GEDEON SPILETT prese la scatola e l’aprì. Conteneva circa duecento granelli d’una polvere bianca, di cui portò alle labbra qualche particella. Il sapore molto amaro di quella sostanza non poteva lasciar dubbi. Era proprio il prezioso alcaloide della china, l’antiperniciosa per eccellenza.
Bisognava somministrare senza indugio quella polvere ad Harbert. Sul come essa si trovasse là, si sarebbe discusso più tardi.
«Un po’ di caffè» chiese Gedeon Spilett.
Pochi istanti dopo, Nab portava una tazza della tiepida bevanda. Gedeon Spilett vi gettò circa diciotto grani (Nota: 10 grammi. Fine nota) di chinino e fece bere questa mistura ad Harbert.
Si era ancora in tempo, giacché il terzo accesso della febbre perniciosa non s’era manifestato!
E, sia concesso di aggiungere, non doveva più ritornare!
D’altra parte, bisogna pur dirlo, tutti avevano ripreso speranza. L’influenza misteriosa s’era nuovamente manifestata, in un momento supremo, quando si disperava di essa!…
In capo ad alcune ore, Harbert riposava più tranquillamente. I coloni poterono allora parlare di quell’ultimo fatto. L’intervento dello sconosciuto era più evidente che mai. Ma come aveva egli potuto penetrare, durante la notte, in GraniteHouse? Era assolutamente inesplicabile e, in verità, il modo di procedere del «genio dell’isola» era non meno strano del genio medesimo.
Nel corso di quella giornata, e di tre ore in tre ore circa, il solfato di chinino fu somministrato ad Harbert. Harbert, sin dall’indomani cominciò a risentire un certo miglioramento. Tuttavia, egli non era ancora guarito, e le febbri intermittenti sono soggette a frequenti e pericolose ricadute; ma le cure non gli mancarono. Eppoi, lo specifico era là e non lungi, indubbiamente, era colui che l’aveva portato. Insomma, un’immensa speranza rinacque in tutti i cuori.
Questa speranza non fu delusa. Dieci giorni dopo, il 20 dicembre, Harbert entrava in convalescenza. Era debole ancora e gli era stata imposta una severa dieta, ma non gli era più tornato nessun accesso di febbre. Eppoi, il docile ragazzo si sottometteva così volentieri a tutte le prescrizioni! Aveva tanta voglia di guarire!
Pencroff era come un uomo tratto dal fondo di un abisso. Aveva delle deliranti crisi di gioia. Superato lo sgomento del terzo accesso, egli aveva stretto fra le sue braccia il giornalista sino a soffocarlo. Da allora lo chiamò sempre «dottor Spilett».
Rimaneva da scoprire il vero dottore.
«Lo scopriremo!» ripeteva il marinaio.
E, certo, quell’uomo, chiunque fosse, doveva aspettarsi qualche rude abbraccio del buon Pencroff!
Il mese di dicembre terminò e con esso anche l’anno 1867, durante il quale i coloni dell’isola di Lincoln erano stati così duramente provati. L’anno 1868 incominciò con un tempo splendido, un caldo intenso, una temperatura tropicale che il venticello marino fortunatamente mitigava. Harbert rinasceva e dal suo letto, presso una delle finestre di GraniteHouse, aspirava quell’aria salubre, carica d’emanazioni saline, che gli ridonava la salute. Incominciava a mangiare, e Dio sa che buoni piattini, leggeri e saporiti, gli preparava Nab!
«C’è da aver voglia d’essere stato morente!» diceva Pencroff. Durante tutto quel periodo di tempo, i deportati non si erano mai mostrati
nei dintorni di GraniteHouse. Di Ayrton nessuna notizia, e se l’ingegnere e Harbert conservavano ancora qualche speranza di ritrovarlo, gli altri erano convinti che il disgraziato fosse morto. Tuttavia, era impossibile perdurare in quell’incertezza e appena il giovinetto si fosse rimesso in forze, l’ideata importante spedizione sarebbe stata subito intrapresa. Ma bisognava forse aspettare un mese, perché tutte le forze della colonia non sarebbero state di troppo per aver ragione dei deportati.
Del resto, Harbert andava di bene in meglio. La congestione del fegato era sparita e le ferite potevano considerarsi come definitivamente cicatrizzate.
In quel mese di gennaio, lavori importanti furono fatti sull’altipiano di Bellavista, ma non servirono che a salvare quel che poteva essere salvato dei raccolti devastati, sia di grano, sia d’ortaggi. Le sementi e le pianticelle furono raccolte, perché potessero produrre una nuova messe per la prossima stagione. Cyrus Smith preferì invece aspettare a ricostruire i fabbricati del cortile, il mulino e le scuderie. Mentre lui e i suoi compagni sarebbero andati all’inseguimento dei deportati, questi avrebbero potuto fare una nuova visita all’altipiano e quindi non bisognava dar loro la possibilità di rinnovare le loro gesta di predoni e d’incendiari. Quando l’isola fosse stata sgomberata dai malfattori, si sarebbe pensato a riedificare.
Il giovane convalescente aveva incominciato ad alzarsi nella seconda quindicina di gennaio, prima un’ora al giorno, poi due, poi tre. Le forze gli ritornavano a vista d’occhio, tanto la sua costituzione era vigorosa. Aveva ora diciotto anni. Era alto e prometteva di divenire un uomo bello e prestante. A datare da quel momento la sua convalescenza, pur esigendo ancora qualche cura, e benché il dottor Spilett si mostrasse severissimo, procedette regolarmente.
Verso la fine del mese, Harbert percorreva già l’altipiano di Bellavista e il litorale. Alcuni bagni di mare, presi in compagnia di Pencroff e di Nab, gli fecero un gran bene. Cyrus Smith credette di poter fin da allora stabilire il giorno della partenza, che venne fissata per il 15 febbraio. Le notti, molto chiare in quell’epoca dell’anno, sarebbero state propizie alle ricerche che si trattava di fare in tutta l’isola.
I preparativi richiesti dall’esplorazione furono dunque iniziati e dovevano essere assai accurati perché i coloni s’erano proposti di non rientrare a GraniteHouse, se prima non avessero raggiunto un doppio scopo: da una parte, distruggere i pirati e ritrovare Ayrton, se era ancora in vita; dall’altra scoprire colui che presiedeva così. efficacemente ai destini della colonia.
Dell’isola di Lincoln i coloni conoscevano a fondo tutta la costa orientale, dal capo Artiglio fino ai capi Mandibola, le vasti paludi delle tadorne, i dintorni del lago Grant, i boschi dello Jacamar, compresi fra la strada del recinto e il Mercy, i corsi d’acqua del Mercy e del Creek Rosso e, infine, i contrafforti del monte Franklin, tra i quali era stato costruito il recinto.
Avevano poi esplorato, ma solamente in modo imperfetto, il vasto litorale della baia Washington, dal capo Artiglio sino al promontorio del Rettile; il margine forestale e paludoso della costa ovest e quelle interminabili dune che finivano nelle fauci semiaperte del golfo del Pescecane.
Ma non avevano mai percorso i larghi tratti boscosi che coprivano la penisola Serpentine, tutta la destra del Mercy, la riva sinistra del fiume della Cascata e quel groviglio capriccioso di contrafforti e di controvalli che sostenevano per tre quarti la base del monte Franklin, a ovest, a nord e a est, dove molte migliaia di acri dell’isola erano sfuggiti alla loro esplorazione e, di conseguenza, anche parecchi nascondigli.
Fu, perciò, deciso che la spedizione avrebbe attraversato il Far West, in modo da comprendere tutta la parte situata sulla destra del Mercy.
Forse sarebbe stato meglio dirigersi prima di tutto verso il recinto, ove era da temere che i deportati si fossero di nuovo rifugiati, sia per depredarlo, sia per installarvisi. Ma, o la devastazione del recinto era ormai un fatto compiuto, e allora era troppo tardi per impedirla, o i deportati avevano trovato opportuno trincerarvisi, e in questo caso i coloni sarebbero stati sempre in tempo, per andarli a snidare da quel covo.
Perciò, venne approvato nella discussione il primitivo progetto e i coloni risolsero di raggiungere, attraverso i boschi, il promontorio del Rettile. Si sarebbero aperti il cammino a colpi di scure, segnando così il primo tracciato d’una via di comunicazione fra GraniteHouse e l’estremità della penisola, per una lunghezza di sedici o diciassette miglia.
Il carro era in ottimo stato. Gli onagri, ben riposati, avrebbero potuto resistere per lungo tratto di strada. Viveri, oggetti da accampamento, cucina portatile, utensili diversi furono caricati sul carro, insieme alle armi e alle munizioni, scelte con ogni cura nell’arsenale, ormai così completo, di GraniteHouse. Ma bisognava non dimenticare che i deportati correvano forse i boschi e che, in mezzo a quelle fitte foreste, ci voleva poco a far partire una fucilata e poco anche a riceverla. Di qui la necessità, per la piccola schiera dei coloni, di restare compatta e di non dividersi per nessuna ragione.
Fu anche stabilito che nessuno sarebbe rimasto a GraniteHouse. Persino Top e Jup dovevano far parte della spedizione. L’inaccessibile dimora poteva anche custodirsi da sé.
Il 14 febbraio, vigilia della partenza, era una domenica. Fu consacrata interamente al riposo e santificata con le preghiere, che i coloni rivolsero al Creatore. Harbert, completamente guarito, ma ancora un po’ debole, avrebbe avuto un posto riservato sul carro.
L’indomani allo spuntar del giorno, Cyrus Smith prese le precauzioni necessarie per mettere GraniteHouse al sicuro da ogni invasione. Le scale che servivano un tempo all’ascensione furono portate ai Camini e profondamente sotterrate nella sabbia, in modo che potessero servire al ritorno, poiché il tamburo dell’ascensore fu smontato, e dell’apparecchiatura non restò più niente. Pencroff restò per ultimo in GraniteHouse per condurre a termine questa operazione, e ridiscese mediante una corda, l’altra estremità della quale era trattenuta in basso. Una volta tirata a terra, non lasciò più sussistere alcuna comunicazione fra il piano superiore e la spiaggia.
Il tempo era magnifico.
«Si prepara una giornata calda!» disse allegramente il giornalista.
«Ebbene, dottor Spilett,» rispose Pencroff, «cammineremo all’ombra degli alberi e non ci accorgeremo nemmeno del sole!»
«In cammino!» disse l’ingegnere.
Il carro aspettava sulla spiaggia davanti ai Camini. Il giornalista aveva preteso che Harbert vi prendesse posto, almeno durante le prime ore del viaggio e il giovinetto dovette sottomettersi alle prescrizioni del suo medico.
Nab si mise alla testa degli onagri, Cyrus Smith, il giornalista e il marinaio precedevano. Top sgambettava allegramente, Harbert aveva offerto a Jup un posto nel suo veicolo e Jup aveva accettato senza complimenti. Il momento della partenza era giunto e la piccola comitiva si mise in marcia.
Il carro prima svoltò l’angolo alla foce del Mercy, e dopo aver risalito per un miglio la riva sinistra del fiume stesso, attraversò il ponte alla cui estremità incominciava la strada di Porto Pallone, e là gli esploratori, lasciandola a sinistra, si addentrarono sotto la volta degli immensi boschi, che formavano la regione del Far West.
Durante le due prime miglia gli alberi, largamente spaziati fra loro, permisero al carro di circolare liberamente: di tanto in tanto bisognava tagliare delle liane e folti cespugli, ma nessun ostacolo serio arrestò la marcia dei coloni.
I densi rami degli alberi mantenevano una fresca ombra sul suolo. Deodara, douglas, casuarine, banksie, acacie gommifere, dracene e altre specie già note ai coloni si succedevano a perdita d’occhio. Nell’isola si trovava ogni specie di uccelli comuni: tetraoni, jacamar, fagiani, lori, e tutta la ciarliera famiglia dei cacatoa e dei pappagalli, maschi e femmine. Aguti, canguri, capibara correvano fra le erbe e tutto ciò rammentava ai coloni le prime escursioni fatte al loro arrivo nell’isola.
«Però» fece notare Cyrus Smith «sembra che questi animali, sia quadrupedi che volatili, siano più paurosi di allora. Questi boschi sono, dunque, stati recentemente percorsi dai deportati, dei quali dobbiamo sicuramente trovare le tracce.»
E, infatti, in parecchi punti, i coloni poterono osservare tutti gli indizi del passaggio, più o meno recente, di un gruppetto d’uomini: qui, rami d’alberi rotti, forse nell’intento di segnare il cammino; là, le ceneri d’un fuoco spento e le impronte di passi, che certe parti argillose del terreno avevano conservate. Ma, insomma, niente che sembrasse appartenere a un accampamento stabile.
L’ingegnere aveva raccomandato ai compagni di astenersi dal cacciare. Le detonazioni delle armi da fuoco avrebbero potuto metter sull’avviso i deportati, che s’aggiravano forse nella foresta. Poi, i cacciatori sarebbero stati necessariamente trascinati dalla caccia a qualche distanza dal carro, mentre era severamente proibito avanzare isolati.
Nella seconda parte della giornata, a sei miglia circa da GraniteHouse, divenne abbastanza difficile procedere. Per poter passare attraverso certi folti macchioni, bisognò abbattere degli alberi e aprirsi una strada. Prima però di entrare in quei fitti cedui, Cyrus Smith aveva cura di mandare avanti Top e Jup, che adempivano coscienziosamente il loro compito, e quando il cane e la scimmia ritornavano senza aver segnalato nulla, voleva dire che niente v’era da temere, né da parte dei deportati, né da parte delle fiere, due specie di individui del regno animale, messe allo stesso livello dai loro feroci istinti.
La sera di quella prima giornata, i coloni si accamparono a circa nove miglia da GraniteHouse, in riva a un piccolo affluente del Mercy, di cui ignoravano l’esistenza e che doveva collegarsi al sistema idrografico da cui il suolo dell’isola traeva la sua meravigliosa fertilità.
Cenarono abbondantemente, giacché il loro appetito era stato fortemente eccitato dalla marcia, e vennero prese le misure necessarie perché la notte passasse senza incidenti. Se l’ingegnere avesse avuto a che fare solo con gli animali feroci, giaguari o altro, avrebbe semplicemente acceso dei fuochi intorno al suo accampamento, e questo sarebbe bastato a difenderlo; ma i deportati sarebbero stati piuttosto attratti che fermati dalle fiamme, ed era, quindi, meglio in questo caso circondarsi di tenebre.
La sorveglianza fu, del resto, severamente organizzata. Due coloni dovevano vegliare insieme ed era convenuto che ogni due ore i compagni avrebbero dato loro il cambio. Ora, siccome Harbert, malgrado le sue proteste, fu dispensato da quel compito, Pencroff e Gedeon Spilett da una parte, l’ingegnere e Nab dall’altra, montarono la guardia uno dopo l’altro agli accessi dell’accampamento.
Del resto, la notte durò appena poche ore. L’oscurità era dovuta piuttosto alla folta cupola delle fronde che all’assenza del sole. Il silenzio fu appena turbato dai rauchi urli dei giaguari e dal ghignare delle scimmie, che sembrava irritare particolarmente mastro Jup.
La notte passò senza incidenti, e il giorno successivo, 16 febbraio, la marcia, più lenta che faticosa, venne ripresa attraverso la foresta.
In quel giorno, la comitiva non poté fare che sei miglia, perché a ogni momento bisognava aprirsi la strada con l’accetta. Da veri settlers, i coloni risparmiavano gli alberi grandi e belli, il cui taglio, d’altra parte, sarebbe costato loro enormi fatiche, e sacrificavano i piccoli; ma ne risultava che la strada prendeva una direzione poco rettilinea e s’allungava in numerose svolte.
Nel corso della giornata Harbert scoprì nuove specie di piante, la cui presenza non era ancora stata segnalata nell’isola, e cioè delle felci arborescenti, con foglie a palma ricadenti, che sembravano espandersi come le acque d’una fontana; dei carrubi, di cui gli onagri brucarono avidamente i lunghi baccelli dalle polpe zuccherine di sapore eccellente. I coloni trovarono pure colà dei magnifici kauri, disposti a gruppi, i cui tronchi cilindrici, coronati da un cono di verzura, s’elevavano a un’altezza di duecento piedi. Erano quelli i tipici alberi della Nuova Zelanda, celebri quanto i cedri del Libano.
Quanto alla fauna, essa non presentò altri esemplari che quelli già sino allora conosciuti dai cacciatori. Intravidero, però, ma senza poterla avvicinare, una coppia di quei grandi uccelli propri dell’Australia, specie di casuari chiamati emù, alti cinque piedi, bruni di penne, che appartengono all’ordine dei trampolieri. Top si slanciò dietro di loro con tutta la velocità delle sue quattro zampe, ma i casuari lo distanziarono facilmente, tanto era prodigiosa la loro rapidità.
Quanto alle tracce lasciate dai deportati nella foresta, se ne rilevarono altre. Vicino a un fuoco, che sembrava spento da poco, i coloni osservarono delle impronte che esaminarono con estrema attenzione. Misurandole l’una dopo l’altra, secondo la loro lunghezza e larghezza, fu facile individuare la traccia dei piedi di cinque uomini. I cinque deportati si erano evidentemente accampati in quel punto, ma — e questo era l’oggetto d’un così minuzioso esame! — non fu possibile scoprire una sesta impronta, che sarebbe stata quella del piede di Ayrton.
«Ayrton non era con loro» disse Harbert.
«No,» rispose Pencroff «e se non era con loro, vuol dire che i miserabili l’hanno già ucciso! Ma quei farabutti non hanno, dunque, una tana dove si possa braccarli come tigri?»
«No» rispose il giornalista. «È più probabile che vadano alla ventura, ed è loro interesse, del resto, errare così, fino al momento in cui saranno padroni dell’isola.»
«Padroni dell’isola!…» esclamò Pencroff. «Padroni dell’isola!…» ripeté, e la sua voce era strozzata, come se una mano di ferro l’avesse afferrato alla gola. Poi, in tono più calmo: «Sapete, signor Cyrus,» disse «che palla ho messo nel mio fucile?»
«No, Pencroff!»
«La palla che ha attraversato il petto di Harbert e vi prometto ch’essa non fallirà il colpo!»
Ma queste giuste rappresaglie non potevano però rendere la vita ad Ayrton; e dall’esame delle impronte lasciate sul terreno, i coloni dovevano, ahimè! concludere che non c’era più nessuna speranza di rivederlo!
Quella sera l’accampamento fu stabilito a quattordici miglia da GraniteHouse e Cyrus Smith calcolò che non dovevano essere lontani più di cinque miglia dal promontorio del Rettile.
Infatti, l’indomani, raggiunsero l’estremità della penisola, e così la foresta era stata attraversata in tutta la sua lunghezza; ma nessun indizio aveva permesso di trovare il rifugio, ove s’erano nascosti i deportati; né quello, non meno segreto, che dava asilo al misterioso sconosciuto.