CAPITOLO X HARBERT TRASPORTATO A GRANITEHOUSE «NAB RACCONTA L’ACCADUTO» VISITA DI CYRUS SMITH ALL’ALTIPIANO «ROVINA E DEVASTAZIONE» I COLONI DISARMATI DI FRONTE ALLA MALATTIA «LA CORTECCIA DI SALICE» UNA FEBBRE MORTALE «TOP ABBAIA ANCORA!»

I COLONI non si curarono più né dei pirati, né dei pericoli che minacciavano GraniteHouse, né delle rovine di cui era coperto l’altipiano. Lo stato di Harbert aveva l’assoluta precedenza. Il trasporto, forse, gli era stato funesto, provocando qualche lesione interna? Il giornalista non poteva dirlo, ma tanto lui che i suoi compagni erano disperati.

Il carretto fu condotto alla svolta del fiume. Su alcuni rami, disposti a barella, furono deposti i materassi su cui riposava Harbert svenuto. Dieci minuti dopo, Cyrus Smith, Gedeon Spilett e Pencroff erano ai piedi della muraglia, mentre a Nab venne lasciata la cura di ricondurre il carro sull’altipiano di Bellavista.

L’ascensore fu messo in movimento e poco dopo Harbert era disteso sul suo lettuccio di GraniteHouse.

Le cure che gli furono prodigate lo richiamarono in vita. Sorrise per un istante, ritrovandosi nella sua camera, ma poté appena mormorare qualche parola, tant’era grande la sua debolezza.

Gedeon Spilett esaminò le ferite. Temeva che, essendo imperfettamente cicatrizzate, si fossero riaperte… Nulla di tutto questo. Da che cosa derivava dunque quella prostrazione? Perché Harbert era peggiorato?

Il giovinetto fu preso allora da una specie di torpore febbrile e il giornalista e Pencroff rimasero vicino al suo letto.

Intanto, Cyrus Smith metteva Nab al corrente di quel che era successo al recinto e Nab raccontava al suo padrone gli avvenimenti di cui l’altipiano era stato teatro.

Soltanto nel corso della notte precedente i deportati s’erano mostrati sull’estremo limite della foresta nei pressi del Creek Glicerina. Nab, che vegliava presso il pollaio, non aveva esitato a far fuoco su uno di essi, che si accingeva ad attraversare il corso d’acqua; ma, poiché la notte era piuttosto scura, non aveva potuto sapere se quel miserabile era stato colpito. A ogni modo, lo sparo non era bastato ad allontanare la banda e Nab aveva avuto appena il tempo di risalire a GraniteHouse, ove, almeno, si trovò al sicuro.

Che cosa fare allora? Come impedire la devastazione di cui i deportati minacciavano l’altipiano? Aveva Nab la possibilità di comunicare con il suo padrone? E, d’altra parte, in quale situazione si trovavano anch’essi, gli ospiti del recinto?

Cyrus Smith e i suoi compagni erano partiti l’11 novembre ed era ormai il 29. In quei diciannove giorni Nab non aveva avuto altre notizie se non quelle recate da Top, che erano disastrose: Ayrton sparito, Harbert gravemente ferito, l’ingegnere, il giornalista, il marinaio, prigionieri, per così dire, nel recinto!

Che cosa fare? si chiedeva il povero Nab. Per sé, personalmente, nulla da temere, giacché i deportati non potevano raggiungerlo entro GraniteHouse. Ma le costruzioni, le piantagioni, tutti i frutti di tanto lavoro in balia dei pirati! Non era meglio lasciare Cyrus Smith giudice di quel che vi sarebbe stato da fare e prevenirlo, almeno, del pericolo che li sovrastava?

Nab ebbe allora l’idea di servirsi di Jup, affidandogli un biglietto. Conosceva l’estrema intelligenza dell’orango, ch’era stata sovente messa alla prova. Jup comprendeva la parola recinto, pronunciata spesso in sua presenza, e varie volte aveva condotto colà il carro in compagnia di Pencroff. Non era ancora giorno fatto. L’agile orango avrebbe certo saputo passare inosservato nei boschi, di cui, d’altronde, i pirati l’avrebbero creduto un abitatore.

Nab non esitò. Scrisse il biglietto, l’attaccò al collo di Jup, condusse la scimmia alla porta di GraniteHouse, dalla quale lasciò scendere fino a terra una lunga corda; poi, a più riprese, gli ripete queste parole:

«Jup! Jup! Recinto! Recinto!».

L’animale comprese, afferrò la corda, si lasciò scivolare rapidamente fin sul greto e disparve nell’ombra, senza che l’attenzione dei deportati fosse stata menomamente destata.

«Hai fatto bene, Nab,» rispose Cyrus Smith «ma, non avvertendoci, forse avresti fatto meglio ancora!»

E così dicendo Cyrus Smith pensava ad Harbert, il cui trasporto sembrava averne gravemente compromesso la convalescenza.

Nab finì il suo racconto. I deportati non s’erano mostrati sulla spiaggia. Non conoscendo il numero degli abitanti dell’isola, potevano supporre che GraniteHouse fosse difesa da forze rilevanti. Dovettero ricordarsi che, durante l’attacco del brigantino, numerosi colpi di armi da fuoco li avevano accolti, tanto dalle rocce inferiori, che da quelle superiori, e indubbiamente non vollero esporsi. Ma l’altipiano di Bellavista era loro aperto e non cadeva sotto i tiri di GraniteHouse. Essi si abbandonarono, dunque, al loro istinto di depredazione, saccheggiando, bruciando, facendo il male per il male, e non si ritirarono che mezz’ora prima dell’arrivo dei coloni, che, forse, credevano ancora rinchiusi nel recinto.

Nab s’era precipitato fuori del suo rifugio. Era risalito sull’altipiano, a rischio di esser colpito da qualche proiettile; aveva tentato di spegnere l’incendio, che distruggeva le costruzioni del pollaio, lottando, ma invano, contro il fuoco, sino al momento in cui il carro era apparso al limite del bosco.

Questi erano stati i gravi avvenimenti svoltisi durante l’assenza dei coloni. Era evidente che la presenza dei deportati costituiva una minaccia permanente per i coloni dell’isola di Lincoln, sino allora così felici, e che adesso invece, potevano aspettarsi sventure anche più gravi!

Gedeon Spilett rimase a GraniteHouse, vicino ad Harbert e a Pencroff, mentre Cyrus Smith, accompagnato da Nab, andò a esaminare con i suoi occhi l’entità del disastro.

Era una fortuna che i deportati non si fossero avanzati sino ai piedi di GraniteHouse. I laboratori dei Camini non sarebbero sfuggiti alla devastazione. Ma, tutto considerato, questo male sarebbe stato forse più facilmente riparabile delle rovine accumulate sull’altipiano di Bellavista!

Cyrus Smith e Nab si diressero verso il Mercy e ne risalirono la riva sinistra senza incontrare alcuna traccia del passaggio dei deportati. Nemmeno dall’altra parte del fiume, nel fitto bosco, ebbero a osservare indizi sospetti.

D’altra parte, ecco ciò che si poteva pensare, secondo ogni probabilità: o i deportati sapevano del ritorno dei coloni a GraniteHouse, per averli veduti passare sulla strada del recinto; o, dopo la devastazione dell’altipiano, s’erano cacciati nel bosco dello Jacamar, seguendo il corso del Mercy, e ignoravano il loro ritorno.

Nel primo caso, erano senza dubbio ritornati verso il recinto ormai indifeso, e che racchiudeva risorse per loro preziose.

Nel secondo caso dovevano aver raggiunto di nuovo il loro accampamento, ivi aspettando qualche buona occasione per ricominciare l’attacco.

V’era, dunque, modo di prevenirli; ma ogni impresa destinata a sbarazzar l’isola era ancora subordinata alle condizioni di salute di Harbert. Infatti, Cyrus Smith avrebbe avuto bisogno dei suoi compagni e nessuno poteva, in quel momento, abbandonare GraniteHouse.

L’ingegnere e Nab arrivarono sull’altipiano. Era una desolazione. I campi erano stati calpestati. Le spighe, mature per essere mietute, giacevano al suolo. Le altre colture non avevano sofferto meno. L’orto era sconvolto. Fortunatamente GraniteHouse possedeva una riserva di sementi, che avrebbe permesso di riparare quei danni.

Quanto al mulino, alle costruzioni del cortile, alla stalla degli onagri, il fuoco aveva distrutto tutto. Alcuni animali spauriti vagavano qua e là per l’altipiano. I volatili, che durante l’incendio s’erano rifugiati sulle acque del lago, ritornavano già alle loro sedi abituali lungo le rive. Là tutto era da rifare.

Il volto di Cyrus Smith, più pallido del solito, denotava una collera interna dominata a fatica; ma egli non disse una sola parola. Guardò un’ultima volta i suoi campi devastati, il fumo che s’innalzava ancora dalle rovine, poi ritornò a GraniteHouse.

I giorni che seguirono furono i più tristi che i coloni avessero sino allora trascorsi nell’isola. La debolezza di Harbert aumentava visibilmente. Sembrava che una malattia più grave, conseguenza della profonda prostrazione fisiologica subita, lo minacciasse, e Gedeon Spilett presentiva un così forte aggravamento del suo stato da sentirsi impotente a combatterlo.

Infatti, Harbert rimaneva in un assopimento quasi continuo e alcuni sintomi di delirio cominciarono a manifestarsi. Le tisane rinfrescanti erano i soli rimedi a disposizione dei coloni. La febbre non era ancora fortissima, ma presto parve volersi stabilire in accessi a intermittenza regolare.

Gedeon Spilett se ne rese conto il 6 dicembre. Il povero ragazzo, il cui naso, le dita, le orecchie divennero estremamente pallidi, fu dapprima preso da leggeri brividi, da sudore freddo, da tremiti. Il battito del polso era breve e irregolare, la pelle secca; aveva inoltre una sete intensa. A questo periodo successe una fase di calore: il viso s’animò, la pelle arrossò, il polso si accelerò; poi si manifestò un sudore abbondante, in seguito al quale la febbre parve diminuire. L’accesso era durato cinque ore circa.

Gedeon Spilett non aveva lasciato un momento Harbert, affetto adesso da una febbre intermittente, questo era ormai certo, purtroppo. E questa febbre doveva essere arrestata a ogni costo, prima che aumentasse ancora.

«E per arrestarla,» disse Gedeon Spilett a Cyrus Smith «occorre un febbrifugo.»

«Un febbrifugo!…» rispose l’ingegnere. «Non abbiamo né china, né solfato di chinino!»

«No» disse Gedeon Spilett «ma ci sono dei salici sull’orlo del lago, e la corteccia del salice può qualche volta sostituire il chinino.»

«Proviamo, dunque, senza perdere un istante!» rispose Cyrus Smith. La corteccia del salice, infatti, è stata giustamente considerata come un

succedaneo della china, così come l’ippocastano, la foglia dell’agrifoglio, la serpentaria, ecc. Bisognava evidentemente provare quella sostanza, quantunque non valesse la china, e adoperarla allo stato naturale, perché mancavano i mezzi per estrarne l’alcaloide, vale a dire la salicina.

Cyrus Smith andò egli stesso a tagliare dal tronco d’una specie di salice nero alcuni pezzi di corteccia; li portò a GraniteHouse, li ridusse in polvere e questa polvere fu somministrata ad Harbert la sera stessa.

La notte passò senza gravi incidenti. Harbert ebbe un po’ di delirio, ma la febbre non ritornò nella notte, né durante il giorno seguente.

Pencroff ricominciò a sperare. Gedeon Spilett taceva. Poteva darsi che le intermittenze non fossero quotidiane, che la febbre fosse terzana, in una parola, e che ritornasse, quindi, il giorno dopo. Per conseguenza, i coloni attendevano l’indomani con la più viva ansietà.

Era da notare, inoltre, che, durante il periodo d’apiressia, Harbert rimaneva molto abbattuto, gli pesava la testa ed era facile agli stordimenti. Ma un nuovo sintomo sgomentò al massimo grado il cronista: il fegato di Harbert cominciava a congestionarsi, e poco dopo un delirio più intenso dimostrò che anche il suo cervello era attaccato dalla congestione.

Gedeon Spilett sentì che il coraggio lo abbandonava davanti a questa nuova complicazione. Chiamò in disparte l’ingegnere.

«È una febbre perniciosa!» gli disse.

«Una febbre perniciosa!» esclamò Cyrus Smith. «Vi ingannate, Spilett. La febbre perniciosa non si manifesta spontaneamente. Bisogna averne contratto il germe!…»

«Non mi sbaglio» rispose il giornalista. «Harbert avrà indubbiamente contrattoli germe nelle paludi dell’isola, ed è quanto basta. Ha già avuto un primo attacco. Se ne sopravviene un secondo e non riusciamo a impedire il terzo… è perduto!…»

«Ma questa corteccia di salice?…»

«È insufficiente,» rispose il giornalista «e un terzo attacco di febbre perniciosa, se non cessa per mezzo del chinino, è sempre mortale!»

Fortunatamente, Pencroff non aveva udito una parola di questa conversazione. Sarebbe impazzito.

Si può immaginare in quale inquietudine vissero l’ingegnere e il giornalista durante quella giornata del 7 dicembre e la notte seguente.

Verso la metà della giornata, si verificò il secondo accesso. La crisi fu terribile. Harbert si sentiva perduto! Tendeva le braccia verso Cyrus Smith, verso Spilett, verso Pencroff! Non voleva morire!… La scena fu straziante. Bisognò allontanare Pencroff.

L’attacco durò cinque ore. Era evidente che Harbert non ne avrebbe sopportato un terzo.

La notte fu spaventosa. Nel suo delirio, Harbert diceva cose che spezzavano il cuore dei suoi compagni! Vaneggiava, lottava contro i deportati, chiamava Ayrton! Supplicava l’essere misterioso, il protettore, sparito ormai e la cui immagine l’ossessionava… Poi ricadeva in una prostrazione profonda, che lo annientava completamente… Parecchie volte Gedeon Spilett credette che il povero giovane fosse morto!

La giornata successiva, 8 dicembre, non fu che un succedersi di allarmi. Le mani smagrite di Harbert si contraevano sulle lenzuola. Gli erano state somministrate nuove dosi di corteccia pestata, ma il giornalista non si aspettava alcun risultato.

«Se prima di domani mattina non gli abbiamo dato un febbrifugo più energico» disse il giornalista «Harbert sarà morto!»

E venne la notte, l’ultima indubbiamente di quel ragazzo coraggioso, buono, intelligente, tanto superiore alla sua età e che tutti amavano come un figlio! Il solo rimedio che esistesse contro quella terribile febbre perniciosa, il solo specifico che potesse vincerla, non si trovava nell’isola di Lincoln!

Durante quella notte, dall’8 al 9 dicembre, Harbert fu ripreso da un delirio più intenso. Il suo fegato era orribilmente congestionato, il suo cervello colpito, ed era ormai impossibile che riconoscesse alcuno.

Sarebbe vissuto sino all’indomani, fino a quel terzo accesso, che doveva immancabilmente portarlo via? Non vi era più da sperarlo. Le sue forze erano esaurite, e nell’intervallo fra una crisi e l’altra, sembrava esanime.

Verso le tre del mattino Harbert mandò un urlo spaventoso. Sembrò contorcersi in una suprema convulsione. Nab, ch’era presso di lui, spaventato si precipitò nella camera vicina, dove gli altri vegliavano.

In quel mentre Top abbaiò in modo strano…

Tutti accorsero subito e riuscirono a trattenere il giovane morente, che voleva gettarsi dal letto, mentre Gedeon Spilett, prendendogli il braccio, sentiva il polso rianimarsi a poco a poco…

Erano le cinque del mattino. I raggi del sole che spuntava cominciavano a penetrare nelle stanze di GraniteHouse. S’annunciava una bella giornata e questa giornata sarebbe stata l’ultima per il povero Harbert!

Un raggio s’insinuò sino alla tavola vicina al letto.

Improvvisamente Pencroff, cacciando un grido, mostrò un oggetto posto sulla tavola.

Era una scatoletta oblunga, che portava sul coperchio queste parole:

Solfato di chinino.

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