CAPITOLO XIX CYRUS SMITH RACCONTA LA SUA ESPLORAZIONE «VENGONO INTENSIFICATI I LAVORI DI COSTRUZIONE» UN’ULTIMA VISITA AL RECINTO «BATTAGLIA TRA IL FUOCO E L’ACQUA» CIÒ CHE RIMANE SULLA SUPERFICIE DELL’ISOLA «SI DECIDE DI VARARE LA NAVE» LA NOTTE DALL’8 AL 9 MARZO

LA MATTINA seguente, 8 gennaio, dopo un giorno e una notte passati al recinto, e aver lasciato tutto in ordine, Cyrus Smith e Ayrton tornarono a GraniteHouse.

Tosto l’ingegnere adunò i compagni e comunicò loro che l’isola di Lincoln correva un grandissimo pericolo, che nessuna potenza umana poteva scongiurare.

«Amici miei,» disse, e la sua voce tradiva un’emozione profonda «l’isola di Lincoln non è di quelle destinate a durare quanto il globo. È votata a una distruzione più o meno prossima, la cui causa è nell’isola stessa, e nulla potrà sottrarla al suo destino.»

I coloni si guardarono e guardarono l’ingegnere. Non potevano seguirlo.

«Spiegatevi, Cyrus!» disse Gedeon Spilett.

«Mi spiego,» rispose Cyrus Smith «o, piuttosto, non farò che trasmettervi la spiegazione che, durante i nostri pochi minuti di colloquio segreto, mi fu data dal capitano Nemo.»

«Il capitano Nemo!» esclamarono i coloni.

«Sì, è l’ultimo servigio che ha voluto renderci, prima di morire!»

«L’ultimo servigio!» esclamò Pencroff. «L’ultimo servigio! Vedrete, che, anche da morto, ce ne renderà ancora degli altri!»

«Ma che cosa vi ha detto il capitano Nemo?» chiese il cronista.

«Sappiatelo, dunque, amici» rispose l’ingegnere. «L’isola di Lincoln non è nelle condizioni in cui si trovano le altre isole del Pacifico, e una conformazione particolare, che il capitano Nemo mi ha fatto conoscere, condurrà, presto o tardi, allo smembramento della sua struttura sottomarina.»

«Uno smembramento! L’isola di Lincoln! Andiamo, dunque!» esclamò Pencroff, che, malgrado tutto il rispetto per Cyrus Smith, non poté trattenersi dall’alzare le spalle.

«Ascoltatemi, Pencroff» riprese l’ingegnere. «Ecco quanto aveva constatato il capitano Nemo e quello che ho constatato io stesso, ieri, durante l’esplorazione da me fatta alla cripta Dakkar. Questa cripta si prolunga sotto l’isola fino al vulcano e soltanto la sua parete di fondo la separa dal camino centrale. Ora, questa parete è solcata da fratture e da fessure, che lasciano già passare i gas solforosi dall’interno del vulcano.»

«Ebbene?» domandò Pencroff, corrugando fortemente la fronte.

«Ebbene, mi sono reso conto che quelle fratture vanno gradatamente ingrandendosi sotto la pressione interna, che la muraglia di basalto si spacca a poco a poco e che, in un tempo più o meno breve, essa lascerà via libera alle acque del mare, di cui è piena la caverna.»

«Bene!» replicò Pencroff, tentando ancora una volta di scherzare. «Il mare spegnerà il vulcano e tutto sarà finito!»

«Sì, tutto sarà finito!» rispose Cyrus Smith. «Il giorno in cui il mare si precipiterà attraverso la parete e penetrerà per il camino centrale, fin nelle viscere dell’isola, ove bollono le materie eruttive, quel giorno, Pencroff, l’isola di Lincoln salterà, come salterebbe la Sicilia, se il Mediterraneo si precipitasse nell’Etna!»

I coloni non risposero a quelle parole, così crudamente chiare dell’ingegnere. Avevano capito quale pericolo li minacciava.

Infatti, Cyrus Smith non esagerava in alcun modo. Molti ebbero già l’idea che sarebbe forse stato possibile spegnere i vulcani, i quali si elevano quasi tutti in riva al mare o ai laghi, aprendo un passaggio alle acque. Ma non sapevano che avrebbero così corso il rischio di far saltare una parte del globo, come una caldaia il cui vapore salga improvvisamente di pressione per effetto di un eccesso di fuoco. L’acqua, precipitandosi in un ambiente chiuso, la cui temperatura può essere valutata a migliaia di gradi, evaporerebbe con una così subitanea energia, che nessun involucro potrebbe resistere.

Non c’era dubbio, dunque, che l’isola, minacciata da uno sconvolgimento spaventevole e prossimo, sarebbe durata solo finché fosse durata la parete della cripta Dakkar. Quindi, non era nemmeno questione di mesi, né di settimane, ma era questione di giorni, di ore, forse!

Il primo sentimento dei coloni fu un dolore profondo! Essi non pensarono al pericolo che li minacciava direttamente, ma alla distruzione di quel suolo, che aveva dato loro asilo, di quell’isola che avevano fecondato, che amavano e che avrebbero voluto rendere fiorentissima. Tante fatiche inutilmente spese, tanto lavoro perduto!

Pencroff non poté trattenere una grossa lacrima, che scivolò lungo la sua guancia, e che egli non cercò nemmeno di nascondere.

La conversazione continuò ancora per qualche tempo. Furono esaminate tutte le probabilità su cui i coloni potevano ancora far assegnamento; ma, per concludere, tutti riconobbero che non c’era un’ora da perdere, e che la costruzione e l’allestimento della nave dovevano essere accelerati con una prodigiosa attività, poiché in essa, ormai, stava la sola probabilità di salvezza per gli abitanti dell’isola di Lincoln!

Tutte le braccia furono dunque mobilitate. A che cosa avrebbe servito oramai mietere, raccogliere, cacciare, accrescere le riserve di GraniteHouse? Ciò che contenevano ancora il magazzino e le dispense di GraniteHouse sarebbe stato più che sufficiente ad approvvigionare il bastimento per una traversata, per quanto lunga. L’indispensabile era che potesse essere a disposizione dei coloni prima che si verificasse l’inevitabile catastrofe.

I lavori furono ripresi con ardore febbrile. Verso il 23 gennaio, il fasciame era per metà fissato. Fino allora nessuna modificazione s’era prodotta alla sommità del vulcano. Dal cratere uscivano sempre vapori e fumo misti a fiamme e a pietre incandescenti. Ma durante la notte dal 23 al 24, sotto la violenza della lava, che arrivò a livello del primo ripiano del vulcano, questo perdette il cono, che formava come un cappello sulla sua vetta. Rimbombò un fragore spaventoso. I coloni credettero dapprima che l’isola si smembrasse e si precipitarono fuori di GraniteHouse.

Erano circa le due del mattino.

Il cielo era in fiamme. Il cono superiore del vulcano, un massiccio alto mille piedi e pesante miliardi di libbre, era stato precipitato sull’isola, che ne aveva tremato. Fortunatamente, l’inclinazione di quel cono era dal lato nord, ed esso cadde quindi sulla pianura di sabbie e di tufi che si stendeva fra il vulcano e il mare. Il cratere, ormai largamente aperto, proiettava verso il cielo una luce così intensa, che il solo effetto del riverbero bastava a far sembrare l’atmosfera incandescente. Nello stesso tempo, un torrente di lava, affluendo abbondantemente al nuovo sbocco, si riversava in lunghe cascate, come l’acqua che trabocca da una vasca troppo piena, e mille serpenti di fuoco strisciavano sulle pendici del vulcano..

«Il recinto! Il recinto!» gridò Ayrton.

Era verso il recinto che la lava si dirigeva in seguito all’orientamento del nuovo cratere; di conseguenza le parti fertili dell’isola, le sorgenti del Creek Rosso, i boschi dello Jacamar erano minacciati di una distruzione immediata.

Al grido di Ayrton, i coloni s’erano precipitati verso la stalla degli onagri. Il carro era stato attaccato, Tutti non avevano che un pensiero! Correre al recinto e mettere in libertà gli animali che vi erano chiusi.

Prima delle tre del mattino erano giunti al recinto. Spaventosi ululati indicavano chiaramente quale era lo spavento dei mufloni e delle capre. Un torrente, di materie incandescenti, di minerali liquefatti cadeva già dal contrafforte sulla prateria e rodeva quel lato della palizzata. La porta fu bruscamente aperta da Ayrton e gli animali fuggirono come pazzi in tutte le direzioni.

Un’ora dopo, la lava ribollente empiva il recinto, volatilizzava l’acqua del ruscelletto che l’attraversava, incendiava l’abitazione, che arse come una stoppia, e divorò sino all’ultimo palo dello steccato. Del recinto non rimaneva più nulla!

I coloni, però, vollero lottare contro questa invasione, e vi si provarono, ma la loro fu una follia inutile, giacché l’uomo è disarmato di fronte a questi grandi cataclismi.

Era sorto il nuovo giorno, il 24 gennaio. Cyrus Smith e i suoi compagni, prima di tornare a GraniteHouse, vollero osservare la direzione definitiva, che stava per prendere quell’inondazione di lava. La pendenza generale del suolo s’abbassava dal monte Franklin alla costa est e c’era, quindi, da temere che, nonostante i fitti boschi dello Jacamar, il torrente si propagasse sino all’altipiano di Bellavista.

«Il lago ci proteggerà» disse Gedeon Spilett.

«Lo spero!» rispose Cyrus Smith, e fu tutta la sua risposta.

I coloni avrebbero voluto avanzare sino alla pianura, su cui s’era abbattuto il cono superiore del monte Franklin, ma la lava sbarrava loro il passaggio. Essa seguiva, da una parte, la vallata del Creek Rosso, e dall’altra, la vallata del fiume della Cascata, facendo evaporare questi due corsi d’acqua sul suo passaggio. Non c’era alcuna possibilità di attraversare quel torrente infocato; bisognava, invece, indietreggiare davanti a esso. Il vulcano, senza il cono, non era più riconoscibile. Terminava ormai con una specie di tabula rasa, che aveva preso il posto dell’antico cratere. Per due brecce nel suo orlo sui fianchi sud ed est, traboccava continuamente la lava, che formava così due torrenti distinti. Sopra al nuovo cratere, una nube di fumo e di ceneri si confondeva con i vapori del cielo, ammassati sull’isola. Tremendi scoppi di tuono si propagavano e si confondevano con i boati della montagna, dalla cui bocca sfuggivano rocce ignee che, lanciate a più di mille piedi, esplodevano nella nube, disperdendosi poi come mitraglia. Il cielo rispondeva con lampeggiamenti all’eruzione vulcanica.

Verso le sette della mattina, i coloni, rifugiatisi al confine del bosco dello Jacamar, non potevano più tenere la posizione. Non solo i proiettili cominciavano a piovere loro d’attorno, ma la lava, straripando dal letto del Creek Rosso, minacciava di tagliare la strada del recinto. Le prime file d’alberi presero fuoco e la loro linfa, subitamente trasformata in vapore, li fece esplodere come mortaretti, mentre altri, meno umidi, rimanevano intatti in mezzo all’inondazione.

I coloni avevano ripreso la via del recinto. Procedevano lentamente, a ritroso, per così dire. Ma, a causa dell’inclinazione del suolo, il torrente avanzava rapidamente verso est e, appena alcuni strati di lava s’erano solidificati, altre distese ribollenti sopraggiungevano tosto a ricoprirli.

Intanto, la principale corrente della vallata del Creek Rosso diventava sempre più minacciosa. Tutta quella parte della foresta era incendiata ed enormi spire di fumo volteggiavano al di sopra degli alberi, ai cui piedi crepitava già la lava.

I coloni si fermarono presso il lago, a circa mezzo miglio dalla foce del Creek Rosso. Una questione di vita o di morte stava decidendosi per loro.

Cyrus Smith, avvezzo a guardare in faccia le situazioni gravi e sapendo di rivolgersi a uomini capaci di ascoltare la verità, qualunque essa fosse, disse allora:

«O il lago arresterà la corrente, e in questo caso una parte dell’isola sarà preservata dalla completa devastazione, o la corrente invaderà le foreste del Far West, e allora non un albero, non una pianta rimarrà alla superficie del suolo. Non avremo allora, su queste rocce denudate, altra prospettiva che la morte, che, per l’esplosione dell’isola, non si farà molto aspettare!»

«Allora,» esclamò Pencroff, incrociando le braccia e battendo il piede a terra «è inutile lavorare al bastimento, vi pare?»

«Pencroff,» rispose Cyrus Smith «bisogna fare il proprio dovere fino all’ultimo!»

In quel mentre il fiume di lava, dopo essersi aperto un passaggio attraverso i begli alberi che divorava, arrivò al limite del lago. Là esisteva un certo rialzo del suolo che, se fosse stato di maggiori proporzioni, sarebbe bastato a contenere il torrente.

«All’opera!» gridò Cyrus Smith.

Il pensiero dell’ingegnere fu immediatamente compreso. Bisognava arginare quel torrente e obbligarlo così a scaricarsi nel lago.

I coloni corsero al cantiere. Ne ritornarono con delle vanghe, delle zappe, delle scuri, e a furia di terra accumulata e d’alberi abbattuti, essi riuscirono a elevare in alcune ore una diga alta tre piedi e lunga alcune centinaia di passi. Quand’ebbero finito, parve loro di aver lavorato appena pochi minuti!

Era tempo. Le materie liquefatte raggiunsero quasi subito la parte inferiore dello spalto. Il fiume lavico si gonfiò, come un corso d’acqua in piena che cerchi di straripare, e minacciò di superare il solo ostacolo che potesse impedirgli d’invadere tutto il Far West… Ma la diga riuscì a contenerlo e, dopo un minuto d’esitazione, che fu terribile, si precipitò nel lago Grant, con una cascata alta venti piedi.

I coloni, ansanti, senza fare un gesto, senza pronunciar parola, guardarono allora quella lotta dei due elementi.

Quale spettacolo quel combattimento fra l’acqua e il fuoco! Quale penna potrebbe descrivere questa scena di orrore meraviglioso e quale pennello potrebbe dipingerla? L’acqua sibilava evaporandosi al contatto della lava ardente. I vapori, proiettati nell’aria, turbinavano a un’altezza incommensurabile, come se le valvole di un’immensa caldaia fossero state aperte improvvisamente. Ma per quanto considerevole fosse la massa d’acqua contenuta nel lago, doveva pur finire per evaporare tutta, giacché non si rinnovava, mentre il torrente lavico, alimentandosi a una fonte inesauribile, riversava incessantemente nuovi fiotti di materie incandescenti.

La prima lava che cadde nel lago si solidificò immediatamente e s’accumulò, in modo da emergere molto presto. Sulla sua superficie scese poi altra lava, che si fece pietra a sua volta, ma avanzando verso il centro del lago. Una diga si formò, che minacciò di colmare il lago, il quale non poteva traboccare, perché l’eccedenza delle acque si dissipava in vapore. Sibili e crepitii laceravano l’aria con rumore assordante e i vapori umidi, trascinati dal vento, ricadevano in pioggia sul mare. La diga si allungava e i blocchi di lava solidificata s’ammucchiavano gli uni sugli altri. Là dove si stendevano un tempo le acque tranquille, appariva ora un enorme cumulo di macigni fumanti, come se un sollevamento del suolo avesse fatto emergere migliaia di scogli. Si pensi ad acque sconvolte durante un uragano, poi improvvisamente solidificate da una temperatura di venti gradi sotto zero, e si avrà l’aspetto del lago, tre ore dopo che l’irresistibile torrente vi ebbe fatto irruzione.

Stavolta l’acqua sarebbe stata inevitabilmente vinta dal fuoco.

Nondimeno, fu per i coloni una favorevole circostanza che l’invasione lavica avesse potuto esser diretta verso il lago Grant. Avevano così davanti a loro alcuni giorni di respiro. L’altipiano di Bellavista, GraniteHouse e il cantiere erano momentaneamente preservati. Ora, questi pochi giorni bisognava usarli per finire il fasciame della nave e per calafatarla con cura. Poi l’avrebbero varata, e vi si sarebbero rifugiati, salvo ad attrezzarla dopo, quando fosse nel suo elemento. Con il timore dell’esplosione, che minacciava di distruggere l’isola, non vi era più nessuna sicurezza a terra. L’asilo costituito da GraniteHouse, così sicuro fino allora, poteva a ogni momento richiudere le sue pareti di granito.

Durante i sei giorni che seguirono, dal 25 al 30 gennaio, i coloni lavorarono al bastimento come venti uomini. Prendevano appena qualche riposo, e il chiarore delle fiamme, che scaturivano dal cratere, permetteva loro di lavorare notte e giorno. L’eruzione continuava sempre, ma forse un po’ meno abbondantemente. E fu gran ventura, giacché il lago Grant era quasi interamente colmo, e se nuova lava fosse discesa a sovrapporsi alla precedente, avrebbe inevitabilmente invaso l’altipiano di Bellavista e dopo questo la spiaggia.

Ma se da quel lato l’isola era in parte protetta, non lo era egualmente dalla parte occidentale.

Infatti, la seconda corrente di lava, che aveva seguito la vallata del fiume della Cascata, vallata ampia, i cui terreni s’abbassavano da ciascun lato del creek, non poteva trovare alcun ostacolo. Il liquido incandescente s’era, dunque, propagato nella foresta del Far West. In quella stagione dell’anno le piante erano state essiccate da un calore torrido, e la foresta prese, quindi, fuoco con si fulminea rapidità, che l’incendio si propagò a un tempo alla base dei tronchi e ai rami, il cui intreccio favoriva i progressi del fuoco. Sembrava persino che la corrente di fiamme, alla cima degli alberi, si scatenasse più velocemente che la corrente di lava ai loro piedi.

Accadde allora che gli animali «le belve e le altre bestie, giaguari, cinghiali, capibara, la selvaggina di pelo e di piuma — pazzi di terrore, si rifugiarono dalla parte del Mercy e nella palude delle tadorne, al di là della strada di Porto Pallone. Ma i coloni erano troppo occupati nel. loro lavoro per fare attenzione anche ai più temibili fra questi animali. Avevano, d’altronde, abbandonato GraniteHouse e non avevano nemmeno voluto cercar ricovero ai Camini; si erano accampati sotto una tenda, presso la foce del Mercy.»

Ogni giorno Cyrus Smith e Gedeon Spilett salivano all’altipiano di Bellavista. Harbert qualche volta li accompagnava, ma Pencroff mai, che egli non voleva vedere l’isola sotto il suo nuovo aspetto, e così miseramente devastata!

Era, infatti, uno spettacolo desolante. Tutta la parte boschiva dell’isola era oramai denudata. Un solo gruppo d’alberi verdi si rizzava ancora all’estremità della penisola Serpentine. Qua e là si scorgevano grossi ceppi sfrondati e anneriti. L’area delle foreste distrutte era più arida che la palude delle tadorne. L’invasione da parte della lava era stata completa. Dove prosperava un tempo tutto quel verde, il suolo non era ormai che un selvaggio accumulo di tufi vulcanici. Le vallate del fiume della Cascata e del Mercy non avevano più una sola goccia d’acqua e i coloni non avrebbero avuto alcun mezzo di dissetarsi, se il lago Grant fosse stato interamente prosciugato. Ma, fortunatamente, la punta sud di esso era stata risparmiata e formava una specie di stagno, contenente tutto quanto rimaneva di acqua potabile nell’isola. Verso nordest si delineavano, in aspre e vive creste, i contrafforti del vulcano, che sembravano un gigantesco artiglio affondato nel suolo. Che spettacolo doloroso, che spaventoso aspetto e quale dolore per quei poveri coloni, che da un dominio fertile, coperto di foreste, irrigato da corsi d’acqua, ricco di raccolti, si trovavano di colpo trasportati su una roccia devastata, la quale, se non fosse stato per le loro riserve, non avrebbe loro dato nemmeno da vivere!

«Tutto questo spezza il cuore!» disse un giorno Gedeon Spilett.

«Sì, Spilett» rispose l’ingegnere. «Il Cielo ci dia il tempo di finire questo bastimento, ormai nostro solo rifugio!»

«Non vi pare, Cyrus, che il vulcano sembra volersi calmare? Erutta ancora della lava, ma meno abbondantemente, se non m’inganno.»

«Poco importa» rispose Cyrus Smith. «Il fuoco è sempre ardente nelle viscere della montagna e il mare può precipitarvisi da un momento all’altro. Noi siamo nella situazione di passeggeri su una nave divorata da un incendio, che essi non possono estinguere, e che sanno che questo, presto o tardi, raggiungerà la cala delle polveri. Venite, Spilett, venite, e non perdiamo un’ora!»

Per otto giorni ancora, vale a dire sino al 7 febbraio, la lava continuò a scorrere, ma l’eruzione si mantenne nei limiti indicati. Cyrus Smith temeva soprattutto che le materie liquefatte andassero a riversarsi sulla spiaggia, nel qual caso il cantiere non sarebbe stato risparmiato. Inoltre, i coloni cominciarono a sentire che l’isola aveva delle vibrazioni e ne furono inquietissimi.

Era il 20 febbraio. Occorreva ancora un mese prima che il bastimento fosse in grado di prendere il mare. L’isola avrebbe resistito fino allora? L’intenzione di Pencroff e di Cyrus Smith era di procedere al varo della nave, appena lo scafo fosse stato sufficientemente stagno. Il ponte, le soprastrutture, l’allestimento interno e l’attrezzatura sarebbero stati fatti dopo, ma l’essenziale era che i coloni avessero un rifugio assicurato fuori dell’isola. Fors’anche sarebbe stato bene condurre la nave a Porto Pallone, cioè più lontano ch’era possibile dal centro eruttivo, giacché alla foce del Mercy, fra l’isolotto e la muraglia di granito, correva rischio d’essere schiacciata, nel caso di una dislocazione geologica dell’isola. Tutti gli sforzi dei lavoratori mirarono, dunque, al compimento dello scafo.

Arrivarono così al 3 marzo e poterono allora calcolare che l’operazione del varo sarebbe stata possibile entro una decina di giorni.

La speranza rifiorì nel cuore dei coloni, tanto provati durante quel quarto anno del loro soggiorno all’isola di Lincoln! Pencroff stesso parve uscire dal cupo mutismo in cui l’aveva piombato la rovina e la devastazione del suo dominio. Ormai egli non pensava che a quel bastimento, su cui si concentravano tutte le sue speranze.

«Lo finiremo,» diceva all’ingegnere «lo finiremo, signor Cyrus; ed è tempo, perché la stagione s’avanza e presto saremo in pieno equinozio. Se occorre, si farà sosta all’isola di Tabor per passarvi l’inverno! Ma, l’isola di Tabor, dopo l’isola di Lincoln! Ah, che sciagura! Non avrei mai creduto di vedere una cosa simile!»

«Affrettiamoci!» rispondeva invariabilmente l’ingegnere. E tutti lavoravano senza perdere un minuto.

«Padrone,» chiese Nab alcuni giorni dopo «credete voi che, se il capitano Nemo fosse ancora vivo, tutto questo sarebbe accaduto ugualmente?»

«Sì, Nab» rispose Cyrus Smith.

«Ebbene, io non lo credo!» mormorò Pencroff all’orecchio di Nab.

«Neanch’io!» rispose seriamente Nab.

Durante la prima settimana di marzo, il monte Franklin ridivenne minaccioso. Migliaia di vetri filiformi di lava fluida caddero come pioggia sul suolo. Il cratere s’empì di nuovo di lava, che si sparse su tutte le pendici del vulcano. Il torrente di lava corse alla superficie dei tufi induriti e finì di distruggere i pochi scheletri d’alberi che avevano resistito alla prima eruzione. Quella corrente, seguendo questa volta la riva sudovest del lago Grant, superò il Creek Glicerina e invase l’altipiano di Bellavista. Quest’ultimo colpo, che s’abbatteva sull’opera dei coloni, fu terribile. Del mulino, delle costruzioni del cortile rustico, delle stalle, non rimase più nulla. I volatili, spaventati, fuggirono in tutte le direzioni. Top e Jup davano segni del più grande sgomento: il loro istinto li avvertiva che una catastrofe era prossima. Molti animali dell’isola erano periti durante la prima eruzione. Quelli ch’erano sopravvissuti non trovarono altro rifugio che la palude delle tadorne, salvo alcuni, cui l’altipiano di Bellavista offrì ancora asilo. Ma anche quest’ultimo ricovero fu loro alla fine precluso, e il fiume di lava, scavalcando la cresta della muraglia granitica, cominciò a precipitare sulla spiaggia le sue cateratte di fuoco. Il sublime orrore di quello spettacolo sfugge a ogni descrizione. Durante la notte si sarebbe detto un Niagara di metallo fuso, con i vapori incandescenti in alto e le masse ribollenti in basso!

I coloni erano cacciati a viva forza anche dal loro ultimo trinceramento e, benché i comenti superiori del bastimento non fossero ancora calafatati, risolsero di vararlo ugualmente.

Pencroff e Ayrton procedettero ai preparativi del varo, che doveva aver luogo l’indomani, nella mattinata, cioè, del 9 marzo.

Ma durante la notte dall’8 al 9 un’enorme colonna di vapori, uscendo dal cratere, si elevò fra detonazioni spaventevoli a più di tremila piedi di altezza. La parete della cripta Dakkar aveva evidentemente ceduto sotto la pressione dei gas, e il mare, precipitandosi per il camino centrale nell’abisso ignivomo, vaporò immediatamente. Ma il cratere non poté dare uno sfogo sufficiente a quei vapori. Un’esplosione, che si sarebbe udita a cento miglia di distanza, sconvolse gli strati dell’aria. Interi pezzi di montagna caddero nel Pacifico e in pochi istanti l’oceano ricoperse l’area ov’era stata l’isola di Lincoln.

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