispose con un cenno del capo, osservandolo mentre sì avvicinava: il demerca perfetto, obbligatoriamente educato, obbligatoriamente impeccabile. E goffo come un bambino che muovesse i primi passi, sotto il peso di una gravità. Aveva un volto sofferente, che recava i segni della tensione e della perdita di fluidi. Betha ricordò di averlo visto utilizzare l’acqua potabile per lavarsi la faccia, sul Lansing 04, convinto che nessuno se ne accorgesse… Lei si ravviò distrattamente i capelli. «Ha trovato tutto ciò che le occorreva, Abdhiamal? Ha mangiato?» Wadie non si era unito agli altri, quando avevano mangiato insieme in sala da pranzo.

Lui sì sedette. «Sì… qualcosa. Non so cosa.» Al ricordo sembrò sentirsi poco bene. «Temo di avere qualche problema, con il cibo.»

«Come si sente?»

«Ho nostalgia di casa.» Lui rise, disprezzandosi da solo, quasi avesse detto una bugia. Poi fissò lo schermo vuoto. Rusty si materializzò sulle sue ginocchia e gli si accoccolò in grembo, coprendosi il naso con la coda. Lui gli accarezzò il dorso con la mano scura, quasi meticolosamente; Betha notò sul pollice il grosso anello d’argento tempestato di rubini.

«Mi dispiace.» Betha estrasse la pipa dalla tasca laterale dei jeans, rassicurandosi al contatto delle sue mani con la familiarità del legno intagliato.

«Non deve.» Si spostò, e Rusty protestò lamentosamente, drizzando la coda. «Perché lei aveva ragione, capitano; e io ho fatto la scelta giusta, venendo con lei. Non si può permettere alla Demarchia di impadronirsi della sua nave; nessuno nella Cintura di Paradiso può… io non sto dicendo che a causa di quello che mi è successo…» Qualcosa nella sua voce le disse che non era del tutto sincero. «Ho sempre saputo, fin dal primo momento in cui ho sentito parlare di questa nave, che troppa gente si sarebbe fatta prendere dalla smania di sentirsi un dio.» Wadie alzò gli occhi. «Anche se non è mio diritto, consegnerei ancora la sua nave alla Demarchia, ammesso che me ne capitasse la possibilità… e se fossi convinto che li salverebbe. Ma non è così. Il governo è troppo debole, e adesso non sarebbe mai capace di mantenere l’equilibrio.» Le sue dita affondarono nei soffici braccioli della sedia. Il suo viso non tradiva nessuna emozione. «Perciò le dico questo: l’aiuterò a uscire da questa situazione, nel modo che potrò. Farò tutto ciò che posso, le dirò tutto ciò che lei vuole sapere. Sarà il mio ultimo servizio per la Demarchia: guadagnare loro un altro po’ di tempo e salvarli da se stessi.» I suoi occhi si fissarono su Discus, sullo schermo. «Se devo essere un traditore, almeno reciterò bene il mio ruolo. Per me, il lavoro è una questione di orgoglio.»

Betha smise di spiare ogni suo minimo movimento, rossa in volto. «Se davvero dice sul serio, Abdhiamal… io voglio il suo aiuto, quali che siano i suoi motivi personali. Ho bisogno di sapere tutto ciò che può dirmi sugli Anellani… specialmente il numero e la disposizione delle loro distillerie. Per quanto siano primitivi, bisognerà pur fare un piano molto accurato per rubar loro qualcosa con un’astronave disarmata… E poi, come dice lei, finora non me la sono cavata troppo bene. È sempre stato Eric l’esperto in strategia… io non ci ho mai capito molto.»

«Al contrario. È stata proprio lei che ci ha giocato con molta abilità, su Mecca.» Dietro il suo sorriso c’era una certa ironia. «Credo di poterle dare delle coordinate piuttosto precise; ho trascorso un bel po’ di tempo sugli Anelli, circa duecentocinquanta megasecondi fa’, quando li aiutammo ad ampliare la loro distilleria principale. In realtà, io…» Improvvisamente si interruppe. «Mi parli di Mattino, capitano. Mi dica in che modo funzionano le cose da voi. Mi sembra che lei non approvi molto il nostro modo.»

Betha studiò le parole, cercando di trovare la ragione di quell’improvviso cambiamento di discorso; era soltanto certa che a lui non interessava una risposta, ma solo sviare l’argomento. E anche a me. «No, non posso dire di approvarlo, Abdhiamal. Ma questi sono problemi della Demarchia, tranne quando intralciano la mia strada… immagino che dal vostro punto di vista possiate accusarci di enfatizzare troppo i vostri vincoli di parentela, come esseri umani ma soprattutto come consanguinei. Lei già conosce la nostra unità familiare a matrimonio multiplo.» Betha sollevò gli occhi; quelli di lui rimasero inespressivi, ma lei avvertì il suo disagio. «Al disopra c’è il nostro “clan”» non nel senso tecnico del Vecchio Mondo, a parte il fatto che ti dice chi non puoi sposare «i parenti veri e propri, i fratelli e le sorelle, i figli. Tutti i rapporti vanno aldilà di ciò… fin quasi all’infinito, a volte. Tutti noi cerchiamo di prenderci cura di noi stessi; su Mattino ognuno ha dei parenti da qualche parte… Solo che una persona non disposta a dividere il suo lavoro, si accorge che anche i suoi parenti non sono contenti di dividere in eterno la ricompensa.»

“L’unica struttura sociale formalizzata al disopra del livello del clan è quella che noi chiamiamo “emisfero”…”. «Betha perse il suono della sua voce e perfino la dolorosa consapevolezza della presenza di Abdhiamal; vividi ricordi riempirono di improvviso tormento gli spazi fra le sue parole. L’emisfero di Borealis: un’arbitraria unità economica per la distribuzione delle merci e dei servizi. L’emisfero di Borealis: la sua casa, il suo lavoro, la sua famiglia, il suo mondo… una bambina ridente (sua figlia, o forse lei stessa) che camminava all’indietro per lasciare sulla neve le impronte di un angelo.»

«Le nostre industrie sono gestite in maniera autonoma, come le vostre… ma immagino che voi le definireste “monopolistiche”. Esse collaborano non per i profitti, ma perché devono farlo per non fallire. La cosa funziona perché noi non abbiamo mai qualcosa in quantità sufficiente, soprattutto le persone. I miei parenti stretti e la maggior parte di quelli acquisiti lavorano in una fattoria arboricola nell’emisfero di Borealis… Anche mia moglie Claire lavorava lì. Alcune famiglie si specializzavano nel commercio, ma Clewell e io e i nostri coniugi ce la cavavamo un po’ in tutto…» Ricordò la fine del giorno nel crepuscolo infinito, la famiglia seduta insieme intorno al lungo tavolo di legno scuro, mentre i loro figli servivano la cena. II carezzevole calore del fuoco, il tramonto che non svaniva mai dal lucernario di una casa semisotterranea, la piccola conversazione sui piccoli trionfi del giorno, la confortevole stanchezza… il ritorno a casa, salutato da tutti, di qualche coniuge che era stato trattenuto lontano per lavoro, dopo giorni o magari settimane. Eric, di ritorno dall’arbitrato di una contesa portata per le lunghe…

La donna fissò Wadie Abdhiamal, che era tornato ad appoggiarsi allo schienale della sua sedia, nella sala comandi del Ranger. Un negoziatore… Appiano le dispute, elaboro gli accordi commerciali… Abdhiamal riprese a guardarla con un’espressione leggermente perplessa. Lei scosse la testa. Basta! Basta con queste sciocchezze! «Io… io me ne ero quasi dimenticata; abbiamo anche un Alto Consiglio. È una specie di parlamento formato da funzionari dei diversi emisferi eletti per periodi di servizio. Esso si occupa di quel piccolo commercio interplanetario che riusciamo ad avere, e delle spedizioni di emergenza. È stato il Consiglio a proporre il nostro viaggio su Paradiso. Ma non ha molto a che fare con le nostre vite quotidiane…»

«Allora in un certo senso anche voi, come noi» disse Abdhiamal, «siete privi di un forte governo centrale e con una spiccata tendenza all’indipendenza…»

«No.» Lei scosse di nuovo la testa, negando qualcosa di più che le parole. «Noi siamo come una famiglia. Affrontiamo le cose con la collaborazione, non con la competizione come fa la Demarchia. Il vostro sistema è un paradosso: l’individuo ha un controllo assoluto, eppure non ne ha affatto, se il suo giudizio non coincide con quello della maggioranza. Noi collaboriamo e troviamo comunque forme di accordo perché ciascuno di noi sa esattamente ciò che occorre a sé e agli altri per sopravvivere… E considerando la posizione in cui si trova adesso la Demarchia, direi che non può nemmeno permettersi di continuare ad anteporre il suo interesse a ogni altra cosa.»

Abdhiamal sbatté le palpebre, come se le parole di lei lo avessero colpito in faccia, ma poi si limitò ad alzare le spalle. «È inutile dire che noi non ci vediamo in questa prospettiva. Immagino che la sua idea della collaborazione sia più vicina a quella degli Anellani della Grande Armonia.» Non c’era sarcasmo nelle sua parole. «Essi esaltano la collaborazione sopra ogni altra cosa perché non possono farne a meno; dopo la guerra non hanno avuto la stessa fortuna della Demarchia. Però hanno uno stato socialista e una forte marina; ottengono la collaborazione con l’ausilio delle armi, e non si tratta di una collaborazione vera e propria. È per questo che sono messi al bando, almeno per quanto riguarda la Demarchia. Non si fidano della natura umana individuale, anche se è sostenuta dai legami familiari.»

Betha dovette lottare per reprimere un improvviso, irrazionale risentimento. «Finora ha funzionato abbastanza bene. Ma noi non uccidiamo gli stranieri che si rivolgono a noi per aiuto.»

«Forse non ne avete mai avuto un motivo sufficientemente valido, capitano.»

La donna s’irrigidì. Sul volto di lui apparve all’istante un’espressione di scusa, dietro la quale lei vide un riflesso del suo stesso disorientamento, la frustrazione di uno straniero intrappolato in un universo alieno. Era un uomo senza famiglia… e adesso senza amici, senza mondo, senza futuro. Betha ebbe il forte sospetto che Wadie non fosse il tipo d’uomo abituato a commettere errori… a dividere un fardello, o una vita… non Eric.

«Mi dispiace, capitano. La prego di accettare le mie scuse.» Abdhiamal ebbe un attimo di esitazione. «E… mi consenta di farle le mie scuse anche per la mia mancanza di tatto dopo l’assemblea generale.»

«Capisco.» Lei vide negli occhi dell’altro un senso di fastidio e si alzò, prima di accorgersi che il fastidio diventava bisogno. «Se vuole scusarmi…» Si allontanò, in cerca di una via d’uscita. «Io… devo andare da Clewell… giù in sala macchine.»

«Le dispiace se vengo con lei?» La sua voce la sorprese.

Esitò, bloccandosi in mezzo alla sala. «Be’, io… no, perché dovrebbe dispiacermi?»

Wadie si alzò, posando Rusty al suolo. Il gatto balzò via, con il pelo dritto, e attraversò la sala fino al punto in cui c’era Shadow Jack ancora addormentato, con il viso sepolto nel cuscino. Rusty si accucciò accanto a lui, con una zampa screziata distesa con gesto di protezione sopra le sue dita piegate.

«Povero Rusty.» Betha abbassò gli occhi. «È così solo, da quando… Era abituato ad avere molte attenzioni.»

«Su Mecca avrebbe potuto avere tutte quelle che voleva.»

«Sarebbe stato adorato. Non è la stessa cosa.»

Betha scese lungo la scala a spirale fino al livello inferiore e lo attese sul pianerottolo. Wadie affrontò ogni scalino con dignitosa ponderatezza, mentre le ginocchia sembravano voler cedere e la sua mano si afferrava alla ringhiera quasi con disperazione. Si fermò accanto a lei con studiata noncuranza, guardando più in basso, oltre il parapetto di legno levigato; il pozzo delle scale si estendeva per altri quattro livelli, perforando lo scafo nel senso della lunghezza. Sul fondo si vedevano i cerchi concentrici di un passavivande.

«È un buon esercizio.» Betha era in piedi contro la parete, ed evitava di guardare il pozzo.

Lui si ritrasse con un sorriso innocuo. La porta nella parete alle sue spalle era sigillata, ma la luce rossa penetrava ugualmente proiettando le loro ombre giù nel pozzo. «Cosa c’è lì dietro?» Con la mano accarezzò la superficie gelida della porta.

«Era la sala riunioni. È lì che sono morti tutti, quando lo scafo fu danneggiato. Non è pressurizzata; la prego, non tocchi nulla.» Distolse lo sguardo da lui, e si mise a fissarsi le mani. Poi prese a ridiscendere per le scale, lasciandolo indietro.

Raggiunta la sala macchine al quarto livello, udì il rumore stridente di una sega a mano. «Pappy!» gridò, e sentì l’eco del suo grido riverberarsi lungo tutta la sala.

«Sono qui, Betha!»

Lei individuò da dove proveniva la risposta e si mosse, con le suole di gomma delle scarpe che scricchiolavano debolmente sul legno. Il rumore secco e irregolare degli stivaletti lucidati di Abdhiamal si fece sempre più vicino, ma lei non si voltò a guardare.

«Gesù, Pappy, perché diavolo non usi la fresa? Clewell alzò gli occhi mentre loro si avvicinavano, fissando la serie di laser sopra il tavolo da lavoro.» Perché è un hobby.

«II che significa che tu te ne stai qui per ore e ore a spezzarti la schiena per fare qualcosa che con una macchina potresti fare in un minuto?»

«L’impazienza della gioventù!» Si chinò sulla sega e finì di tagliare il blocco di legno: il pezzetto cadde a terra. «Finito.» Si portò la mano al petto, poi vide che lei lo stava osservando, e allora se la portò al collo, detergendosi il sudore.

«Chi ti capisce…» Mani sui fianchi, Betha aveva l’aria addolorata. «Io… ehm, io credevo che stessi ricontrollando i miei calcoli per riparare il foro nello scafo.»

«L’ho fatto. Mi sembrano precisi. Ma per il momento non possiamo fare niente, finché restiamo a gravità uno.» La guardò con una faccia strana.

Abdhiamal si chinò per raccogliere l’estremità scheggiata del blocco di legno e sfiorò con la mano la superficie ruvida; sembrava quasi che avesse dimenticato tutto il resto. «Ehi, cos’è questa roba? È fibrosa.»

«È legno. Organico. Dai tronchi degli alberi» rispose Clewell. «Pseudoquercia, per essere precisi. È duro, ma si lavora bene.»

«Anche il pavimento? Tutta fibra vegetale… legno?»

L’altro annuì. «È più semplice che trasformarlo in plastica. La pseudoquercia cresce di due centimetri al giorno, nei pressi del Mare Boreale.»

Abdhiamal accarezzò con la mano la superficie incisa del tavolo di metallo, poi alzò lo sguardo verso la fresa e lo schermo protettivo. «Laser?» La sua mano si chiuse a pugno, mentre i suoi occhi frugavano la stanza, poi si riaprì e puntò un dito verso le ampie porte ricavate nello scafo e aperte direttamente sullo spazio… e verso gli elettromagneti fissati al soffitto. Betha vide che lui rispondeva da solo alle proprie domande inespresse. «E a cosa serve quell’attrezzatura lassù?»

Betha seguì la sua mano, rivedendo con gli occhi della mente il rosso Sean al lavoro, intrepidamente goffo, e Nikolai, paziente, alla guida. Distolse lo sguardo. «Microcircuiti per la riparazione dei nostri strumenti elettronici.»

«Voi avete il vostro impianto di energia a fusione… potreste riprodurre qualsiasi parte della nave, in questo stesso momento, non è vero?»

«Teoricamente. Ci sono alcune parti che non mi azzarderei a riprodurre. Questo è stato un lungo viaggio; dovevamo essere preparati a tutto.» A parte questo.

«Dio! Se solo Park e Osuna potessero vedere questo posto.»

«Chi?» Clewell tolse il legno dal morsetto.

«Sono “ingegneri”.» Pronunciò quella parola con disprezzo.

«E cos’ha contro gli ingegneri?» Betha si strinse forte le braccia contro lo stomaco, sollevando le palpebre.

«Cosa ho contro di loro?» Abdhiamal fece un gesto strano. «Sono un branco di cannibali. Continuano a mettere toppe su toppe, fanno a pezzi una cosa e se ne servono per tenerne insieme altre tre, poi fanno a pezzi una di queste ultime…»

«Mi sembra ingegnoso.»

«Ma se ne fanno un vanto! Pensano che sia creazione, e invece è solo distruzione. Se leggessero qualcosa, almeno, se avessero un minimo di immaginazione, saprebbero qual è la vera creazione. Una volta potevamo farlo… e nessuno lo faceva meglio di loro. Ma ormai è come pretendere che la vita si perpetui sotto vuoto.»

«O magari avete semplicemente dato la priorità alle cose sbagliate, Abdhiamal! Cosa dovrebbero fare, torturarsi sul passato perché ha lasciato loro soltanto reliquie su cui lavorare? Almeno fanno qualcosa per il loro popolo, e non vivono a spese di tutti come qualche dannato bellimbusto!» Betha gli strappò dalle mani il pezzo di legno, e sentì delle schegge che le ferivano il palmo. Poi voltò le spalle alla sorpresa di Wadie, e se ne andò a grandi passi, mentre la sua rabbia sembrava quasi riecheggiare dietro di lei.


* * *

Clewell sorrise al volto stupefatto di Abdhiamal. «Abdhiamal, è andato a dire tutto questo proprio a un ingegnere.»

Abdhiamal sbatté gli occhi. «Non avrei mai dovuto uscire dal letto… due megasecondi fa’.» Fissò con occhi sgranati l’enormità della sala vuota. «Pare che io dica sempre la cosa sbagliata a… a sua moglie. Io credevo che fosse un pilota.»

Clewell sentì il rumore dei passi di Betha affievolirsi, mentre lei saliva le scale. Si domandò quale fresco fardello si fosse portata appresso da Mecca… un fardello che i suoi occhi e ogni sua azione rivelavano, ma che non poteva dividere con lui. «Su Mattino era un ingegnere, prima di essere scelta per comandare il Ranger. È stata lei a progettare alcune parti della nave, per esempio l’unità motrice.» Di nuovo gli occhi fulvi di Abdhiamal mostrarono sorpresa. «È la prima astronave che abbiamo avuto i mezzi per costruire fin da prima della Bassa.»

«La Bassa?»

«Emergenza… carestia.» Ricordi di avversità e sofferenze si ridestarono troppo facilmente in lui, sollecitati dal recente ricordo della perdita. Una schiacciante stanchezza lo costrinse ad appoggiarsi al bordo del tavolo. Mise da parte il pezzo di legno; e morbosamente si raffigurò il proprio corpo come legno antico, butterato dalle tempeste, in disfacimento. Sospirò. «Su Mattino i piccoli cambiamenti nell’attività solare e le perturbazioni nella nostra orbita possono significare un disastro. Quando ero ragazzo, nell’ultimo quarto del mio decimo anno, ci capitò un “attimo ardente”…» Vide la distesa ghiacciata del lato oscuro ritrarsi, e gli iceberg frantumati costellare le acque del Mare Boreale. Il mare stesso si era sollevato di mezzo metro, sommergendo importantissime industrie della fascia costiera; nei campi, i raccolti si erano imputriditi per le piogge eccessive. Lui aveva visto con i propri occhi uno dei suoi padri che uccideva una covata di gattini perché non avevano niente di cui nutrirsi. E aveva gridato, anche se il suo stomaco vuoto gli doleva per la fame. Eppure, dopo tutti quegli anni… «Ci sono voluti degli anni prima che il clima si stabilizzasse, e una buona parte della mia esistenza prima che le nostre vite ritornassero alla “normalità”. Proprio adesso siamo entrati in un’Alta, e Uhuru si è stabilizzato… si tratta del nostro vicino più prossimo. In origine questa spedizione era stata programmata per portar loro aiuto. Ecco perché abbiamo corso il rischio di venire con il Ranger fino alla Cintura di Paradiso.» Sentì il vento tagliente sopra la neve del ghiacciaio del lato oscuro, dove il cielo scintillava di stelle come ghiaccio scheggiato. «Ecco perché non possiamo permetterci di restare qui. Anche se torniamo su Mattino a mani vuote, almeno avranno la nave.»

Abdhiamal annuì. «Capisco. Ho detto a… sua moglie, il capitano Torgussen, che ho intenzione di fare tutto ciò che posso per aiutarvi a ritornare su Mattino… per il bene stesso di Paradiso. Da come sembra che si mettano le cose, la vostra permanenza qui finirà col fare a pezzi Paradiso, invece di rimetterlo insieme…» Per un attimo Clewell si ricordò di qualcuno, ma subito l’immagine scivolò via.

Considerò le parole di Abdhiamal, sorpreso… più sorpreso ancora nell’accorgersi che ci credeva. Abbiamo trovato un uomo onesto?

Troveremo insieme il coraggio,

il nostro canto non cesserà mai…

«Cos’è?» domandò Abdhiamal.

«Bird Alyn.» Clewell udì la musica flebile ed esitante che saliva dal laboratorio idroponico. «Betha le ha insegnato alcuni accordi sulla chitarra, e io le ho insegnato qualche canzone, mentre stavamo… aspettando.» Bird Alyn stonò appena il motivo. «Non so se Claire lo avrebbe approvato, ma sembra che le piante apprezzino la sua sincerità.» Clewell sorrise. «Non è importante ciò che si canta, o come si canta, ma come ci si sente dentro mentre si canta.»

Abdhiamal fece un sorriso educato, e con lo sguardo toccò la superficie bucherellata del tavolo, il pavimento, tutta la stanza; il sorriso gli si irrigidì sulla bocca. «Lo sa, a volte ho la strana sensazione di vivere in un sogno; di avere dimenticato, chissà come, il modo per risvegliarmi.» La sua voce tradì una sfumatura di disperazione.

«Bird Alyn mi ha detto la stessa cosa. E penso che dicesse sul serio.»

«Provenendo dalla Cintura Principale, probabilmente parlava seriamente… e forse anch’io.» Abdhiamal si schiarì la gola, emettendo uno strano suono imbarazzato. «Welkin, vorrei rivolgerle una domanda personale. Se non le dispiace.»

Clewell rise. «Alla mia età non ho più molto da nascondere. Mi dica.»

Abdhiamal esitò. «Non trova… difficile prendere ordini da sua moglie?»

Clewell si raddrizzò. «Perché mai dovrebbe fare differenza per me?»

Abdhiamal lo guardò con aria strana. «Onestamente non ho mai incontrato una donna della quale mi fidassi al punto da consentirle di prendere decisioni al mio posto.»

Clewell ricordò quello che aveva visto sui monitor della società demarchista, e capì perché per Abdhiamal la cosa doveva fare differenza. «Betha Torgussen è stata scelta per comandare il Ranger perché era la più qualificata a farlo, e la più abile nel prendere decisioni rapide. Noi tutti abbiamo condiviso questa scelta.» Strinse le ganasce di un morsetto da tavolo, non riuscendo a capire se la cosa lo divertiva o lo infastidiva. «E adesso risponda lei a una mia domanda personale: cosa pensa di mia moglie?» Notò una reazione istintiva emergere e svanire prima ancora di avere raggiunto le labbra di Abdhiamal. Un uomo onesto…

«Non lo so.» Abdhiamal aggrottò appena la fronte, forse rivolto a se stesso. «Però devo ammettere che da quando la conosco ha preso delle decisioni migliori delle mie.» Rise, distogliendo lo sguardo. «Del resto ha scelto lo spazio, invece di…» I suoi occhi tornarono su Clewell, nuovamente pieni di confusione e di perplessità.

«Perché la Demarchia non ha donne nello spazio? Circa il modo di vivere dei Cinturani, ho sempre avuto l’impressione che ognuno faccia dannatamente come gli pare. Uomini e donne.»

«Prima della guerra, forse. Ma adesso dobbiamo proteggere le nostre donne.»

«Da cosa? Dal vivere?» Clewell prese il pezzetto di legno e se lo passò da una mano all’altra; adesso il senso di fastidio aveva preso il sopravvento sul divertimento.

«Dalle radiazioni!» Era la prima volta che udiva Abdhiamal alzare la voce. «Dai danni genetici. Le unità di fissione che alimentano le nostre navi e le nostre fabbriche sono troppo sporche. Malgrado tutto quello che abbiamo fatto, il numero delle malformazioni alla nascita è venti volte più alto di quanto lo fosse prima della guerra.»

Clewell pensò a Bird Alyn. «E per quanto riguarda gli uomini?»

«Possiamo preservare lo sperma. Non gli ovuli.»

«A causa di quella guerra avete perduto più di quanto pensiate.» Abdhiamal rimase in silenzio, con il volto inespressivo. Clewell si sfilò il braccialetto di cuoio che uno dei suoi figli gli aveva donato alla partenza e lo porse all’altro. «Riconosce questo simbolo?» Indicò il disegno smaltato su un cerchio di rame, mentre Abdhiamal glielo prendeva dalla mano.

«Yin e yang?»

Lui annuì. «Sa cosa rappresentano?»

«No.»

«Rappresentano l’Uomo e la Donna. Su Mattino, ciò significa due metà uguali che si fondono in un perfetto intero biologico. Una macchia di bianco in mezzo al nero, una macchia di nero in mezzo al bianco… per ricordarci che i geni di un uomo sono presenti nella creazione di ogni donna e i geni di una donna sono presenti nella creazione di ogni uomo. Noi non siamo uomini e bestie, Abdhiamal, noi siamo uomini e donne. I nostri geni si armonizzano; siamo tutti esseri umani. Quando si smette di pensarci, è una cosa che ha molto senso.»

«Strano…» Abdhiamal sorrise di nuovo, vagamente. «Ero convinto, chissà perché, che lo yin e lo yang non avessero niente a che fare con il retaggio culturale di Mattino.»

«La sua gente e la mia provengono tutte dallo stesso Vecchio Mondo. All’origine yin e yang non significavano molto per noi. Allora avevamo un mucchio di simboli che ci separava. Adesso ce ne basta uno.»

«Yin e yang e la Regina dei Vichinghi…» mormorò Abdhiamal, mentre il suo sorriso assumeva un che di miserevole. «E Wadie nel Paese delle Meraviglie. Perché ci sono stati più uomini che donne nella sua… famiglia?»

Perché così sono andate le cose. Per poco Clewell non gli rispose dicendogli la verità. Invece, dopo una pausa, disse: «Figliolo, se devi domandarmi perché un matrimonio ha più bisogno di uomini che di donne, sei più giovane di quanto io pensassi.» Fece una smorfia. «E non è perché io sto invecchiando.»

Abdhiamal si ritrasse, mentre l’incredulità scompigliava il suo decoro. Allungò una mano per restituire il bracciale.

Clewell scosse il capo. «Tienilo. Mettilo… Pensaci, quando ti domanderai perché siamo degli estranei per te.»


Betha rientrò in sala comandi; Shadow Jack e Rusty giacevano ancora testa contro testa sul tappeto color verde erba. Lei li oltrepassò tranquillamente, si sedette davanti al quadro comandi e mise a fuoco Discus sullo schermo: una piccola mezzaluna argentea simile a un’unghia di pollice. Era tutto ciò che importava, adesso; lei avrebbe riportato a casa quella nave. Stavolta ce l’avrebbero fatta. Niente doveva frapporsi tra lei e il suo proposito, nessun uomo, vivo o morto, nessun ricordo…

La mano ferita le bruciava. La premette contro il pannello gelido, lasciandovi una macchia di sangue. La sua mente attraversò tre anni luce e una mezza esistenza per raggiungere un cortile di fattoria lungo il perimetro di Hotspot, dove lei si era ustionata la mano sul metallo ardente mentre ispezionava il suo ideale divenuto realtà. Si era recata all’esterno per vedere il suo primo progetto da ingegnere che passava in successione lungo la linea di montaggio… insopportabilmente argenteo nella luce accecante del mezzogiorno, insopportabilmente bello. Si trovava allora nel terzo quarto del suo ventesimo anno, ed era appena giunta dal terminatore ghiacciato. La pioggia dorata del calore, la martellante corrente d’aria desertica riarsa, il perimetro della desolazione totale, tutto ciò l’aveva abbagliata; l’orgoglio l’aveva riempita di una strana allegria, e c’era un certo studente lavoratore… Lei attendeva che lui la raggiungesse e le dicesse che il suo progetto era magnifico, e poi le chiedesse… Dei guanti ruvidi l’avevano afferrata per le braccia, facendola voltare. «Ehi, fringuello, vuoi diventare cieca?» Aveva visto il volto adorato e bruciato dal sole di Eric van Helsing che rideva di lei attraverso la visiera del casco; aveva riconosciuto l’imbottitura della sua giacca isolante. «Me l’avevano detto che gli ingegneri sono troppo brillanti per funzionare al buio, ma non esagerare. È meglio che torni indietro.»

«Come sociologo non hai imparato molto sulla motivazione, Eric van Helsing.» Arrabbiata perché lui aveva rovinato tutto, e perché lo aveva atteso come una sciocca, Betha si era liberata dalla stretta ed era scappata via attraverso il cortile ghiaioso, trovando rifugio nella fredda, allucinante oscurità del più vicino edificio. Si era immobilizzata nel corridoio, combattendo la voglia di piangere, e lo aveva sentito entrare dietro di sé…

Tu sei la pioggia, amor mio, la dolce acqua

Che scorre nel deserto della mia vita.

Qualcuno entrò nella sala; Betha avvertì un profumo di mele. Cercò il volto tondo e liscio e i riccioli dorati di Claire… e vide Bird Alyn, magra e scura di pelle, e goffa come un pezzo di legno; una driade in maglione rosa e blue jeans, con i fiori tra i capelli… Bird Alyn, non Claire, si curava adesso del laboratorio idroponico.

Shadow Jack si mosse appena quando Bird Alyn si lasciò cadere accanto a lui; le guance chiazzate della ragazza assunsero una tinta rosa-scuro. Betha tornò a guardare lo schermo, nascondendo il suo sorriso.

«… andrebbe qualche mela?»

«Oh… grazie, Bird Alyn.» Rise, imbarazzato. «Tu pensi sempre a me.»

Lei mormorò qualcosa in tono interrogativo.

«Che diavolo ti prende? No! Quante volte te lo devo ripetere? Vattene da qui, lasciami solo!»

Betha fu colpita come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco; udì Bird Alyn che si rialzava e se ne andava di corsa, incespicando sulla soglia. Allora si voltò a guardare Shadow Jack; quest’ultimo s’era messo in ginocchio, poi si alzò in piedi ricambiando il suo sguardo.

«Forse non mi riguarda, Shadow Jack, ma cosa diavolo ti succede?»

«Non mi succede un bel niente! Pensa forse che tutti debbano essere come voi? Invece non è così. Siete un branco di pervertiti!» La voce gli tremava. «Mi fa star male.» Uscì dalla sala, e Betha sentì che scendeva le scale velocemente.

La donna rimase immobile, stringendo i braccioli del sedile e domandandosi come avrebbe trovato la forza per alzarsi… Rusty faceva le fusa accanto alle sue gambe. Con gesto rigido abbassò la mano e si mise il gatto in grembo, aggrappandosi all’idea, alla promessa di un tempo in cui Paradiso sarebbe stata soltanto una delle innumerevoli stelle perdute aldilà del crepuscolo. «Rusty, tu sei tutto ciò su cui faccio affidamento. Cosa avrei fatto senza di te?» La lingua ruvida della bestiola le baciò due volte il palmo della mano con amorevole dolcezza. «Oh, Rusty» bisbigliò Betha, «tu ci fai sentire degli ingrati.» Poi si alzò in piedi lentamente e fissò la porta vuota.


Le ombre si muovevano silenziosamente al disopra delle piastrelle del laboratorio, umide e verdi, simili alle acque di un mare di sogno. Bird Alyn singhiozzava contro le gelide piastrelle esagonali della panchina, sfiorata dalle fragili dita di una felce ricadente. «… non è giusto, non è giusto…» Il suo amore era un tormento senza fine perché si nutriva di sogni. Lui non l’avrebbe mai toccata, non le avrebbe mai accarezzato i capelli… non l’avrebbe mai amata, e lei non avrebbe mai smesso di avere bisogno del suo amore.

Lo udì entrare in laboratorio, e il singhiozzo le morì in gola. Si rialzò con gli occhi chiusi e le lacrime che le bagnavano ancora il volto.

«Non piangere, Bird Alyn. Sprechi acqua.» Shadow Jack le si mise accanto, con le mani sui fianchi.

Lei riaprì gli occhi e lo vide attraverso le ciglia umide, sentendo che, suo malgrado, non sarebbe riuscita a trattenere altre lacrime. «Abbiamo… acqua in abbondanza, Shadow Jack.» L’infelicità le si annidava dentro, e premeva come una molla compressa. «Non siamo su Lansing, qui è tutto diverso!»

Gli occhi di lui lo negarono; senza dire nulla, aggrottò la fronte.

Bird Alyn si girò dall’altra parte. «Ma io no… so di non essere diversa. Perché mi è successo tutto questo? Perché sono così brutta, se ti amo?»

Lui si lasciò cadere al suo fianco sulla panchina, e le allontanò dal volto le mani, una deforme e l’altra perfetta. «Bird Alyn, tu non sei brutta! Sei… bellissima!» Lei si vide riflessa nei suoi occhi e capì che diceva la verità. «Ma… non puoi amarmi.»

«Non posso farci niente… come potrei?» Lei allungò una mano e con le dita umide gli sfiorò il volto. «Io ti amo.»

Shadow Jack l’afferrò bruscamente, cingendola con le braccia, e l’attirò a sé. Colta di sorpresa, la ragazza si divincolò, ma la bocca di lui fermò il suo pianto e infine vinse la sua resistenza. «… amo, Bird Alyn… da sempre… non lo capisci?»

Le braccia allargate di Bird Alyn si sollevarono e si aggrapparono alle spalle di lui, e lo trascinarono dentro i suoi sogni, mentre la felicità la riempiva come una canzone…

Lascia che io fiorisca per te,

Lascia che spenga la tua sete…

«No…» All’improvviso lui si ritrasse, lasciandola, poi si chinò ansimante sulle fredde piastrelle. «No. No. Non possiamo.» Strinse le mani a pugno.

«Ma… tu mi ami…» Bird Alyn protese una mano, stupita e sgomenta. «Perché non possiamo? Ti prego, Shadow Jack… ti prego. Io non ho paura.»

«Cosa vuoi che faccia, che ti metta incinta?»

La ragazza indietreggiò, scuotendo il capo. «Non deve succedere.»

«Deve, lo sai.» Lui si piegò in avanti. «Vuoi sentire il bambino che cresce dentro di te e vederlo nascere… senza mani né braccia, senza gambe o… vederlo portare Fuori, come mia madre? Noi siamo imperfetti! E non permetterò mai che per causa mia ti succeda una cosa del genere.»

«Ma non succederà. Shadow Jack, qui sulla nave è tutto diverso. Hanno la pillola, e non sono mai costretti ad accettare gravidanze indesiderate. Ci farebbero…» Gli si avvicinò, e gli scompigliò i capelli neri come la notte. «Anche una sola pillola è sufficiente per lungo tempo.»

«E cosa succederà quando se ne saranno andati?»

«Noi… noi avremo sempre… i ricordi. Sapremo, ricorderemo ciò che abbiamo provato, e cosa significa toccarsi, baciarsi e… e stringersi…»

«Come potrei non toccarti, non baciarti, non stringerti più, dopo aver provato cosa significa?» I suoi occhi si chiusero per la disperazione. «Non ne sarei capace. Se almeno non ti vedessi mai più… ma non sarà così. Ti vedrò ogni giorno per il resto della mia vita, e come potrei evitarlo, allora? Come potresti tu? Succederebbe.»

Lei scrollò la testa, supplichevole, con il volto in fiamme e le lacrime ardenti, inutili, che le torturavano gli occhi.

«Non posso permetterlo, Bird Alyn. Non adesso. Né mai. Non potrei sopportarne le conseguenze su di me… e su di te. Perché mai abbiamo incontrato questa nave? Perché ci è successo questo? Andava tutto bene fino a… fino a…» Si strinse le mani e fece scrocchiare le nocche.

Dolcemente Bird Alyn allungò la sua mano, afferrando quella di lui; le sue dita scure si intrecciarono con quelle bronzee del ragazzo. A causa di quella nave il loro mondo sarebbe sopravvissuto… e sempre a causa di essa le loro vite erano sconvolte per sempre. Udì da qualche parte l’acqua che sgocciolava, come lacrime; un germoglio morto cadde in mezzo a loro, e colpì le piastrelle con un rumore secco.

Betha oltrepassò silenziosamente la porta, così come era venuta, e in silenzio risalì le scale.

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