«Eccolo lì» disse Shadow Jack, quasi in un sospiro. «L’asteroide Mecca.»
Betha l’osservò mentre si rivelava alla vista attraverso l’oblò: un sasso a forma di patata lungo cinquanta chilometri, butterato dalla mano della natura e da quella dell’uomo. Il suo asse maggiore puntava verso il sole, e il lato più vicino a loro era avvolto nell’oscurità, con una corona circolare di luce che lo avvolgeva completamente. A mano a mano che si avvicinavano incominciarono a scorgere le luci del campo di atterraggio e, in mezzo ad esse enormi sagome scintillanti illuminate dal basso, le cui ombre si andavano a perdere tra le ombre del vuoto spaziale. Alla fine Betha riuscì a capire che si trattava di serbatoi di immagazzinamento: enormi palloni pieni di preziosi gas. Finalmente… La donna si mosse nel piccolo spazio fiocamente illuminato davanti al quadro strumenti, e sentì che anche le sue emozioni ottenebrate si muovevano e tornavano a vivere. Si riempì i polmoni congestionati con l’aria morta e stagnante, mentre da qualche parte alle sue spalle un ventilatore si metteva in funzione, rumoroso e inefficace; si domandò se sarebbe mai stata capace di far rivivere il senso dell’odorato, misericordiosamente morto da lungo tempo. La confortava ben poco sapere che il claustrofobico tormento del loro viaggio sarebbe stato ancora peggiore senza la revisione che avevano effettuato a bordo del Ranger. Due stranieri di Lansing avevano qualcosa da insegnare, in fatto di resistenza, anche agli abitanti di Mattino… Le ritornò in mente il Ranger, e insieme ad esso l’irritante consapevolezza che avrebbero potuto attraversare lo spazio della Demarchia fino a Mecca in un giorno invece che in quindici, con tutte le comodità, se le cose fossero state differenti. «Ma ce l’abbiamo fatta, grazie a Dio. E grazie a te, Shadow Jack. Hai fatto un buon lavoro.» Senza volerlo, gli toccò il braccio con la mano, in un gesto indirizzato a qualcun altro. Lui emerse dalla sua consueta tristezza, mentre l’imbarazzo cedeva il posto a qualcos’altro, qualcosa di più, poi protese la mano per sintonizzare la radio. Il silenzio ticchettante della cabina fu rotto dal rumore di voci e di scariche elettriche.
«Lei… lei amava qualcuno di loro in particolare?»
Betha sospirò. «Sì… sì, immagino di sì. È qualcosa che non si può fare a meno di provare; li amavo tutti moltissimo, ma uno…» Che non è qui, ora che ho bisogno di lui. Scrollò la testa e i suoi occhi si velarono; poi riprese il controllo di sé mentre un frammento del mondo reale si dirigeva verso di loro. «Là, Shadow Jack.» Si chinò verso l’oblò, strofinando il vetro appannato. «Una nave cisterna si sta avvicinando.»
Anche lui guardò. Videro la nave, ancora illuminata dal sole: un voluminoso traliccio metallico, con il ventre di plastica rigonfio dei preziosi gas e racchiuso fra tre gambe d’acciaio, supporti dei razzi elettrico-nucleari della nave. «Guardi le sue dimensioni! Deve provenire dagli Anelli. Non si servirebbero di una nave simile per il trasporto locale.» Shadow Jack sollevò la testa, seguendo l’arco discendente della nave cisterna. «Ecco, quello laggiù deve essere lo spazioporto commerciale.»
Adesso Betha poteva vedere chiaramente il campo d’atterraggio, una superficie liscia e innaturalmente scintillante costellata di gru e circondata da altri parassiti meccanici, carichi o vuoti. Scafi più piccoli si muovevano al disopra, simili a falene rossastre; pigri rimorchiatori in una profusione di arrangiata assurdità. Un altro mondo… Continuarono a guardare, la donna ascoltò i frammenti delle conversazioni radiofoniche unilaterali che facevano da sottofondo sonoro alle lente movenze da balletto sotto di loro: noia e concentrata attenzione, un’esplosione di rabbia, incomprensibile inclinazione per un invisibile tecnicismo. «Non dovrebbero ricevere il nostro segnale?»
Lui annuì. «Lo stanno ricevendo. Penso che ci chiameranno e ci faranno scendere quando lo riterranno opportuno.»
Rusty galleggiò al disopra del quadro comandi, e urtò involontariamente contro i fili attorcigliati della cuffia del ragazzo. «Povero Rusty» mormorò Betha, allungando una mano per prenderlo. «II tuo viaggio in questa sauna è quasi finito…» Tutt’a un tratto si sentì la gola terribilmente secca.
Shadow Jack si piegò con aria colpevole e accarezzò il pelo arruffato di Rusty. «Bird Alyn non mi ha proprio perdonato di averla convinta a portare con noi Rusty. Non voleva separarsene. Lei ama le piante, ama far crescere le cose… le cose che sono vive…» La sua bocca sì contorse in una specie di sorriso velato di tristezza. «Credo che Rusty sia stato quasi la cosa più bella, per Bird Alyn.»
«Ne senti la mancanza, vero?»
«Già, io… voglio dire, ecco… lei è l’unica persona che sappia usare il computer.»
«Oh.»
Lui la guardò, rendendosi conto di ciò che Betha non aveva espresso a parole. «Noi lavoriamo insieme, e basta. Lei annuì.» Io pensavo che forse…
«No. Non siamo sposati.»
La donna sentì la sua bocca piegarsi in un’espressione di scandalizzato divertimento. «Ammiro il tuo autocontrollo.»
Shadow Jack spalancò gli occhi bicolori, e lei li vide nuovamente scivolare nell’oscurità. «Non c’è nessun motivo di desiderare ciò che non possiamo avere. Conta solo mantenersi vivi… sopravvivere, tutti. Se non riusciamo a trovare l’acqua per Lansing, è la fine, ed è stupido fingere che non sia così. Non c’è ragione di… di…» Abbassò lo sguardo sul quadro comandi. «Accidenti a quei sonnambuli! Perché non ci rispondono? Cosa aspettano, un miracolo? “»
Una voce proruppe dall’altoparlante. «Nave non registrata… cosa diavolo state facendo lassù? Perché non scendete?»
Shadow Jack si girò verso di lei senza dire nulla. Betha sorrise. «E adesso cerca di desiderare un po’ d’idrogeno.»
Shadow Jack guidò la nave, maledicendo il bagliore del sole, fino a un punto d’attracco sul lato illuminato di Mecca. «“Non registrata per il campo principale”. Pidocchiosi bastardi! Perché non ci hanno fatto atterrare sul lato oscuro, come tutte le altre dannate navi cisterna?» Si allungò, stirandosi all’indietro, e fece scrocchiare le nocche.
«Probabilmente vogliono evitare che qualche turista vada a schiantarsi sopra una distilleria.» Finalmente Betha si rilassò, nel sentire dall’esterno il rumore rassicurante dei cavi magnetici che si agganciavano allo scafo.
Lui si spinse via dal sedile. «Questo non ci aiuta. Se qualcosa va storto, occorrerà un sacco di tempo per fuggire da questa parte.» Si diresse verso l’armadietto che conteneva le tute.
Betha annuì col capo, sospirando, e allungò la mano per prendere Rusty. «Speriamo solo che vada tutto bene» disse, pensando che chiunque gli avesse dato quel nome aveva scelto proprio quello giusto.[4]
Betha si aggrappò per un attimo al bordo del portello aperto, guardando verso il basso e in lontananza, fin dove il mondo terminava troppo bruscamente: visto in prospettiva, l’orizzonte assomigliava a una lama scintillante che tagliava l’oscurità. Aldilà c’erano le stelle, appena visibili, incredibilmente lontane nel vuoto privo di luce. Betha vide cinque corpi martoriati che precipitavano in quel vuoto, dove nessuna mano poteva fermare la loro caduta, dove nessuna voce poteva infrangere il silenzio dell’eternità… Ebbe un attimo di stordimento. Shadow Jack le toccò la schiena.
«Avanti, usciamo.» Distorta dal debole altoparlante, la voce di lui era quasi gracchiante.
Oltre ad essa, Betha udì nel suo microfono l’inutile grattare di Rusty all’interno della cassettina pressurizzata; vide delle figure che si dirigevano verso di loro muovendosi lungo un cavo di ormeggio assicurato a mezza nave. Si portò fuori dal portello con troppa forza e fluttuò verso terra descrivendo un arco sgraziato. Rimbalzò, ma riuscì ad afferrarsi al cavo e ritrovò l’equilibrio. Un errore… E non poteva permettersi il lussò di commetterne altri. Aveva a che fare con dei Cinturarli, e doveva a ogni costo comportarsi come loro. Sentì la tensione dissipare la nebbia della sua stanchezza, mentre osservava Shadow Jack che atterrava senza difficoltà sul campo ghiaioso, lucente e butterato. In alto vide il sole Paradiso, un diamante spinoso nella corona della notte, gelido e remoto… bizzarro, a confronto con il ricordo del suo sole rovente nel cielo polveroso di Mattino. Distolse lo sguardo dallo scafo in ombra del Lansing 04 e vide altre navi ormeggiate; la luce spietata sottolineava quel rozzo guazzabuglio di sagome informi, e Betha ricordò con un senso di nostalgia l’ascetica perfezione del suo Ranger.
«Resterete a lungo?»
Lei non riuscì a scorgere il volto dell’uomo attraverso la visiera schermata del casco, e si augurò che la sua la nascondesse altrettanto bene. «Non più del necessario.»
«Bene. Il vostro livello di radiazioni esterne è medio-alto. È pericoloso per le piante.»
Betha guardò il suolo pietroso e scolorito, domandandosi se l’uomo non si stesse prendendo gioco di lei. Rise forzatamente.
«Voi siete quelli di Lansing?» Alle spalle dell’uomo altre otto o dieci figure si fecero avanti, tenendo in mano dei grossi congegni che la donna riconobbe come cineprese.
«Perché siete venuti qui?»
«È vero che…»
«Credevo che nella Cintura Principale non ci fosse più nulla di vivo.»
Betha posò la cassettina che conteneva Rusty, afferrandosi meglio al cavo d’ormeggio; le loro voci risuonavano assordanti dentro il casco. «Vogliamo acquistare dell’idrogeno dalla vostra distilleria.» Tornò a guardare il primo individuo. «Spero che non dovremo andare a piedi sull’altro lato.»
Questa volta fu lui a ridere. «No, se siete clienti che pagano.»
Betha si accorse che era armato.
«… ho sentito dire che voi della Cintura Principale rubate e imbrogliate abbastanza» ripresero le voci. «Avete davvero qualcosa da offrire in cambio della nave?»
«Come mai una donna occupa una posizione del genere? Lei è sterile?»
«Cosa c’è nella cassetta?»
L’avevano circondata come lupi e lei si ritrasse, spaventata. «Io non…»
«Questi sono fatti nostri, gente» intervenne improvvisamente Shadow Jack. «Non siamo qui per ricevere elemosine, e non ci interessano le vostre carabattole.» Anche lui si accorse della manica rigida della guardia. «Allora, come facciamo a raggiungere la distilleria?»
Betha serrò le mascelle, mentre la guardia alzava le mani.
«D’accordo; voialtri pubblicitari toglietevi dalle loro spalle. Riprendete la nave; non sono venuti da Lansing per posare per voi. E ricordatevi di menzionare la Affitti Ancoraggi di Mecca… Senza rancore, collega. Seguite il cavo fino alla teleferica; c’è un carrello che vi aspetta. Benvenuti su Mecca.»
«Dimmi, è vero che…»
Shadow Jack scivolò oltre il cavo e si fece strada in mezzo ai rappresentanti dei mezzi di comunicazione. Betha lo seguì muovendosi con forzata indifferenza. «Grazie… amico» disse.
La guardia fece un cenno col capo, o forse si inchinò, e altrettanto fece Shadow Jack.
«Cristo, chi era quella gente?» Lei guardò da sopra la sua spalla mentre salivano a bordo del vagoncino da trasporto per il servizio a terra; dietro di loro qualcuno richiuse lo sportello. Udì Shadow Jack mormorare: «Incredibile.» Vide che nell’abitacolo c’erano altre due persone, e desiderò che non ci fosse nessuno; ma in mancanza di meglio, si disse che due non erano poi tanti, e per di più non avevano macchine fotografiche. Davanti a lei, attraverso la cupola di plastica, il tracciato monorotaia sottile come un filamento si perdeva nella sterile distesa luminosa. Oltre la piattaforma sulla sua destra vide ciò che sembrava un portello circolare ricavato nella superficie rocciosa, sopra il quale c’era una scritta: COOPERATIVA IDROPONICA. Allora si rese conto che la guardia non aveva scherzato per nulla; quel pezzo di nuda pietra che era Mecca costituiva un mondo autosufficiente, costellato di tubi e cavità che alimentavano tutti i processi vitali. Troppe radiazioni nuocevano alle piante…
I suoi pensieri si confusero e si riformarono quando una leggera forza d’inerzia la premette contro il sedile. Rusty soffiava e grattava dentro la cassettina, facendo risuonare nel suo casco un rumore simile a una scarica di elettricità statica; Betha ricordò all’improvviso, dolorosamente, la loro destinazione e il loro obbiettivo. E ricordò anche che solo Eric avrebbe potuto aiutarla… ma Eric non c’era più. «Tutto questo è stato costruito prima della guerra?» Fissò la visiera a specchio di Shadow Jack, desiderosa di ricevere una risposta.
«Sì.» La voce nel casco era quella di uno straniero.
La donna trasalì, e Shadow Jack fece lo stesso. Entrambi si voltarono per guardare gli altri due occupanti della vettura; uno di essi, con le lunghe gambe protese in avanti quasi senza volerlo, si portò una mano sulla visiera. «Eric…!» Anche la mano di Betha salì al casco e rimase lì immobile, come senza peso.
Capelli neri e ricci, un volto magro, pensoso; l’inatteso sorriso simile a quello d’un ragazzo; gli occhi azzurri che rivelavano la sorpresa… occhi color ambra… non Eric, no… Eric è morto. Betha riabbassò la mano tremante, lasciando opaca la sua visiera. «Mi… mi dispiace. Io credevo… mi sembrava che lei fosse qualcuno che conoscevo.»
L’uomo sorrise di nuovo, educatamente. «Io non credo.»
«Voi siete quelli che vengono da Lansing per commerciare.» La seconda voce era secca e stridente. «Hanno detto che il carrello vi sta aspettando.»
Betha ammiccò, non vista, e osservò l’individuo più basso e tarchiato, domandandosi se sarebbe mai riuscita a vedere un Cinturano grasso. Pur con il suo metro e settantacinque, lei si sentiva stranamente bassa. Il secondo passeggero, una donna, schiarì la visiera rivelando il volto di una persona di mezza età con la pelle bruna, i capelli tendenti al grigio e gli occhi di un color giaietto scintillante.
«Sì, siamo noi.» Betha mantenne opaco il vetro della visiera per nascondere il suo pallore; sentì Shadow Jack che si agitava nervosamente accanto a lei.
«Siete i primi della Cintura Principale che io abbia mai visto. Come vanno le cose laggiù? È bello sapere che non siete tutti…»
Rusty emise un commovente miagolio di disperazione, e Betha sussultò quando il suono le ferì gli orecchi.
«Buon Dio, cos’è stato?» Le mani guantate della donna si portarono agli orecchi protetti dal casco.
«Spettri» rispose Shadow Jack, «di Cinturiani morti.»
Il volto della donna rivelò un confuso sgomento. Betha fissò l’uomo, e lo vide sorridere e aggrottare la fronte nello stesso tempo; parve quasi che i suoi occhi incontrassero quelli di lei anche aldilà della visiera opaca. «Mai sentito un rumore simile. Forse siamo passati sopra un cavo elettrico.» Betha si rese conto che non solo il gatto, ma anche la stessa trasmittente della cassettina doveva ormai costituire, su Paradiso, un’assoluta novità.
La donna aveva l’aria sconvolta. «Mi dispiace. Non è stato carino da parte mia. Solo che costituite una tale novità! Io sono Rinee Bohanian, della Agroponica Bohanian.» Indicò con un gesto della mano il lato illuminato dell’asteroide, alle loro spalle. «Azienda di famiglia, capite!»
«Wadie Abdhiamal» aggiunse l’uomo, con un leggero cenno del capo. «Lavoro per la Demarchia.»
«Non lavoriamo tutti per la Demarchia?» domandò la donna.
«Io sono un funzionario governativo.»
L’altra lo guardò con un’aria sospettosa che sconfinava nell’antipatia. «Bene.» Poi tornò a fissare Betha. «E lei come si chiama? Sa, mi piacerebbe dare un’occhiata a una spaziale in carne e ossa…»
«Betha Torgussen. Mi dispiace, ma il mio casco è rotto.» Incrociò le dita, e nessuno se ne mostrò sorpreso. «E lui è…»
«Shadow Jack» la interruppe l’interessato. «Sono un pirata.»
«Pilota» lo corresse irritata Betha., ma gli altri si misero a ridere.
«È il nome di un Materialista.» L’uomo stava squadrando Shadow Jack. «Da molto tempo non ne incontro più uno.»
«Su Lansing lo sono tutti. Ma è solo un pio desiderio. Non c’è rimasto più niente da contemplare.» Si stava quasi rilassando, e la sua voce non aveva l’abituale, tagliente asprezza.
L’uomo osservò Betha con aria interrogativa.
«Non tutti.» Distolse lo sguardo e fissò la parte anteriore della vettura, cercando un pretesto per smettere di parlare. Udì la donna domandare all’altro che genere di lavoro svolgesse per il governo, ma non prestò attenzione alla risposta. Erano quasi giunti al terminator;[5] si stava avvicinando lentamente, simile all’ombra delle nuvole che attraversavano i deserti frastagliati di Mattino. Oltre il terminatore, parallela al limitare dell’ombra, si stagliava una linea di leviatani: pali mozzi di acciaio coronati da anelli di rame e collegati fra loro da luci intermittenti rosse e verdi.
«Quello è l’acceleratore lineare» spiegò la donna. «Viene usato per trasportare i carichi che non devono muoversi troppo velocemente, o che non devono andare troppo lontano… Cosa pensa esattamente un Materialista?»
Attraversarono il terminatore, sbattendo gli occhi per l’improvvisa oscurità, come se qualcuno avesse spento un interruttore, e passarono in mezzo alle gigantesche torri dell’acceleratore. L’uomo dai capelli neri stava ascoltando Shadow Jack; Betha si sentì costretta suo malgrado a fissare quel volto.
«… e ti danno una parola, il nome di qualcosa di materiale che si suppone possa distinguerti dagli altri e in qualche modo plasmare il tuo essere. Metà della gente non sa nemmeno cosa significhi il suo nome, ormai…»
Betha fissò in silenzio lo straniero sentendosi impotente, vergognosa, spaventata fino al punto di tremare… ricordò Mattino, e i primi giorni del suo amore per Eric: un ingegnere e un sociologo male accoppiati nel cortile di una fabbrica lungo il perimetro di Hotspot; il metallo ardente nel calore inesauribile di un mezzogiorno senza fine… Ripensò ai loro ultimi giorni su Mattino: una lastra di ghiaccio infranta dentro un pozzo nel crepuscolo infinito, dove il margine scricchiolante della banchisa ghiacciata del lato oscuro, venata di rosa e ambra dai fuochi del tramonto, frantumava la sua immagine riflessa nel Mare Boreale. Campo Borealis, dove la sua famiglia, così come l’equipaggio appena composto del Ranger, lavorava insieme alla preparazione di un’attrezzatura di emergenza, e si organizzava per il viaggio di 1,3 anni-luce che li avrebbe condotti sul pianeta Uhuru, circondato dai ghiacci.
Erano stati selezionati fra tutti i volontari disposti a lasciare casa e lavoro per aiutare un mondo della loro catena commerciale; ma non immaginavano il viaggio che avrebbero dovuto affrontare. Dall’Alto Consiglio era giunta notizia che Uhuru aveva comunicato con un radiomessaggio di non avere più necessità di soccorsi. Era stata loro assegnata una nuova, inattesa destinazione — il sistema di Paradiso — e un obbiettivo ben diverso dalla semplice sopravvivenza di un altro mondo o del loro. Ricordò i festeggiamenti, il loro orgoglio per l’onore ricevuto, e l’orgoglio delle famiglie delle loro famiglie… Rivide Eric che la portava via tranquillamente dalla sala affollata e illuminata dal fuoco per un ultimo, breve momento di solitudine prima di un viaggio che sarebbe durato anni. Le sue mani delicate, e il carezzevole tepore della sauna vuota. Ridendo si erano tuffati nella neve… il calore della passione, il gelo devastante della morte… fuoco e ghiaccio, fuoco e ghiaccio… Betha urlò in silenzio: Eric, non tradirmi adesso… dammi forza…
Il vagoncino continuò a scivolare attraverso l’oscurità.
Si fermò lentamente sotto le snelle torri della loro meta, fra i contenitori di provviste che rilucevano in modo sinistro… pallidi gialli, verdi e azzurri, cui le luci del terreno conferivano una strana fosforescenza. Betha si scrollò dalla mente il passato, e prese a osservare la foresta rilucente di sagome aliene. Udì la donna che stava parlando con Shadow Jack: «…come i vostri campi di Lansing assomigliano al nostro sistema di cisterne. Naturalmente noi non abbiamo scarsità di acqua; la neve viene immagazzinata in basso, dentro le vecchie cavità minerarie. Ne abbiamo a sufficienza da resistere per sempre, immagino.» II suo sorriso tradì un orgoglio che inconsciamente era avidità. Il funzionario governativo la fissò; Betha colse nella sua espressione un fugace senso di rabbia, e se ne domandò il perché. All’improvviso Shadow Jack balzò su dal sedile, trovando subito l’equilibrio, per istinto. La tensione lo tendeva di nuovo come un filo; Betha si domandò se la sua faccia tradisse qualcosa.
Seguirono l’uomo e la donna attraverso rumori radiofonici che non sapevano a chi attribuire e l’impersonale frastuono degli operai sulla piattaforma; giunsero così a un altro portello incassato nella solida roccia di superficie. Entrarono al disotto della presa d’aria e percorsero gallerie che scendevano a forte pendenza verso il centro della roccia, pur senza darne l’impressione. Betha sentì che la sua tuta si afflosciava con il ritorno della pressione, e i suoi movimenti ne furono agevolati. Adesso i suoni le giungevano direttamente, ovattati dal casco, mentre passava accanto a capannelli di persone, alcune in tute e altre no, tutte misericordiosamente disinteressate; si domandò di nuovo cosa significasse il comportamento dei fotografi al campo.
Seguirono una corda lungo la parete del corridoio principale, dove i guanti ruvidi delle tute a pressione avevano lasciato una specie di solco sulla superficie bucherellata. Più in basso, davanti a lei, vide che la galleria finiva, aprendosi in un ambiente nel quale pendeva un fitto reticolato. Incuriosita, Betha si affacciò sulla soglia.
«Oh…» Ebbe l’impressione di non riuscire più a respirare. Rimase dov’era, come Shadow Jack, estasiata da una favolosa bellezza imprigionata nella pietra. Di fronte a loro si apriva una cavità del diametro di un chilometro o forse più: un immenso, innaturale geode costellato di scintillanti escrescenze cristalline, smussate o appuntite, un’orgia di colori iridescenti, cangianti, contrastanti. L’interno era pieno di ragnatele, serici filamenti tessuti da qualche incredibile ragno…
Le immagini cominciarono a prendere nuova forma nella sua mente; Betha si rese conto che quella era la città, il cuore pulsante dell’asteroide Mecca… e che le infiorescenze cristalline erano le sue torri, protese dal pavimento, dal soffitto e da ogni Iato. Perché non cadono…? I suoi pensieri turbinavano; sentì che qualcuno l’afferrava per le braccia. Irritata, si costrinse a fissare la vertiginosa immensità di quella sala. Lungo i fili della ragnatela la gente saliva e scendeva, minuscola come moscerini; si trattava di funi leggere, tese da un’estremità all’altra dell’ampia cavità. Le torri più alte si levavano dal soffitto e dal pavimento, sondando l’aria interna lungo la linea diretta della debole ma inesorabile attrazione gravitazionale. Gli edifici che si protendevano dai lati ricurvi della caverna erano più bassi, più tozzi, dovendo sopportare una sollecitazione assai maggiore. Le torri ondeggiavano delicatamente alle leggere correnti dell’impianto di ventilazione; non erano solide superfici cristalline, ma tremolanti tende di tessuto colorato sovrapposte a snelle strutture metalliche.
«Prima della guerra era una città modello.» Betha si accorse che era il funzionario governativo quello che l’aveva presa per le braccia; senza dare peso alla cosa, lui la lasciò andare. «Si giocava d’azzardo. Adesso vi si fanno giochi molto più concreti; la maggior parte di quelle torri appartiene a gruppi di mercanti.» L’uomo si slacciò il casco, poi se lo tolse e la fissò come in attesa. «Qui l’aria è buona.»
Lei sollevò la mano solo per attivare l’altoparlante esterno; provava un formicolio sulla pelle, e desiderava incontrare gli occhi dell’altro. «Grazie» disse, cercando di dare alle sue parole un tono di insicurezza, «ma preferisco aspettare.» Shadow Jack, privo di altoparlante, se ne stava in piedi ad ammirare la città, astiosamente soddisfatto di fare il sordomuto. «Ci può dire quale di quelle torri appartiene a qualcuno che voglia venderci dell’idrogeno?»
«Idrogeno?» La sua occhiata interrogativa sembrò scivolarle sulla visiera. «Pensavo che aveste bisogno di aria. O di acqua.»
«Infatti. Abbiamo bisogno di acqua… l’ossigeno lo abbiamo. Perciò, ovviamente, ci serve anche l’idrogeno.» Rusty miagolò; lei si tappò gli orecchi.
«Oh.» Il volto dell’uomo si rilassò con aria di approvazione. «Ovviamente… Sa, non mi capita spesso d’incontrare una donna che ha scelto di sua volontà d’andare nello spazio. Su Lansing è una cosa comune?»
«Andare nello spazio non è più comune, su Lansing.» Betha ricordò all’improvviso che gli occhi bruno-dorati dello straniero erano quelli di un nemico. «Mi può indicare dove si trovano gli uffici della distilleria?»
«Laggiù…» indicò lui, «quel gruppo di lunghi edifici verdi; ci sono parecchi uffici di distillerie: Tiriki, Flynn, Siamang…»
«Distillerie? Ce n’è più di una?» Avrei dovuto saperlo? Betha imprecò fra i denti.
«Ma certo.» L’uomo sorrideva, comprensivo. «Questa è la Demarchia: è il popolo che governa. A noi non piacciono i sistemi monopolistici; sarebbe un’usurpazione dei diritti del popolo, e loro non l’accetterebbero… lo so. Lasci che l’accompagni.»
«No, davvero…»
«È il meno che posso fare, a questo punto.» Si mise due dita in bocca e fischiò tre volte acutamente. Betha si ritrasse; allora lui si voltò, sorprendendola con un rapido inchino di scusa. «È così che qui si chiamano i taxi, adesso. Su Mecca le buone maniere stanno andando all’inferno… Paradiso sta andando all’inferno.» Rise in modo strano, come se non avesse avuto l’intenzione di dirlo ad alta voce. «Quanto a me, vengo da Toledo.»
«Cosa… ehm… ha detto che fa’ per il governo?» Sentendosi a disagio, lei si mise a guardare il panorama. La donna che era con loro sulla vettura era scomparsa. Perché quest’uomo resta con noi?
«Sono un negoziatore. Cerco d’impedire alle cose di diventare più incivili di quanto siano già.» Di nuovo quella rapida, sofferta risata. «Appiano le dispute, elaboro gli accordi commerciali… mi occupo delle visite inattese.»
Lei fu lì lì per voltarsi, ma s’irrigidì nel vedere gli operatori di prima che uscivano dalla galleria. «Shadow Jack!» Gli afferrò il braccio. «Resta con me, non separiamoci.»
Le voci si strinsero intorno a loro. «… in quella nave malconcia?»
«Con chi avete intenzione di trattare?»
«Quanto…»
«Cosa avete…»
Pubblicitari e semplici curiosi si affollarono intorno a loro, stringendoli, accalcandosi, interrompendosi l’un l’altro. Betha vide il funzionario governativo che veniva allontanato a gomitate, proprio mentre l’aerotaxi saliva verso di lei, fermandosi poi con un rumore stridente. Avanzò verso il velivolo, invitando Shadow Jack a seguirla con un gesto della mano. Si trattava di una vettura con baldacchino e guida a propulsione, governata manualmente da un giovane ben vestito e dall’aria annoiata. «Dove andiamo?»
«A… alla distilleria Tiriki. E in fretta.» Betha sporse la testa oltre il bordo del baldacchino striato, e sentì il pavimento che le dondolava sotto i piedi in mezzo a un mare d’aria, mentre in alto e in basso era tutto uno scintillio di cristalli. Shadow Jack la seguì. Il taxi decollò, abbassandosi, mentre la folla accalcata sull’orlo del precipizio si allontanava pian piano.
«… Torgussen!» Betha udì il funzionario governativo che le gridava dietro qualcosa.
Si girò a guardare; le sue mani salirono al casco, e con movimenti impacciati lo sfilarono. Lei vide sul volto dell’uomo un’espressione di incredulità… riconoscimento… perdita… Basta così! Non c’era rassomiglianza, non poteva esserci riconoscimento… Eric è morto! Si aggrappò a uno dei sostegni del baldacchino, sentendo le correnti d’aria che le agitavano i capelli pallidi e arruffati, e le rinfrescavano il viso ardente. Oh, Dio, quanto spesso succederà tutto ciò? Shadow Jack se ne stava affacciato a guardare giù, in alto, di lato, mentre sfioravano il sole artificiale ingabbiato nel vetro e sospeso nel centro della caverna. Pian piano lei scivolò nel sedile, costringendo i suoi sensi ad assorbire ciò che la circondava, ponendo un freno agli echi del passato.
La caverna era piena di suoni, indistinti e fusi l’uno nell’altro: risate, grida, il ronzio da alveare di meccanismi invisibili. Betha guardò davanti a sé, rendendosi conto in quel momento delle sottili differenze nella sontuosità e nella disposizione delle torri ammassate; negli assurdi angoli dei balconi; nelle buie cavità che occhieggiavano dalle pareti rocciose, gallerie d’ingresso ad abitazioni esclusive. E lentamente si accorse anche del miscuglio di odori aromatici che profumava la fresca aria filtrata; respirò a fondo gustandola, assaporandola, dando sollievo alla sua testa oppressa e affaticata. Imperturbabile, l’autista continuava a fissare dietro di lei il pinnacolo color smeraldo che era la loro destinazione.
Penetrarono attraverso l’imboccatura soffice ed elastica dell’ingresso sul tetto, e percorsero un lungo corridoio vuoto che scendeva in linea retta per venticinque metri fino alla base dell’edificio, al livello della roccia. Betha vi affondò quasi senza accorgersene, e senza provare l’impressione di cadere; attraversarono alcune porte pneumatiche. Shadow Jack si slacciò il casco, se lo tolse e scosse la testa. Lei lo udì trarre un profondo respiro. «Dove siamo?» I capelli erano appiccicati come ciuffi d’erba sul viso sudato; si deterse con la mano guantata.
«Distillati Tiriki. L’ha suggerito l’uomo che era con noi sul carrello.» Betha esitò, non volendo comunicargli i suoi sospetti.
«Bastardi.» La bocca gli si piegò all’indietro. «Mi piacerebbe veder saltare in aria questo posto. Non sarebbero così…» La rabbia gli soffocò le parole in gola.
Betha lo osservò, avvertendo un senso di dolore e una punta di fastidio. Allungò una mano; il guanto premette sul tessuto morbido e resistente della sua spalla. «So quello che provi… lo so bene. Ma quelli che erano con noi su quel carrello provavano la stessa cosa. Perciò smettila subito con questo atteggiamento, o dovrai fare i conti con me. Non possiamo permettercelo. Io voglio qualcosa da questa gente, e anche tu, e questa cosa è di gran lunga più importante di ciò che noi proviamo. Quindi stampati un bel sorriso sulla bocca per tutto il tempo in cui tratteremo questa faccenda, e nasconditici dietro.» Da qualche parte la sua memoria riuscì a liberarsi dai legami. «“Sorridi sempre… e comportati male”.» Betha sorrise, inalando l’aria fresca e profumata, e desiderò che lui la guardasse in faccia. Lentamente Shadow Jack sollevò la testa e quando i loro occhi s’incontrarono, per la prima volta lei lo vide sorridere.
Qualcuno sbucò da una porta pneumatica accanto a lei, afferrò uno dei lembi della porta stessa e fissò Betha con un’espressione di genuina incredulità.
Imbarazzata, la donna si strofinò il viso non lavato. «Noi vorremmo trattare per un carico di idrogeno. Può dirci a chi dobbiamo rivolgerci?»
L’estraneo rivolse loro un’espressione di circostanza. «Ma certo. In fondo al corridoio c’è l’Ufficio Acquisti. E grazie per avere scelto la Tiriki.» Abbassò la testa con gesto formale e li oltrepassò, risalendo da parete a parete come un nuotatore nella luce verdastra. Betha e Shadow Jack continuarono a scendere nell’abisso.
«Guarda questo straccio.» Udirono la voce prima di raggiungere la porta successiva. «Cosa ne sanno? Non ne sanno un bel niente.»
«No, Esrom.»
Betha aprì i due lembi della porta e tutti e due proseguirono il cammino, esibendo sorrisi rigidi per la tensione.
«Io stesso potrei fare di meglio. Ecco cosa dovremmo fare: farcelo da soli. Dovremmo assumere qualche pubblicitario e tirar fuori il nostro giornale…»
«Sì, Esrom.»
«… dire la nostra. Guarda qui, Sia, “monopolistico”…»
La donna dalla pelle dorata, di una bellezza eterea, che si trovava dietro lo sportello li guardò sollevando le sopracciglia arcuate. L’uomo dalla pelle dorata, singolarmente bello, aveva in mano un giornale e si girò verso di loro. Fratello e sorella, pensò Betha, e… impeccabili. Indossavano abiti color verde delicato, con sfumature che ricordavano la trasparenza del mare: la dorma aveva una lunga gonna ricamata, l’uomo una giacca altrettanto decorata, con merletti sulle maniche. Immaginando come dovevano apparire ai loro occhi, Betha si ravviò i capelli.
Ma l’uomo disse: «Sia, hai mai visto qualcosa del genere? Guarda quella pelle, e quei capelli, insieme…» I suoi occhi neri scivolarono lungo la tuta di lei, la identificarono, poi tornarono a fissarla in volto. «È stata nello spazio.» L’interesse sfumò nella delusione.
La donna lo toccò sul braccio. «Esrom, ti prego!» Poi rivolse ai due nuovi venuti un sorriso incantevole. «Cosa possiamo fare per voi?» Frenò un poco il suo sinuoso fluttuare: i lunghi capelli neri le ricadevano in parte sulla schiena, in parte erano raccolti in trecce sotto il berretto a punta.
«Vorremmo acquistare un carico di idrogeno.» Betha si sentì arrossire violentemente mentre i due la fissavano incantati, e cercò di nascondere il suo fastidio. «Mille tonnellate.»
«Capisco.» L’uomo annuì lentamente, o forse si inchinò, dando l’impressione di una vaga sorpresa. Allungò una mano e prese un blocco per appunti fissato a una catena. «Volete che ve lo inviamo noi?»
«No, possiamo portarlo da soli.»
«Da dove venite?» La voce della donna era fragile come il suo volto, ma senza la minima sfumatura di dolcezza.
«Lansing.» Shadow Jack sorrise, alto e magro e spontaneo, con un occhio azzurro e l’altro verde.
«La Cintura Principale!» Fratello e sorella tornarono nuovamente a guardarli; in silenzio, stavolta, con una specie di reverente e morboso timore. Sullo schermo alle loro spalle apparve una trasmissione, immagini alternate a caratteri stampati. «È un bel viaggio» commentò tranquillamente l’uomo. «Ci avete messo molto tempo?»
«Parecchio.» Betha indicò il suo viso, e quello del suo compagno, tirati e sporchi, e non ebbe bisogno di fingere per conferire alla sua voce una nota di stridente stanchezza. «E il ritorno a casa richiederà ancora più tempo. Gradiremmo sistemare questa faccenda con la massima sollecitudine.»
«Ma certo.» L’,uomo esitò. «Cosa… ehm, cosa intendete offrire in cambio? Noi non possiamo accettare tutto; abbiamo dei limiti, lo capite…»
La carità comincia in casa propria. Betha vide che il rigido sorriso di Shadow Jack diventava una specie di smorfia, mentre lei cominciava a sfilarsi i guanti. Ma chi sono io per biasimarli per questo? Posò la cassettina di Rusty sulla parte superiore del bancone metallico, e ne sbloccò il coperchio; un sibilo indicò che la pressione dell’aria all’interno si equiparava a quella esterna. La testa chiazzata di Rusty spuntò dal contenitore, le pupille nere e dilatate per l’eccitazione, che lanciavano bagliori verdastri nella luce. Il suo naso ebbe un fremito, poi il gatto si dimenò e uscì fuori, librandosi nell’aria come una piuma portata dal vento. Betha udì il sussulto soffocato della donna e lasciò andare la cassetta, che si mise a fluttuare anch’essa. «Prendereste un gatto?»
«Un animale» mormorò la donna. «Non credevo che ne avrei mai visto uno…» Timidamente protese una mano. Betha diede un colpetto a Rusty per tranquillizzarlo, e lo spinse verso di loro. Rusty urtò delicatamente contro le palme delle mani di lei, le annusò con circospezione, poi si mise a fare le fusa tutto compiaciuto contro il morbido tessuto della sua manica.
«Credo che siate venuti nel posto giusto.» Le mani affusolate dell’uomo tremavano. «Papà vi darebbe l’intera distilleria in cambio di quell’animale.» Rise. «Però vi farebbe pagare la spedizione fino alla Cintura Principale.»
«Sono rimasti molti animali su Lansing?»
«No.» Betha sorrise, un sorriso forzato. «Un carico di idrogeno andrà bene.»
«Abbiamo dei giardini» disse Shadow Jack. «Lansing è solo un mondo protetto da una tenda, ma una volta era la capitale di tutta la Cintura di Paradiso.» Sollevò la testa.
«Certo» disse l’uomo. «Giusto, lo era. Ho visto delle fotografie. Magnifiche…»
Rusty si liberò dall’abbraccio della donna e cominciò a infilare le unghie nei buchi di un contenitore reticolare per i documenti. I documenti danzarono, e la bestiola fece le fusa, contenta di trovarsi al centro dell’attenzione. Lo sguardo di Betha fu attratto dall’immagine che veniva proiettata sulla parete; s’irrigidì nel vedere il suo stesso volto sullo schermo, e si rese conto che non si trattava delle immagini riprese al loro arrivo su Mecca. Facendo uno sforzo di volontà, distolse lo sguardo e allungò una mano per accarezzare Rusty sotto il mento.
L’uomo se ne accorse, e a sua volta alzò gli occhi verso lo schermo. Di nuovo Betha tornò a guardare e vide che la sua immagine svaniva tra i caratteri stampati. L’uomo la fissò sconcertato, poi scosse la testa sorridendo educatamente. «Non faccia caso allo schermo. A noi piace avere notizie da ogni parte, per vedere quello che fa la concorrenza. Comunque sono tutte chiacchiere… i pubblicitari dicono ciò che sono pagati per dire.» Indicò il giornale che pian piano si stava trasformando in un mucchietto sopra il bancone. Rusty vi si avventò sopra di scatto e ne fece brandelli che volarono per l’aria.
«Vieni, piccolo, non farti male» mormorò la donna, e strinse le mani senza troppa convinzione.
«Non gli succederà niente» disse Betha, sollevata ma ancora piuttosto nervosa.
La donna le rivolse un’occhiata di disapprovazione.
«Le dispiace se diamo un’occhiata alla sua nave?»
Betha guardò l’altro. «No… ma si trova sull’altra faccia dell’asteroide.»
Lui annuì. «Semplicissimo.» Sotto lo schermo della parete c’era un piccolo quadro comandi, verso il quale l’uomo si diresse. «Qual è la vostra designazione?»
«Lansing 04.»
Lui regolò i comandi e i rapporti informativi scomparvero. «Lansing 04…» Betha vide apparire la loro nave, un’immagine che spiccava in modo accecante contro lo sfondo bruciato dal sole. «Mi chiedo se è possibile che voi trasportiate mille tonnellate di carico con un’astronave di quelle dimensioni. Quanto stazza?»
«Venti tonnellate, escluso carico e massa di reazione.»
«Vogliamo essere sicuri, capisce.» Sollevò lo sguardo. «In ogni caso, vi ci vorranno un bel po’ di megasecondi, per tornare su Lansing.»
Betha lo fissò, cercando di cogliere qualche segno di disagio, ma vide soltanto la sua disinvolta sollecitudine. «Ce la faremo. Dobbiamo farcela.»
«Certo.» I suoi occhi si spostarono da lei a Shadow Jack con una specie di ammirazione, almeno così le sembrò. «Cominceremo subito le operazioni di carico.»
Rusty andò a picchiare contro il bordo del bancone, facendo volar via alcuni fogli, e starnutì sonoramente.
«Ehi, vieni qui.» L’uomo si girò, cercando quasi con disperazione di afferrare il gatto. «Papà ci ucciderebbe se succedesse qualcosa a…» S’interruppe, afferrando al volo un foglio. Betha vide il proprio volto sulla pagina che l’uomo aveva fra le mani; stavolta non scomparve. «… astronave aliena…» Udì Shadow Jack che imprecava a bassa voce. Betha si sentì sollevare in aria, e si afferrò al bordo del bancone fino a farsi dolere le dita.
I due Tiriki tornarono a voltarsi verso di lei. «Siete voi» affermò l’uomo, fissandola a bocca spalancata. «Voi provenite da quell’astronave.»
«E siete venuti da noi.»
Un sorriso involontario si dipinse sui loro volti, quell’espressione di schietta ingordigia che Betha aveva visto in faccia alla donna nella navetta. «Non capisco» disse, ostinata. «Avete visto la nostra nave; noi veniamo dalla Cintura Principale. C’era un mucchio di gente che ci ha fotografato, al campo…»
«Non quella fotografia.» La donna scrollò il capo, facendo increspare i capelli neri. Betha la fissò ricordando, valutando di nuovo la situazione. «È da quando siete penetrati nel sistema, più di un megasecondo fa’, che sentiamo parlare di voi.»
«E non potreste essere arrivati da lì a qui in un megasecondo, con la nave che abbiamo visto.» L’uomo tornò a guardare Shadow Jack. «Voi venite dalla Cintura; forse quella è la vostra nave. Cosa siete, ladri di neve?»
«Non abbiamo intenzione di rubare niente.» Betha afferrò Rusty, stringendolo contro la sua tuta. «Vi abbiamo proposto un affare: questo gatto in cambio di un carico di idrogeno. Da qualsiasi parte veniamo non possediamo nient’altro che possa interessarvi. Concludiamo quest’affare, e lasciateci andare…»
«Mi dispiace.» L’uomo seguì con lo sguardo la spirale di carta. «Temo che a noi possa interessare una nave in grado di recarsi da Discus… alla Cintura Principale… alla Demarchia…» Betha vide che faceva dei rapidi calcoli, «… in un megasecondo e mezzo.»
Stancamente lei si domandò cosa mai avrebbe pensato quell’uomo, se avesse saputo che avevano impiegato solo un terzo di quel tempo. «Allora cosa volete da noi?» Conoscendo la risposta, capì in quel momento che aveva fallito, perché non esisteva un modo per raggiungere Mecca senza essere scoperti.
«Vogliono la sua nave! Andiamocene da qui!» Shadow Jack si lanciò verso la porta, ne spalancò i lembi e s’immobilizzò. Di fronte a lui, in una giacca color rosso vino impeccabilmente ricamata, c’era l’uomo che lavorava per il governo. Perfetto… I suoi occhi si puntarono su Betha e Shadow Jack. Rimase a guardarli sbalordito, e lei capì che questa volta osservava i loro capelli sporchi e scarmigliati, e i loro volti sudici. Non il suo pallore… Betha comprese che il suo viso non costituiva per lui una sorpresa. «Capitano Torgussen» annunciò l’uomo, con un cenno del capo. «E non da Lansing, ovviamente.»
«Lei è avvantaggiato rispetto a me» disse Betha. «Temo di aver dimenticato il suo nome.»
Lui sorrise. Ma tornò a indurirsi quando si girò verso i due fratelli Tiriki, inchinandosi appena. «E cosa vuole fare, allora, la Distillati Tiriki con quell’astronave?» La sua mano incontrò la tuta di Shadow Jack, e lo spinse all’interno della stanza. «Immagino che non stavate scherzando, ragazzi, quando ci avete detto cosa fate per vivere.»
«Chi è lei?» domandò la donna, indignata.
«Wadie Abdhiamal, rappresentante del governo della Demarchia.»
«Governo?» L’uomo fece una faccia strana. «Allora questo affare non la riguarda, Abdhiamal. Si tolga dai piedi prima di finire nei guai.»
«Questo è un discorso da monopolisti, Tiriki. E credo che lei sappia quali idee vi si nascondono dietro. Io sono qui per lavoro… queste persone e la loro astronave sono proprio ciò che sono venuto a cercare su Mecca. Il governo rivendica la nave in nome di tutto il popolo della Demarchia.»
«Le rivendicazioni del suo governo non hanno nessun fondamento, Abdhiamal.» L’uomo osservò la sua immagine riflessa sulla superficie lucida del bancone e si aggiustò il berretto floscio. «Lei sa di non poter accampare diritti su di loro. Li abbiamo visti noi per primi, e ce li teniamo.»
«È la pubblica opinione che mi fa accampare diritti. Nessuno consentirà alla Tiriki di avere il controllo esclusivo di quella nave. Chiederò un pubblico dibattito…»
«Usi pure il mio schermo.» L’uomo lo indicò. «Quando racconteremo alla gente come il governo ha voltato le spalle alla Demarchia pur di impadronirsi di quell’astronave, nessuno vorrà più prestarle ascolto. Lei sarà tagliato fuori da tutto prima ancora di capire cos’è successo.»
«Ma voi sarete tagliati fuori da quell’astronave… e questo è tutto ciò che mi interessa. Convochi il dibattito.»
La donna si diresse verso lo schermo sulla parete.
«Aspettate un solo, maledetto minuto!» Betha si voltò disperata, trafiggendoli tutti con una sola occhiata. «Sessanta secondi (un minuto, nel mondo da cui provengo) per ricordarvi alcune cose che sembra abbiate dimenticato a proposito della mia nave. Primo, è la mia nave. Secondo, soltanto io so dove si trova. E terzo, se credete di potervene impadronire senza la mia totale collaborazione, vi sbagliate di grosso. Il mio equipaggio la distruggerà prima che venga catturata… e distruggerà qualsiasi nave che si avvicini a meno di tremila chilometri di distanza.» Shadow Jack le si affiancò, guardandola con aria interrogativa. Gli altri tacevano, aspettando, mentre la loro frustrazione e la loro avidità le balzavano addosso come lingue di fuoco. «Dunque, pare che vi troviate di fronte a un vicolo cieco. Ma io sono venuta qui per concludere un affare, e ho tutta l’intenzione di concluderlo… dal momento che non ritengo di avere altra scelta. In ogni caso, dubito che ci lascerete andare.»
“Perciò… se ognuno di voi mi spiegherà perché tiene così tanto alla mia nave, io poi vi dirò chi può averla. E non sarebbe male se mi spiegaste anche cosa ci guadagno io…”. «Rusty cominciò a dimenarsi, cercando con le unghie un appiglio sulla tuta liscia. Betha vide che Abdhiamal stava osservando il gatto, e colse sul suo viso uno strano sorriso prima che lui si accorgesse di essere osservato. Abdhiamal non rispose, e Betha ritenne che stesse aspettando una risposta dalla parte opposta.» Allora? «Si voltò; aveva paura di lui, di se stessa, di farsene accorgere.»
I Tiriki parlarono tra loro a bassa voce, e alla fine la guardarono in faccia, bellissimi e determinati. «La sua nave ricostruirebbe la nostra economia… e rivoluzionerebbe tutto il commercio della Demarchia. Da come vanno le cose, non abbiamo tutta la neve che ci occorrerebbe là dove sarebbe facile prenderla; dobbiamo recarci fin sugli Anelli, ed è un bel viaggio, con i razzi a propulsione elettrico-nucleare. E gli Anellani lo rendono ancora più difficile perché sanno che noi non faremmo nulla che possa minacciare la nostra quota di gas. Se possedessimo la sua nave, non dovremmo dipendere da loro. La sua nave farebbe della Demarchia un posto assai migliore per vivere… Lei potrebbe continuare a comandarla, lavorando per noi. La pagheremo bene. Farà parte della compagnia più ricca e potente della Demarchia…»
«E quando la Demarchia protesterà, quella compagnia farà della sua nave una superarma e assumerà il potere.» Abdhiamal la fissava insistentemente.
Betha sentì le sue palpebre tremolare, e l’immagine dell’uomo si sfocò; allora scosse la testa in un gesto di diniego. «Nessuno userà la mia nave come un’arma. Nemmeno lei, Abdhiamal, se è per questo che la vuole.»
«Il governo la vuole perché non possa diventare un’arma e non causi una nuova guerra civile. Lo sa Dio, se quella vecchia non ci sta ancora uccidendo. Qualcuno deve pur garantire che la nave venga usata per il bene di tutta la Demarchia, e non rivolta contro di noi. La tecnologia che avete a bordo potrebbe essere lo stimolo per far rivivere l’intera Cintura. Potremmo riuscire a duplicare il motore stellare, costruirne uno da soli, ristabilire una forma di comunicazione regolare al di fuori della Demarchia. Voi potreste aiutarci…»
«Non gli dia ascolto!» lo interruppe la donna. «Siamo noi il governo, noi, il popolo. Lui non ha l’autorità per fare niente. Sareste fatti a pezzi da chiunque volesse la vostra astronave. Lui non può proteggervi. Rimanete con noi. Ci prenderemo cura di voi.» Alzò le mani. «Non c’è altro posto in cui possiate recarvi.» Betha sentì la minaccia nascosta dietro quelle parole.
«Si prenderanno cura di noi, certo» mormorò Shadow Jack. La sua mano guantata afferrò il polso di Betha, e lo strinse fino a farle male. «Non accetti, Betha. Mentono tutti. Non può fidarsi di nessuno di loro.»
«Shadow Jack.» Lei si voltò lentamente, la sua mano ancora serrata in quella del ragazzo; lo fissò intensamente, e lui la lasciò andare. Betha vide la rabbia abbandonargli il volto, che rimase vuoto e privo di espressione. «E a proposito dell’idrogeno… per Lansing?»
«Provvederemo noi stessi a mandarglielo, nella quantità che vogliono.»
«E lei?» Betha tornò a guardare Abdhiamal. «È vero che le sue promesse sono ingannevoli?»
«Il governo si preoccupa solo del benessere della Demarchia. Perché non chiediamo alla Demarchia? Convocheremo un dibattito generale, e li metteremo al corrente della situazione. Diremo a tutti dove si trova — ma li ammoniremo anche a tenersene lontani — e diremo ciò che voi ci avete riferito. A questo punto nessuno sarà avvantaggiato. Io dirò ciò che la vostra nave potrebbe significare per tutti loro, per l’intera Cintura. Ognuno potrà intervenire per decidere quale sia l’uso migliore da fare di questa opportunità, visto come era destino che andassero le cose… La Demarchia non ha intenzione di farle alcun male, capitano. Ma abbiamo bisogno del suo aiuto. Ce lo dia, e potrà scegliersi la ricompensa che preferisce.»
«Nient’altro che un biglietto di ritorno per casa.» Shadow Jack cercò il suo volto, ma lei evitò i suoi occhi.
«D’accordo.» Allungò la mano per prendere la cassettina di Rusty, e si costrinse a guardare di nuovo Abdhiamal. «Abdhiamal, voglio fare come lei dice…»
L’uomo sorrise, e Betha non riuscì a capire cosa si nascondeva dietro quel sorriso. Dovette lottare contro il desiderio di fidarsi di lui. «Grazie.» L’uomo si voltò verso i due Tiriki. «Convocate un’assemblea.»
«No. Un momento.» Betha scosse il capo. «Non qui. Voglio trovarmi sulla mia nave, quando farò l’annuncio. Se tutti devono conoscere la sua posizione, qualcuno potrebbe tentare di impadronirsene, qualsiasi cosa io dica. Devo essere là per annullare i miei ordini; adesso non intendo perdere la mia nave, e sono sicura che non lo voglia nessuno di voi, no?» Tornò a guardarlo. «Lei verrà con noi sulla nave; trasmetteremo da lì… In fondo, senza carburante non possiamo fuggire, no?»
«Immagino di no. E immagino anche che lei abbia ragione.» Fece un cenno affermativo con la testa, guardando i due fratelli. «Va bene, accetto le sue condizioni.»
«Vada pure con loro, Abdhiamal.» La voce di Esrom Tiriki aveva un tono beffardo. «Questo ci concederà un bel po’ di tempo per diffondere la notizia; i pubblicitari la faranno a pezzi. Quando convocherà l’assemblea, lei sarà diventato il nemico pubblico numero uno. E a quel punto nessuno le darà più ascolto. Può contarci.» La sua mano picchiò violentemente sul bordo del bancone.
Betha vide il sorriso di Abdhiamal irrigidirsi in una smorfia. «Allora muoviamoci subito.»
Infilò Rusty nella cassettina, malgrado le sue proteste, e richiuse il coperchio con una leggera sensazione di gioia per il sacrificio risparmiato. Avvertì dietro di sé lo scambio di sguardi invidiosi fra i due Tiriki; sorrise debolmente.
«Come fa a sorridere, dopo quello che è successo?» borbottò Shadow Jack, prendendo il casco.
A bassa voce lei rispose: «Non ti avevo detto che c’è sempre un motivo per continuare a sorridere?»