«Pappy, si stanno ancora avvicinando?»
«Si stanno ancora avvicinando, Betha.» Clewell Welkin si piegò in avanti mentre in fondo allo schermo apparivano nuove letture. «Ma la velocità si mantiene costante. Forse stanno riducendo la potenza; non possono proseguire in eterno a dieci G. Cristo, non facciamoci colpire di nuovo…»
Betha tornò a premere con il pugno il pulsante dell’intercom. «Andrà tutto bene. Nessuno ci si avvicinerà.» Le tremò la voce, ma era la voce di qualcun altro, non quella di Betha Torgussen, e nessuno le rispose: «Avanti, qualcuno mi risponda. Eric! Eric! Mettiti in contatto…»
«Betha.» Clewell si piegò sul bracciolo imbottito del sedile, e le pose una mano sulla spalla.
«Pappy, non rispondono.»
«Betha, una di quelle navi non si sta ritirando! Sta…»
Lei allontanò la mano dell’uomo, studiando le letture sullo schermo. «Guarda! Vogliono prenderci. Devono farlo; la loro nave brucia carburante chimico, e non possono rischiare di sprecarne così tanto.» Betha trattenne il fiato, premendo le nocche sul freddo pannello metallico fino a farle diventare bianche. «Si stanno avvicinando troppo. Mostriamogli la coda, Pappy.»
I pallidi occhi dell’uomo mandarono bagliori. «Hai intenzione di…»
Betha si alzò a metà, si ritrasse dal quadro comandi e tornò a sedersi. «Clewell, hanno cercato di ucciderci! Sono armati, vogliono impadronirsi della nostra nave, e ci riusciranno, e questo è l’unico modo per fermarli… Facciamogli attraversare la nostra coda, Ufficiale di Rotta.»
«Sì, Capitano.» Clewell si girò e tornò a dedicarsi ai suoi strumenti, cominciando a programmare il mutamento di rotta che avrebbe posto termine al loro inseguimento.
All’ultimo momento Betha commutò Io schermo da “simulazione” a “analisi esterna”, distinse la macchia color ambra dall’astronave inseguitrice, trenta chilometri dietro di loro, e la osservò fugacemente mentre assumeva una tinta dorata per l’alchimia delle particelle supercariche che fuoruscivano dai tubi di scarico della nave. Poi, da dorata che era, la vide diventare più scura e scomparire nel buio dello spazio costellato di stelle. Betha fu scossa da un brivido, pur non provando nessun sentimento, e ridusse la potenza.
«Adesso… cosa facciamo?» A mano a mano che l’accelerazione della nave diminuiva, Clewell si sentì sollevare dal sedile, contro la cintura di sicurezza. Il ciuffo bianco dei capelli gli sporgeva dalla testa, simile a una frangia di ghiaccio.
Sullo schermo davanti a Betha gli anelli di Discus apparvero alla vista, eclissando la notte: un cerchio di venti nastri separati, di argento striato, che andavano dal buio totale al bianco lunare, la montatura del rosso gioiello tremolante di gas che costituiva il pianeta centrale. La sua mano era sul disco selettore, i suoi occhi ardevano, la sua volontà era come paralizzata. Chiuse gli occhi e ruotò il disco.
L’intercom era rotto. Erano ancora seduti attorno al tavolo, Eric e Sean e Nikolai, Lara e Claire, e sollevarono lo sguardo verso di lei, ridendo e riprendendo fiato, poi guardarono aldilà della cupola, lo splendore di Discus nella notte vuota… Betha riaprì gli occhi. E vide la notte vuota. Oh, Dio, pensò. La sala era deserta; se n’erano andati. Oh, Dio. Soltanto le stelle occhieggiavano oltre la plastica infranta della cupola, affollando l’oscurità che li aveva inghiottiti tutti… Non urlò, perduta in quel vuoto senza suoni.
«Sono… sono morti. Tutti. Quella testata esplosiva… ha distrutto la cupola.»
Si volse verso Clewell, pallido e inespressivo. All’improvviso le loro vite se n’erano andate, insieme a tutto il resto. Spaventata, pensò: sembra così vecchio… Meccanicamente sciolse la cintura di sicurezza, si trascinò verso di lui lungo il quadro comandi e gli strinse le mani. Rimasero in silenzio, l’uno vicino all’altra.
Qualcosa di morbido e sinuoso le colpì la testa; Betha balzò in piedi mentre artigli affilati come minuscoli aghi facevano presa sulla carne della spalla. «Rusty!» La donna allungò una mano per liberare il gatto, cominciò a fluttuare e si ancorò col piede alla sbarra che correva lungo la base del quadro comandi. Degli occhi dorati la fissarono da un muso rotondo e chiazzato, al disopra di un naso mezzo nero e mezzo arancione; dei baffi screziati si arricciarono mentre la bocca emetteva un miao simile al cigolio di un cardine non oliato. Betha dovette stringere le mani per impedirsi di lanciare il gatto aldilà della sala. Che diritto ha un animale di essere vivo, quando cinque esseri umani sono morti? Distolse lo sguardo, mentre Rusty allungava una zampa multicolore per toccarla, in una sorta di felina consolazione per un dolore incomprensibile. Betha lo accarezzò e baciò la sua fronte vellutata, trovando conforto nel soffice groviglio del suo calore.
Clewell afferrò la coda ondeggiante di Rusty, insanguinata sulla punta. «Ce l’ha fatta per un pelo.»
Betha annuì.
«Perché mai siamo venuti su Paradiso?» domandò con voce tremante.
Lei alzò gli occhi. «Lo sai benissimo, perché!» Si fermò facendo uno sforzo per controllarsi. «Io non lo so… voglio dire… voglio dire, credevo di saperlo…» Quattro anni prima, quando avevano lasciato Mattino, lei era stata sicura di tutto: la sua destinazione, la sua felicità, il suo matrimonio, la sua vita. E ora, improvvisamente, incredibilmente, rimaneva soltanto la vita. Perché?
Perché il popolo di Mattino, lo squallido mondo più interno di una spietata nana rossa, sognava Paradiso. Paradiso: un sistema solare di tipo-G privo di un pianeta simile alla Terra, ma con una cintura di asteroidi ricca di metalli accessibili. E con Discus, un gigante gassoso circondato da una splendida profusione di acqua ghiacciata, metano e ammoniaca: gli elementi fondamentali per la vita. La cintura ricca di minerali e i gas ghiacciati avevano reso possibile — quasi facile — l’installazione di una colonia completamente autosufficiente nella sua ricchezza; un paradiso nel vero senso della parola, per dei coloni provenienti dalla cintura di asteroidi di Sol, che avevano sempre dovuto dipendere dalla Terra per la loro sopravvivenza. Ed era diventato un sogno per un’altra colonia, Mattino, affamato ormai di qualcosa di più che la sopravvivenza: il sogno di poter stabilire un contatto con la Cintura di Paradiso, e di riuscire ad avere la propria parte di quel bottino sovrabbondante.
Il sogno che aveva condotto l’astronave Ranger attraverso tre anni-luce, e che era stato infranto dall’infrangersi della sala riunioni, dalla realtà dalla morte improvvisa. Lo sconforto tornò a bruciarle gli occhi; vide con la mente i cento metri della sagoma affusolata del Ranger, familiare in ogni linea, in ogni centimetro, stampata indelebilmente nella sua memoria… la vide incrinarsi per una piccola, terribile ferita, vide cinque volti ormai perduti nel buio che cadevano senza fine…
«Cosa facciamo, adesso?» domandò Clewell con voce bassa.
«Proseguiamo… secondo il programma.»
«Vuoi ancora tentare di stabilire un contatto con quei…» indicò con la mano il disastro sullo schermo. «Vuoi portarteli appresso fino in patria, prendendoli per la mano? Perché ci uccidano tutti? Non è sufficiente…»
Betha scrollò la testa, afferrandosi ai braccioli del sedile. «Non abbiamo scelta! Lo sai. A bordo non abbiamo idrogeno a sufficienza per riportare la nave a velocità stellare. Dobbiamo fare rifornimento da qualche parte su Paradiso, o non torneremo mai più a casa.» Fu colpita con violenza da una visione di casa sua: la luce del caminetto che tremolava, la notte prima della loro partenza, e il volto di un bimbo con gli occhi lucidi, nascosto contro la sua gonna. Mamma… ho sognato che tu morivi, mentre andavi su Paradiso. Nel ricordare i singhiozzi di suo figlio che si era appena risvegliato da un incubo, i suoi occhi si riempirono di lacrime, e dell’eterna oscurità. Si morse le labbra. Cristo, io non sono una bambina, ho trentacinque anni!
«Pappy, non cominciare a comportarti come un vecchio.» Betha aggrottò la fronte, nel vedere che l’irritazione aggiungeva dieci anni al volto di Clewell. Senza guardare, allungò una mano e spense lo schermo. «Ormai non abbiamo scelta. Dobbiamo andare avanti.» Dobbiamo fargliela pagare, dissero i suoi occhi, due fessure taglienti dai riflessi di zaffiro. Allontanò delicatamente Rusty, osservandolo zampettare nell’aria, impotente. «Ci è rimasto abbastanza carburante per attraversare l’intero sistema… ma di chi possiamo fidarci? Perché ci hanno attaccato? E quelle navi, quei razzi a propellente chimico… al di fuori dei musei, non dovrebbe più esistere niente di simile! Non ha senso!»
«Forse sono dei pirati, dei rinnegati. Non c’è nessun’altra spiegazione.» Clewell agitò la mano nell’aria, incerto.
«Può darsi» sospirò lei, sapendo che su Paradiso non c’era posto per i rinnegati. Poiché non poteva far altro che prendere per vera quell’ipotesi, dimenticò che il volto irato e noncurante che le aveva lanciato imprecazioni dallo schermo l’aveva chiamata “pirata”. «Allora proseguiremo fino alla Cintura Principale, fino alla capitale, Lansing, com’era programmato. E poi… troveremo un modo per ottenere ciò che ci serve.»