NAVE AMMIRAGLIA +3.00 MEGASECONDI

(SPAZIO DI LANSING)

Un’incursione. Mentre lui, Raul Nakamore, era a caccia della nave fantasma proveniente dallo Spazio Esterno, quella gli aveva letteralmente girato intorno e aveva effettuato un’incursione proprio nella distilleria che le sue navi in prestito erano state chiamate a difendere. Lui, intanto, era ancora bloccato nella sua iniziale e inutile traiettoria in direzione di Lansing, senza il carburante necessario per tentare almeno un ulteriore inseguimento che avesse una minima speranza di successo. Raul tamburellava nervosamente sul bracciolo del sedile, non avendo altro modo per sfogare la sua frustrazione.

Eppure i rapporti ricevuti indicavano che l’astronave non aveva puntato direttamente fuori del sistema: essa stava probabilmente ripercorrendo a ritroso la sua rotta, e si dirigeva di nuovo verso Lansing. Raul diede un’occhiata al pannello dei comandi, e vide che erano trascorsi duemilasettecento chilosecondi; ne rimanevano soltanto ventitré prima di raggiungere Lansing. Come la favola della lepre e della tartaruga… Rallentata dal peso dell’idrogeno rubato, l’astronave non avrebbe mai raggiunto Lansing prima di loro, se Lansing era la sua destinazione. Ma perché avrebbe dovuto esserlo? Perché quegli esseri giunti dall’Esterno dovevano fare i pirati con Lansing quando avevano già sofferto perdite negli Anelli? Per vendetta? Ma avrebbero potuto facilmente distruggere la distilleria, e invece si erano limitati a rubare mille tonnellate di idrogeno: troppo poco per ridurre a mal partito la Grande Armonia, troppo per alimentare un motore stellare.

Ed era stato Wadie Abdhiamal a mostrar loro come rubarlo… Wadie Abdhiamal della Demarchia. Messo fuorilegge dalla Demarchia — aveva detto Djem, — dichiarato traditore dalla sua stessa gente per avere aiutato l’astronave a fuggire. E se c’era una cosa di cui Raul era sicuro, era proprio che Abdhiamal non fosse un traditore. Perché mai doveva avere tradito il futuro del suo popolo? Forse non era uno sciovinista, ma certamente non era pazzo. Perché avrebbe dovuto mettere a repentaglio la sicurezza di Nevi-della-Salvezza quando sapeva meglio di qualunque altro demarca ciò che significava per entrambi i loro popoli? Perché avrebbe dovuto tradire i suoi amici, così da esser tagliato fuori dall’unico rifugio che avrebbe potuto trovare nel suo esilio?

Forse era stato costretto a farlo. Ma Djem non riteneva che Abdhiamal si fosse comportato come un uomo obbligato a fare qualcosa… Raul sapeva che Djem non avrebbe mai perdonato Wadie Abdhiamal per il tradimento della loro amicizia, se non per altre ragioni. Cosa c’era in quella nave, o in chi la guidava, che poteva spingere un uomo come Abdhiamal a sacrificare ogni cosa? Forse non lo avrebbe mai saputo. Ma se quella nave li stava seguendo verso Lansing…

Raul si stiracchiò e si voltò a guardare Sandoval. Quest’ultimo sedeva con un’espressione di inequivocabile noia sul profilo aquilino, rileggendo un nastroromanzo. Un buon ufficiale, pensò Raul. Se pure riteneva inutile o svantaggioso l’uso che lui stava facendo della sua nave e del suo equipaggio, non lo aveva mai dato a vedere. Raul tenne per sé i suoi dubbi e le sue riflessioni personali. Ventitré chilosecondi a Lansing. E forse, alla fin fine, non sarebbero rimasti delusi…


La vista di Discus, raggrinzito fin quasi a divenire insignificante, accolse Raul mentre usciva dal portello e scivolava giù verso la superficie pietrosa del campo commerciale di Lansing. Ricordò che molto tempo prima aveva alzato gli occhi verso il cielo della Demarchia, dove Discus era soltanto un puntolino luminoso, una tra mille stelle sparpagliate, irraggiungibile proprio come una stella. Ricordò il senso di isolamento e di desolazione che l’aveva assalito allora. Ma questa volta, invisibile e tuttavia molto più a portata di mano, c’era la nave che aveva appena lasciato in orbita corta al disopra di Lansing per garantire la loro sicurezza. Si mosse lentamente, aspettando che scendessero anche gli uomini degli equipaggi delle altre due navi ormeggiate, e cercando di sciogliere la tensione e i muscoli un po’ rattrappiti — riconoscente per il ritorno della gravità normale dopo quasi tre megasecondi. — Nel campo c’erano altre tre navi. Le studiò con distratta curiosità, rendendosi conto che Lansing possedeva i razzi elettrico-nucleari che invece la Grande Armonia non aveva; ma accorgendosi anche che quelle navi erano talmente malridotte e pericolose che l’Armonia poteva benissimo farne a meno. Sotto di lui (l’angolo della debole forza di gravità gli fece venire in mente quel termine) la plastica semitrasparente che ricopriva i nove decimi della superficie di Lansing rivelava chiazze di verde e oro che dal suo punto di osservazione assumevano tinte color pastello. Pensò alla neve fluttuante: gas impuri cristallizzati dal freddo.

Quella era Lansing, una volta orgogliosa capitale di un’altrettanto orgogliosa Cintura di Paradiso, mondo unico nel suo genere. Il suo ecosistema indipendente aveva ricreato la Vecchia Terra, e per questo la popolazione era sopravvissuta alla guerra; e anche perché, come capitale, era stata un monumento e nient’altro. Lui sapeva che Lansing era stata ridotta alla pirateria, al tempo del loro ultimo passaggio ravvicinato con Discus; e si domandò cosa fosse divenuta adesso. I suoi uomini erano ostili e nervosi. Lui aveva ordinato di rimanere in tuta anche all’interno dell’asteroide, per isolarli da qualsiasi possibilità di contagio… e anche per proteggerli da altri incidenti che potessero scaturire da un incontro faccia a faccia con gli indigeni.

Si diressero verso l’unica presa d’aria visibile sul fianco della collina al disopra delle navi, e Raul diede un’occhiata all’antenna radio che svettava solitaria sulla cima. Era semiilluminata dalla luce fredda del lontano sole, e sprofondava nell’ombra a mano a mano che il planetoide rotolava via impercettibilmente, ma irrefrenabilmente. Nessuna luce brillava lungo il suo stelo affusolato per avvisare le navi in arrivo al porto. Il suo tecnico radio non era riuscito a captare nessuna trasmissione in risposta da Lansing. Si domandò se le loro comunicazioni fossero fallite del tutto, se addirittura lì non ignorassero l’arrivo della sua nave… se — una specie di sgradevole premonizione — non fossero già tutti morti.

Uno dei suoi uomini girò la manopola del portello sepolto nella roccia, e lui vide che cominciava a ruotare. Gli uomini alle sue spalle attesero senza fretta, senza sollievo, senza il minimo senso di trionfo per avere raggiunto la loro meta. Udì soltanto dei bisbigli frammentari, un borbottio inquieto, il tutto trasmessogli dalla radio della tuta. Quel silenzio lo sorprese, finché si rese conto che era solo un’estensione del suo; quasi che tutti fossero stati contagiati dall’isolamento e dal drappo di morte che circondavano la Cintura Principale così come una specie di tendone cingeva quel mondo. Il portello della presa d’aria finì di girare e si aprì. Con l’improvvisa visione del pozzo che spalancava le sue fauci, le porte dell’inferno, Raul fece il suo ingresso nel sottomondo.

La camera stagna entrò in funzione, sostituendo il vuoto con l’atmosfera in quello spazio affollato. Raul sentì la tuta perdere la sua rigidità, e guardò dietro di sé per accertarsi che nessuno gli disobbedisse togliendosi il casco. Dopo quasi tre megasecondi di incerta aria riprocessata, lui si rendeva conto benissimo di quanto fosse forte la tentazione. Controllò il fucile, e se lo fissò al braccio.

Il portello interno si aprì. Lui guardò all’interno… e vide i volti sbarrati di una mezza dozzina di uomini e donne, paralizzati dall’incredulità. Raul comprese che non era atteso. S’infilò nel corridoio, scrutando i volti atterriti in cerca di un’espressione che gli indicasse chi li comandava; fu colpito dalla loro sporcizia, dai loro abiti rattoppati e malconci. Udì gli uomini dietro di lui che imprecavano, stupefatti, e dovette alzare il tono della voce. «Allora, chi…»

Una donna che avrebbe potuto essere giovane o vecchia si fece avanti, e si diresse verso di lui portando qualcosa avvolto in stracci; Raul vide che le lacrime le rendevano lucide le guance, mentre i suoi occhi scuri lo fissavano con una strana espressione di bisogno. Udì la sua voce tremante che diceva: «Un miracolo, è un miracolo…» Prima che lui potesse reagire, la donna gli mise il fagotto fra le braccia, poi scappò via e scomparve lungo la galleria in discesa. Colto alla sprovvista, Raul abbassò gli occhi e si accorse di tenere in braccio un bambino appena nato. Il neonato non emetteva alcun suono; quando si rese conto del perché, lui distolse lo sguardo. «Di chi è questo bambino?» La sua voce era dura per la rabbia, per il rifiuto.

Uno degli uomini avanzò verso di lui con la paura ancora dipinta in faccia, travolto da chissà quale disperazione. «È mio… nostro. Per favore… per favore, me lo dia.» Da come si esprimeva, sembrava che stesse parlando di una cosa. Protese le braccia verso di lui, e una delle maniche scivolò giù, lacera fino al gomito. Le unghie erano nere per la sporcizia, e le linee delle mani erano anch’esse sudice in maniera incredibile.

Raul protese lentamente in avanti il bambino, incerto sul da farsi. Il padre l’afferrò, quasi strappandoglielo dalle mani. Poi, all’improvviso, l’uomo si fece strada attraverso il cerchio di marinai armati e, giunto al portello, vi infilò dentro il bambino; la mano trovò il quadro comandi e premette l’interruttore, mettendo in funzione il meccanismo di chiusura.

Raul vide Sandoval balzare in avanti, ma l’uomo si afferrò alla parete, coprendo il quadro con il corpo, mentre il portello cominciava a chiudersi. Il pugno guantato di Sandoval lo prese per la camicia, sul davanti, lacerando il tessuto consumato; l’altro lo allontanò con un calcio. Il portello si chiuse definitivamente mentre Sandoval cercava di infilare le dita nella fessura. Sopra le loro teste la luce trascolorò dal verde al rosso. «Perché…» Sandoval si voltò, mentre due dei suoi uomini si ponevano ai lati dell’indigeno, bloccandolo.

«Sandoval!» Raul alzò una mano. «Basta così. Basta così… È stato un omicidio per pietà. Lo lasci.»

«Signore…» La rabbia impotente di Sandoval rimase intrappolata aldilà della visiera.

Raul scosse la testa, allontanando il ricordo dei suoi cinque figli, tre femmine e due maschi, tutti ormai cresciuti e in buona salute. Osservò il padre che si accasciava pian piano contro la parete mentre gli uomini dell’equipaggio lo lasciavano. Lo sventurato tirò tristemente i lembi strappati della sua camicia, riunendoli come se si trattasse di una ferita mortale.

Raul guardò lungo la galleria, e si accorse che tutti gli altri erano spariti. Allora si diresse verso il loro prigioniero attraverso la rabbia soffocante dei marinai, attraverso i loro volti tesi. L’uomo si fece piccolo, sollevando le mani. «Dovevo farlo… dovevo. Qualcuno doveva farlo; lei lo sapeva, ma non voleva riconoscerlo! Lo dicevano tutti. Sarebbe morto comunque… non è vero? Non è vero? Lo ha visto, era malformato…» Abbassò le mani, protendendole verso il braccio di Raul, coperto dalla tuta. «Lei lo ha visto?»

Raul strinse il pugno, soffocando il desiderio di respingere con violenza quella mano. Respirò a fondo. «Sì, l’ho visto. Non sarebbe sopravvissuto.»

L’uomo cominciò a piagnucolare, aggrappandosi alla sua manica. «Grazie… grazie…»

Raul l’afferrò e lo scosse con rudezza, preso da una sensazione a metà fra il disgusto e la pietà. «Chi sei?»

L’uomo lo guardò con aria istupidita, senza capire.

«Il tuo nome» disse Raul. «Fatti riconoscere.»

«Wind… Wind Kitavu.» Poi si raddrizzò e si liberò dalla stretta di Raul, mentre nei suoi occhi tornava un’espressione ragionevole; occhi da vecchio sul volto di un giovane. «Chi… cosa fate qui?»

«Faccio domande. Per prima cosa, qui c’è qualcuno che comanda, e in tal caso puoi portarci da lui?»

Wind Kitavu annuì, fissando distrattamente le bocche di una mezza dozzina di fucili puntati su di lui. «Il primo ministro, l’Assemblea. Io so dove sono le camere. L’accompagno…» Le sue dita cercarono nuovamente lo strappo della camicia, riaccostando nervosamente gli orli. «Lei non è…» Raul vide la domanda fermarsi sulle sue labbra, e poi ritornargli in gola. «Vuole che la porti?»

Raul fece cenno agli uomini di farsi da parte e seguì Wind Kitavu in mezzo a loro; alle sue spalle si misero in cammino i marinai. Lui si accorse che una delle gambe del prigioniero era più corta dell’altra, e deforme. Le porte dell’inferno; la capitale di Paradiso.

Non vennero ricondotti in superficie come si era aspettato. Wind Kitavu li guidò lungo i corridoi sotterranei, dove uomini e donne dall’aria inebetita e i capelli stoppacciosi li guardarono passare, rivelando un misto di paura e meraviglia, ma soprattutto smarrimento. Nessuna minaccia. Raul sentì la sua circospezione trasformarsi lentamente in un vago senso di avvilimento. Una donna si fece avanti e prese a camminare a fianco di Wind Kitavu. «…astronave…?» Wind Kitavu scrollò la testa, e lei si dileguò con un’espressione preoccupata. Nel passarle davanti Raul vide la disperazione in quegli occhi, e il suo stato d’animo migliorò.

Eseguendo gli ordini ricevuti, Wind Kitavu gli indicò la strada che portava al centro comunicazioni, e lui inviò Sandoval con due uomini in avanscoperta. Insieme agli altri proseguì il cammino, domandandosi cosa avrebbero trovato una volta raggiunte le sale dell’assemblea.

Qualsiasi cosa si fosse aspettata, non era certo preparato a quello che scoprì alla fine. Qualcuno aveva già avvisato del loro arrivo: sette figure lo attendevano in piedi, minuscole in una vasta sala dalle pareti ruvide; istintivamente Raul capì che in origine quell’ambiente doveva essere stato destinato al magazzinaggio e non certo a luogo di riunione. E come cristalli preziosi su uno sfondo di nuda roccia, i cinque uomini e le due donne risplendevano nelle loro uniformi di gala. Un uomo, notò Raul, stava ancora sistemando i lembi di una manica che per la fretta si era spiegazzata. Il più vicino di essi si fece avanti con un incedere leggero e cerimonioso, il volto serio e inespressivo, di circostanza. Mentre il dignitario si avvicinava, Raul studiò i ghirigori dei diversi strati di broccato: le fibre assorbivano e intensificavano la luce, restituendola ai suoi occhi in una cascata di fuoco scintillante. Poi, osservando meglio, cominciò a vedere in mezzo al bagliore dei punti più scuri e spenti. Gli abiti erano macchiati e consumati, corrosi dal tempo. L’uomo indossava un copricapo floscio a turbante, fatto dello stesso tessuto; il suo volto segnato e le sue mani rugose, che spiccavano scuri contro la brillantezza dell’abbigliamento, erano puliti.

Raul attese in silenzio finché il dignitario lo raggiunse. Gli altri sei membri dell’assemblea, perso il loro consunto splendore, si raggrupparono lentamente intorno a lui. I loro occhi erano puntati più sull’arma di Raul che sul suo viso. Alla fine l’uomo prese a fissare la visiera di Raul, cercando d’incontrare il suo sguardo. «Io sono Silver Tyr…» la voce lo sorprese per la sua involontaria arroganza, «…Presidente dell’Assemblea di Lansing, Primo Ministro della Cintura di Paradiso…»

L’uomo s’interruppe, mentre all’interno del casco di Raul risuonava una risata; lì per lì non si rese conto che non era la sua, soffocata sul nascere, ma quella di uno dei suoi uomini. Sollevò una mano per fermarla, immaginando l’ironico clangore di quella risata riverberata nella sala.

«E lei è…?» Il primo ministro si costrinse a pronunciare quelle parole con rigida dignità… chiedendo rispetto non per l’ombra di un vecchio, ridicolo negli stracci di una perduta ricchezza, ma per il fatto innegabile di un sogno ormai svanito, di ciò che tutti loro erano stati, una volta, prima di perdere la grazia originale.

«Raul Nakamore, Mano dell’Armonia.» E quasi senza pensarci protese la mano, protetta dal guanto contro la contaminazione ma aperta in un gesto d’amicizia e di riconoscimento. «Non intendiamo farvi del male; vogliamo soltanto la vostra collaborazione finché resteremo qui.»

Il primo ministro porse a sua volta la mano con esitazione, come se temesse di vedersela mozzare. «E qual è il motivo che vi ha fatto venire qui, signore?»

Rual gli diede una stretta e lo lasciò prima di rispondere. «Siamo venuti per catturare dei pirati, Vostra Eccellenza.» Rispolverò quel titolo insolito da qualche lezione di storia mezza dimenticata, notando su più di un volto un sussulto malcelato di colpevole consapevolezza.

Sentendosi osservato, il primo ministro disse in tono quasi di protesta: «Ma ciò è avvenuto quasi un gigasecondo fa, Mano Nakamore… e si è trattato di un atto di necessità, come lei deve ben sapere. Di certo non avrà fatto tutta questa strada, non avrà perso tutto questo tempo solo per punire…»

«Non sto parlando della vostra ultima incursione sugli Anelli… credo che lei lo sappia. Mi riferisco a un’astronave proveniente dall’esterno della Cintura di Paradiso, che ha distrutto una nave della nostra Marina e ha compiuto una scorribanda in una delle nostre maggiori distillerie… e che nel fuggire da questo sistema sta per passare in prossimità di Lansing…»

«Signore…» Raul udì la voce di Sandoval, e si voltò al rumore di altri uomini che entravano nella sala.

Sandoval e i due marinai che lo accompagnavano si unirono al gruppo, scortando una donna infuriata, dal viso sottile. Pelle bruna, occhi bruni, capelli bruni che stavano ingrigendo sulle tempie: Raul le rivolse un’occhiata indagatrice, e altrettanto fece la donna. Quando lei scorse i membri intonacati dell’assemblea, la sua ira sembrò esplodere in una vampata di muto disprezzo. Poi tornò a guardare lui, e la rabbia si placò; ma Raul capì che era come un fuoco soffocato, controllato, ancora ardente sotto la superficie.

«Signore, abbiamo trovato questa donna in sala radio. Afferma che la loro trasmittente è fuori uso.»

Lui annuì, poi si girò verso il primo ministro, che stava dicendo: «Non sappiamo niente di quest’astronave. Lei ha visto le navi che abbiamo; sono le uniche, e non sono neppure più in grado di raggiungere Discus…»

«Guarda in faccia la realtà, Silver Tyr!» Il tono tagliente della voce della donna fu come una sferzata. «Lui ha capito benissimo che stai mentendo; voi tutti non potete coprire la verità più di quanto quelle toghe coprano i vostri stracci. E se prima ignorava la verità, adesso la conosce. La cosa migliore che possiamo fare è collaborare, come dice lui, e magari sperare che sia disposto a mettersi d’accordo…»

«Flame Siva! Vorresti tradire l’unico popolo nell’universo che si preoccupa di noi al punto di aiutarci? E tua figlia…»

«Nessuna creatura deforme è mia figlia.» La sua voce la tradì. Raul sentì il calore di un amaro sgomento nelle sue parole. La figura ricurva dello zoppo Wind Kitavu s’irrigidì, facendo un passo indietro. «Comunque, date le circostanze, tutto questo è irrilevante.»

Il primo ministro aggrottò la fronte. «Due dei nostri sono a bordo dell’astronave. Dicono che è stata la Grande Armonia ad attaccare per prima l’astronave, e questa ha tutti i diritti di fare ritorsioni contro di voi; e voi, a nostro giudizio, non avete nessuna pretesa legale su di essa. Non intendiamo renderci complici di qualsiasi tentativo per catturarla.»

«Capisco.» Anche Raul aggrottò la fronte, rendendosi conto che non c’era proprio niente che lui potesse fare a quella gente, perché aveva già distrutto la loro unica speranza. «Fortunatamente per voi, non abbiamo realmente bisogno della vostra collaborazione… ma non tollereremo interferenze. Intendiamo aspettare qui finché arriverà quella nave.» Studiò le loro reazioni, e seppe con sicurezza, e con una specie di fredda gioia, che sarebbe arrivata. «Una delle mie navi è rimasta in orbita sopra Lansing; se incontreremo resistenze, il capitano ha ordine di perforare il vostro schermo protettivo. Perciò, se volete vivere quel poco che vi rimane da vivere, non mettetevi in mezzo.»

«Anche su Lansing non corriamo incontro alla morte, Mano Nakamore.» Il primo ministro abbassò gli occhi sul suo fucile.

«Specialmente su Lansing» aggiunse Flame Siva. «Noi siamo materialisti, Mano Nakamore, realisti. Almeno, dovremmo esserlo.» Fece una pausa. «Cos’ha intenzione di fare con quella nave e con il suo equipaggio? Cercherà di impadronirsene senza distruggerla?»

Raul fece una breve risata. «Ci proveremo. Ma piuttosto che lasciarcela sfuggire di nuovo, sarei disposto a smantellarla definitivamente. E vogliamo l’equipaggio vivo, perché ci insegni come farla funzionare. Ma se rifiutassero di farci salire a bordo… la pirateria è un delitto capitale sotto qualsiasi legge, punibile con la morte.» Vide che i membri dell’assemblea si scostavano, lanciando scintillii.

«Lei ha perso già gran parte dell’equipaggio per causa sua» mormorò la donna, con la testa rivolta verso il basso.

«Lei?» Raul sembrò sorpreso. «È esatto…» aggiunse poi, ricordando quel particolare così alieno e la scoperta di resti umani… «… lei: una donna pilota. Dunque è a corto di equipaggio?»

«Due dei nostri sono con loro» ripeté la donna. Raul si rese conto che era più di una semplice affermazione di fatto: sua figlia, aveva detto il primo ministro. La donna alzò una mano, agitata, poi se la passò sul collo e sui capelli intrecciati, controllando un gesto inequivocabile di minaccia. «Il capitano ci ha promesso l’idrogeno di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, se l’avessero aiutata a procurarsene per la sua nave… quell’idrogeno che voi non volete dividere con noi e che siamo costretti a prenderci con la forza.»

Lui attese senza dire nulla, poiché la donna non aveva assunto un atteggiamento di sfida.

«Cosa ci dareste se vi aiutassimo a catturare intatta la nave?»

Di nuovo sorpreso, lui domandò: «In che modo potreste garantircelo?»

La donna si strinse le magre braccia con le mani ossute, facendo scivolare all’indietro le maniche troppo lunghe e ampie.

«Mi consenta di terminare le riparazioni alla radio… mi fornisca le parti necessarie, se le ha.» Poi sollevò lo sguardo, mostrando gli occhi duri e brillanti. «Mi faccia mettere in contatto con la nave quando si avvicinerà, per assicurarli che può atterrare senza pericolo, così lei potrà impadronirsene facilmente.»

«Possiamo farlo noi stessi.»

«No, non potete. Mia… la nostra gente a bordo della nave conosce questa radio e i suoi problemi, e conosce anche la mia voce. La voce di uno straniero potrebbe far sospettare che c’è qualcosa che non va… e così anche il silenzio radio.»

«Forse non ha tutti i torti» ammise Raul, annuendo.

«Ci darete l’idrogeno, se lo farò?» Stavolta con la massima calma.

«Se la nave riesce a sfuggire, se ne andranno con tutto l’idrogeno!» esplose Wind Kitavu. «Non sprechiamo la nostra unica occasione…»

Lei si voltò a guardarlo, e lo tacitò con un’occhiata. Raul si domandò che espressione avesse assunto. La donna si girò di nuovo verso di lui. «Lo farà?»

Sapendo quanto sarebbe stato facile mentirle, lui rispose: «Chiederò l’autorizzazione. Forse riuscirò a ottenerla, forse no.» Poi attese una reazione da parte della donna, e rimase stupito nel vederla quasi esasperata, come se avesse preferito sentire una menzogna, trovare una scusa per perpetrare il suo tradimento. O c’era qualcos’altro? Pensò a Wadie Abdhiamal.

«E che ne farà dell’equipaggio? se riuscirà… a prendere la nave intatta?»

«Intende dire se li lascerò vivi?» Sua figlia… e alla fine trovò in ciò una spiegazione sufficiente. «Le sta così a cuore?»

Flame Siva trasalì; i suoi occhi erano ceneri ardenti, ma la voce aveva perso ogni vitalità. «Sì… certo che mi sta a cuore…» Poi, d’un tratto, in tono di sfida: «Tutti mi stanno a cuore! Stanno cercando di salvarci!» S’interruppe, mordendosi le labbra.

Raul si spostò un poco. «Se non oppongono resistenza, libereremo tua figlia e l’altro; se è questo che vuoi.» Sarà già una punizione sufficiente. «Quanto agli altri… a bordo c’è un traditore della Demarchia che ha fornito loro le informazioni per attaccare la nostra distilleria. Non credo che abbia molta scelta.» Ma voglio ancora una spiegazione. «Gli altri, gli alieni, o ciò che rimane di loro… immagino che in un modo o nell’altro collaboreranno con la nostra marina.»

«Lei non li lascerà mai andare.» Non era una domanda.

«Non credo che ci sarà mai una possibilità di trattare la questione, tra noi e loro.»

Lei annuì, o forse scosse la testa con uno strano movimento laterale. «Noi facciamo quello che possiamo, qui… e prendiamo quello che troviamo. Siamo responsabili delle nostre azioni.» Di nuovo la sfida, la provocazione, il fuoco… la donna fissò gli spettri incarnati dell’assemblea di Lansing. «Ce ne assumiamo le conseguenze.»

«Sandoval.» Raul gli fece cenno di venire avanti. «La riporti indietro e lasci che lavori alla riparazione della radio. Ma qualunque cosa succeda, non le permetta di trasmettere nulla, ripeto, nulla, a meno che io l’autorizzi.»

«Sì, signore.» Sandoval fece un rapido saluto e condusse via la donna; quest’ultima lasciò la sala a testa alta, fiancheggiata dalle guardie.

Raul incaricò altri due uomini di controllare il portello di ingresso, e ne tenne uno con sé. Il primo ministro e l’assemblea attesero, rendendosi conto ancora una volta — così come se ne rendeva conto lui — della loro mancanza d’importanza, della loro perdita di autorità.

Il primo ministro si rivolse a Wind Kitavu, mentre i suoi abiti si aprivano come un germoglio. «Tu. Cosa ci fai quaggiù?»

«So quello che stavo facendo.» Wind Kitavu fece un balzo ad arco, allontanandosi dalla parete. «Il bambino. Lo sapete tutti, non comportatevi come se non lo sapeste.»

Il primo ministro si ritrasse con un movimento che non si addiceva a un dignitario. «Allora non aspettarti niente da noi! Sapevi cosa sarebbe accaduto. Accetta i tuoi errori… torna al lavoro.» Il primo ministro tese il braccio.

Raul vide la sporcizia sotto la manica, uno strato incrostato dal polso al gomito. Udì uno dei suoi uomini ridere di nuovo rumorosamente, ma stavolta non fece nulla per zittirlo. Distolse lo sguardo. «Wind Kitavu.»

Wind Kitavu si fermò a metà del suo cammino in direzione della porta.

«Esci in superficie?»

Un cenno affermativo con il capo; il volto rimase inespressivo. «Vado a dirlo a mia… moglie. A dirle del bambino.»

«Allora ti seguiremo. Voglio vedere quei maledetti giardini.»

«Maledetti giardini…» Quelle parole riecheggiarono, ma sembrava la voce di qualcun altro. Wind Kitavu si diresse verso l’uscita. Raul non si voltò per rendere omaggio al Primo Ministro di tutta la Cintura di Paradiso.

Raul seguì la sua insensibile guida attraverso altre gallerie, stavolta verso l’alto. In un punto davanti a loro apparve una luce che si allargò sempre più via via che loro si avvicinavano… una luce così intensa che poteva essere solo quella del sole. Ma in questa occasione Raul affrontò la luce del giorno in un modo che era stato naturale per la specie umana in tutti gli innumerevoli anni della sua esistenza, un modo che per lui era completamente nuovo e inaspettato: passò dall’oscurità alla luce liberamente, facilmente, senza che nessuna barriera si frapponesse fra loro.

E si fermò, emergendo sul fianco della collina, assorbendo la verde, accecante luminosità, e lasciandosene assorbire. Ebbe un improvviso, vivido ricordo delle serre idroponiche dell’Armonia, il calore e l’umidità che le rendevano un inferno soffocante per il cittadino medio. Il marinaio che lo accompagnava si ritrasse nell’imboccatura della galleria, e lui gli ordinò seccamente di tornare al suo posto. A tutti i cittadini era richiesto un servizio periodico nei laboratori idroponici, una specie di prova che tutti dovevano sopportare. Lo aveva fatto anche lui, da giovane, ma adesso che era diventato una Mano dell’Armonia non gli era più richiesto. Forse il rango ha i suoi vantaggi.

Ma il gruppetto di cenciosi lavoratori che si stava radunando in quel momento non aveva un’aria più invidiabile di quelli che si era appena lasciato alle spalle nella galleria. Isolato dalla tuta, non avrebbe mai sperimentato la realtà dei giardini, come era stata la vita sulla Vecchia Terra. Due futuri erano in attesa per lui, nell’equilibrio della vita e della morte… e in un caso o nell’altro, quell’opportunità non gli si sarebbe mai più ripresentata…

Tornò a guardare quel mucchio ondeggiante di volti sporchi e tristi, le deformità genetiche che li segnavano come un marchio d’infamia. Sopra di loro, in mezzo ai tralicci e ai ghirigori degli alberi fragili e indistinti, il tetto del cielo era una membrana trasparente sfigurata da troppi rappezzamenti di diversa forma e colore. Lassù, una volta, doveva esserci stato qualcos’altro, uno schermo di energia per proteggerli dalle radiazioni solari… una protezione che da lungo tempo era andata perduta. Nella Grande Armonia il lavoro permanente nei laboratori idroponici veniva assegnato come punizione. Anche lì era una punizione, ma in un modo diverso, per il delitto di essere vittima… Tenne addosso il casco, di nuovo preoccupato al pensiero della contaminazione: non la contaminazione della malattia, ma quella ben più pericolosa dello spirito. In fondo quello era un posto con cui non voleva avere nessun tipo di contatto.

«Cosa succede adesso?» Uno degli uomini afferrò la manica di Wind Kitavu, tirandogli fuori un lembo della camicia già malconcia. «Si mettono le tute per venire fuori a farci la predica?»

Wind Kitavu si liberò dalla presa, sistemandosi di nuovo la manica sul braccio. «No… La sua voce si affievolì, mentre cercava di spiegare a gesti. Raul non riuscì a cogliere le sue parole, accorgendosi che l’atmosfera si stava impercettibilmente animando; osservò il lieve agitarsi degli alberi, e notò un’espressione ormai fin troppo familiare farsi strada di volto in volto, in mezzo al gruppo dei lavoratori: una desolazione così totale da non potersi neppure trasformare in rabbia.»

Wind Kitavu chiese a sua volta qualcosa, e l’uomo che lo aveva fermato indicò vagamente in una certa direzione. Senza chiedere il permesso, senza nemmeno girarsi a guardarli, Wind Kitavu se ne andò, scomparendo in mezzo ai cespugli e facendo cadere al suo passaggio leggere nuvolette di petali colorati. Il bambino. Raul non fece nulla per fermarlo, poiché ricordava ciò che andava a fare e non aveva perciò nessun desiderio di esserne testimone. Gli altri lavoratori cominciarono a dileguarsi di qua e di là, ma continuarono a seguirlo con lo sguardo mentre i loro piedi nudi si scostavano dal morbido tappeto di vegetazione calpestata.

Raul diede un’occhiata nella galleria, ancora vuota alle sue spalle, e si accorse solo in quel momento che le lampade della volta non rivelavano fiamme. Elettricità… da qualche parte quella gente aveva ancora un generatore funzionante, probabilmente una batteria atomica di prima della guerra, o magari ottenuta più tardi dalla Demarchia a seguito di un accordo commerciale. Raul dovette ammettere che la Grande Armonia non possedeva nulla proprio a causa della Demarchia. Se non fosse stato per l’abbondanza di neve, la Grande Armonia si sarebbe trovata in una posizione peggiore di quella di Lansing… e l’unica posizione peggiore era la morte.

Il pensiero della Demarchia lo indusse a pensare a Wadie Abdhiamal, e al mistero che si nascondeva dietro il loro imminente incontro. Lui aveva visto Abdhiamal in veste di negoziatore su Nevi-della-Salvezza: privo di esperienza, incerto della sua posizione, ma capace di strappare la collaborazione da entrambe le parti in virtù di un istinto all’imparzialità che dissolveva i pregiudizi culturali con la stessa facilità con cui un coltello arroventato taglia un blocco di ghiaccio. E come comandante della nave lui aveva trasportato Abdhiamal a diverse riunioni nell’Armonia Centrale e su metà dei planetoidi disabitati degli Anelli. Aveva visto quell’uomo ignorato, insultato, seriamente minacciato, ma non l’aveva mai visto perdere la pazienza… E aveva provato sorpresa, sospetto e infine piacere quando Abdhiamal gli aveva rivolto delle domande in merito alla politica governativa dell’Armonia. Si era compiaciuto, in fondo, nel constatare che Abdhiamal ascoltava e apprendeva davvero, e faceva uso di ciò che aveva appreso per aiutare tutti loro.

L’unica debolezza che aveva riscontrato in Wadie Abdhiamal era la sua incapacità a trattare un’unica cosa: l’inevitabilità della fine di Paradiso. Abdhiamal riteneva ancora possibile una soluzione; mentre lui, Raul, come il popolo di Lansing, si era già reso conto da lungo tempo che l’unica prospettiva era la morte. Eppure cominciava a sospettare che l’ossessivo ottimismo di Abdhiamal nascondesse una convinzione altrettanto assoluta che Paradiso era condannato… più ancora, nascondeva una paura profonda, patologica: Abdhiamal non era un uomo capace di accettare l’idea che tutto ciò che aveva fatto non avrebbe avuto, alla fine, alcun significato. Né poteva continuare su quella strada sapendo che la fine era ormai prossima; avrebbe perso l’equilibrio e sarebbe caduto, travolto dal fardello della sua stessa consapevolezza. E così una parte della sua mente aveva sostituito la verità con una menzogna che gli permettesse di andare avanti. Raul aveva invidiato ad Abdhiamal la Demarchia, la cui relativa ricchezza lo aveva aiutato a rafforzare le sue illusioni. E si era domandato se qualcosa lo avrebbe mai convinto ad ammettere la verità…

Ma l’astronave… perfino lui, Raul, aveva riscoperto la speranza per ciò che essa poteva offrire a Paradiso… e, in particolare, alla Grande Armonia. Perché Abdhiamal, tutti quanti, si adoperavano con tanto accanimento per evitare che i loro governi mettessero le mani su quella nave? Abdhiamal era un uomo onesto… ma lo era fino al punto della pazzia, o del genocidio? E la donna che guidava la nave… perché doveva correre simili rischi per mantenere una promessa fatta a un angolo di universo come Lansing? Erano impazziti, quei due, o forse tutti? O c’era qualcosa che lui non riusciva a capire?… Troppe erano le cose che lui non riusciva a capire. Ma se quella donna avesse mantenuto la sua promessa, se quella nave gli fosse caduta proprio fra le mani… quella era l’unica risposta di cui avrebbe sempre avuto bisogno. Sempre.

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