CAPITOLO XVI UN MISTERO DA CHIARIRE «LE PRIME PAROLE DELLO SCONOSCIUTO» DODICI ANNI SULL’ISOLOTTO! «CONFESSIONI CHE SFUGGONO» LA SCOMPARSA «FIDUCIA DI CYRUS SMITH» COSTRUZIONE D’UN MULINO «IL PRIMO PANE» UN ATTO DI DEDIZIONE «LE MANI ONESTE!»

Sì, L’INFELICE aveva pianto! Qualche ricordo, indubbiamente, aveva attraversato la sua memoria, e secondo l’espressione di Cyrus, egli s’era rifatto uomo attraverso le lacrime.

I coloni lo lasciarono per qualche tempo sull’altipiano e si allontanarono anche un poco, perché egli potesse sentirsi libero, ma egli non pensò minimamente di approfittare di quella libertà, e Cyrus Smith si decise poco dopo a ricondurlo a GraniteHouse.

Due giorni dopo questa scena, lo sconosciuto sembrò volersi mescolare a poco a poco alla vita comune. Era evidente che udiva e comprendeva, ma era altresì non meno evidente che si ostinava stranamente a non parlare ai coloni, giacché una sera Pencroff, origliando alla porta della sua camera, sentì queste parole sfuggire dalle sue labbra:

«No! Qui! Io! Mai!»

Il marinaio riferì queste parole ai compagni.

«C’è in lui qualche doloroso mistero!» disse Cyrus Smith.

Lo sconosciuto aveva cominciato a servirsi degli attrezzi agricoli e lavorava all’orto. Quando interrompeva il suo lavoro, e accadeva spesso, rimaneva come concentrato in se stesso; ma, grazie alle raccomandazioni dell’ingegnere, tutti rispettavano l’isolamento in cui sembrava voler persistere. Se uno dei coloni gli si avvicinava, egli arretrava, e qualche singhiozzo sollevava il suo petto, come se ne fosse stato troppo pieno!

Era, dunque, il rimorso che lo abbatteva così? Si poteva pensarlo, e Gedeon Spilett non poté trattenersi, un giorno, dal fare quest’osservazione:

«Se non parla, è perché avrebbe, credo, cose troppo gravi da dire! Bisognava aver pazienza e aspettare.»

Alcuni giorni dopo, il 3 novembre, lo sconosciuto, lavorando sull’altipiano, s’era fermato, dopo aver lasciato cadere la vanga; e Cyrus Smith, che l’osservava a poca distanza, vide ancora una volta delle lacrime sgorgare dai suoi occhi. Una specie di pietà irresistibile lo spinse verso di lui; gli toccò leggermente il braccio.

«Amico!» gli disse.

Lo sguardo dello sconosciuto cercò di evitarlo, e avendo Cyrus Smith cercato di prendergli la mano, l’altro indietreggiò vivamente.

«Amico mio,» disse Cyrus Smith con voce più ferma «guardatemi, lo voglio!»

Lo sconosciuto guardò l’ingegnere e parve cedere al suo fascino, come un ipnotizzato sotto l’influenza dell’ipnotizzatore. Sembrò voler fuggire. Ma poi si operò nella sua fisionomia come una trasformazione. Il suo sguardo ebbe dei lampi. Delle parole cercarono di sfuggire dalle sue labbra. Non poteva più contenersi!… Finalmente, incrociò le braccia; poi, con voce sorda:

«Chi siete?» domandò a Cyrus Smith.

«Naufraghi come voi» rispose l’ingegnere, molto commosso. «Vi abbiamo condotto qui fra i vostri simili.»

«I miei simili!… Io non ne ho!»

«Siete in mezzo ad amici…»

«Amici!… miei… degli amici!» esclamò lo sconosciuto, nascondendo la testa fra le mani. «No!… Mai!… Lasciatemi, lasciatemi!»

Poi fuggì dalla parte dell’altipiano che dominava il mare, e vi rimase lungamente immobile.

Cyrus Smith aveva, intanto, raggiunto i suoi compagni e narrava loro l’accaduto.

«Sì, c’è un mistero nella vita di quell’uomo» disse Gedeon Spilett; «sembra che non sia rientrato nell’umanità che per la via del rimorso.»

«Non so proprio che tipo d’uomo abbiamo portato qui» disse il marinaio. «Ha dei segreti…»

«Che noi rispetteremo» rispose vivacemente Cyrus Smith. «Se ha commesso qualche colpa, l’ha crudelmente espiata e, ai nostri occhi, egli è assolto.»

Per due ore lo sconosciuto rimase solo sulla spiaggia, evidentemente sotto l’influenza dei ricordi che gli ricostruivano tutto il suo passato; un passato funesto, senza dubbio; e i coloni, pur senza perderlo di vista, non cercarono minimamente di turbare la sua solitudine.

Tuttavia, dopo due ore parve aver preso una risoluzione, e andò a cercare Cyrus Smith. I suoi occhi erano rossi per le lacrime versate, ma non piangeva più. Tutta la sua fisionomia era improntata a un’umiltà profonda. Pareva

timoroso, vergognoso; si faceva piccino e il suo sguardo era costantemente abbassato verso terra.

«Signore,» disse a Cyrus Smith «voi e i vostri compagni siete inglesi?»

«No,» rispose l’ingegnere «siamo americani.»

«Ah» fece lo sconosciuto; e mormorò queste parole:

«Meglio così!»

«E voi, amico?» chiese l’ingegnere.

«Inglese» rispose egli precipitosamente.

E come se quelle poche parole fossero state un gran peso per lui, s’allontanò sulla spiaggia, percorrendola dalla cascata fino alla foce del Mercy, in uno stato di estrema agitazione.

Poi, passando un certo momento presso ad Harbert, s’arrestò e, con voce strozzata:

«In che mese siamo?» gli chiese.

«Novembre» rispose Harbert.

«Che anno?»

«1866.»

«Dodici anni! dodici anni!» esclamò. Poi lasciò il ragazzo bruscamente.

Harbert aveva riferito ai coloni le domande e le esclamazioni suscitate dalle sue risposte.

«Questo disgraziato,» fece osservare Gedeon Spilett «non era più al corrente né dei mesi né degli anni!»

«Proprio!» aggiunse Harbert «e si trovava già da dodici anni sull’isolotto, quando noi ve lo abbiamo trovato!»

«Dodici anni!» disse Cyrus Smith. «Ah, dodici anni d’isolamento, dopo un’esistenza forse maledetta, possono ben alterare la ragione di un uomo!»

«Io sono propenso a credere,» disse allora Pencroff «che quest’uomo non sia arrivato all’isola di Tabor in seguito a naufragio, ma che, a causa di qualche delitto, vi sia stato abbandonato.»

«Dovete aver ragione, Pencroff,» rispose il giornalista «e se è così non è impossibile che coloro i quali lo hanno lasciato sull’isola ritornino un giorno a cercarlo!»

«E non lo troveranno più» disse Harbert.

«Ma allora,» riprese Pencroff «bisognerebbe ritornare, e…»

«Amici,» disse Cyrus Smith «non stiamo a trattare tale questione prima di sapere su che cosa basare le nostre ipotesi. Credo che quest’infelice abbia sofferto, che abbia duramente espiato le sue colpe, quali esse siano, e che il bisogno di confidarsi, di sfogarsi lo soffochi. Non provochiamolo a raccontarci la sua storia! Egli ce la dirà indubbiamente, e quando la conosceremo, vedremo quale determinazione prendere. Lui solo, d’altronde, può dirci se ha conservato, più che la speranza, la certezza di essere rimpatriato un giorno; ma io ne dubito!»

«E perché?» chiese il giornalista.

«Perché, s’egli fosse stato sicuro d’essere liberato in un tempo determinato, avrebbe atteso l’ora della liberazione e non avrebbe gettato in mare quel documento. No, è più probabile che sia stato condannato a morire su quell’isolotto e che non dovesse mai più rivedere i suoi simili!»

«Ma» osservò il marinaio «c’è una cosa che non mi posso spiegare.»

«Quale?»

«Se quest’uomo è stato abbandonato sull’isola di Tabor dodici anni or sono, è lecito supporre che già da parecchi anni fosse nello stato di selvatichezza in cui l’abbiamo trovato!»

«È probabile» rispose Cyrus Smith.

«Per conseguenza, sarebbero parecchi anni che avrebbe scritto il documento!»

«Senza dubbio… Eppure il documento pareva scritto recentemente!…»

«D’altronde, come ammettete che la bottiglia contenente il documento abbia impiegato parecchi anni a giungere dall’isola di Tabor all’isola di Lincoln?»

«Non è proprio impossibile» rispose il giornalista. «Non poteva essere già da lungo tempo nelle vicinanze dell’isola?»

«No,» rispose Pencroff «perché galleggiava ancora. E nemmeno si può supporre che, dopo aver sostato per un tempo più o meno lungo sulla spiaggia, abbia potuto essere ripresa dal mare, giacché la costa sud è tutta scogli e vi si sarebbe immancabilmente infranta!»

«Infatti» disse Cyrus Smith, che rimase pensoso.

«E poi,» soggiunse il marinaio «se il documento avesse avuto molti anni, se da parecchio tempo fosse stato rinchiuso nella bottiglia, sarebbe rimasto avariato per l’umidità. Invece si trovava in stato di perfetta conservazione.»

L’osservazione del marinaio era giustissima: c’era davvero qualche cosa di incomprensibile, perché il documento sembrava scritto di recente, quando i coloni l’avevano trovato nella bottiglia. Inoltre, dava la situazione dell’isola di Tabor in latitudine e in longitudine con molta precisione, e questo richiedeva che chi lo aveva redatto avesse delle cognizioni abbastanza complesse di idrografia, che un semplice marinaio non può avere.

«Ripeto, c’è qualche cosa d’inesplicabile» disse l’ingegnere; «ma non dobbiamo incitare il nostro nuovo compagno a parlare. Quando egli vorrà, amici miei, saremo sempre pronti ad ascoltarlo!»

Nei giorni seguenti, lo sconosciuto non pronunciò una parola e non abbandonò una sola volta il recinto dell’altipiano. Lavorava la terra, senza perdere un istante, senza prendere un momento di riposo, ma sempre in disparte. Alle ore dei pasti, non risaliva a GraniteHouse, benché più volte gliene fosse fatto invito, e si contentava di mangiare verdura cruda. Venuta la notte, non si ritirava nella stanza assegnatagli, ma rimaneva là, sotto qualche gruppo d’alberi, e quando il tempo era cattivo, si rannicchiava in qualche anfrattuosità delle rocce. Così viveva ancora come al tempo in cui non aveva altro asilo che le foreste dell’isola di Tabor, ed essendo stata vana ogni insistenza per indurlo a modificare la sua vita, i coloni attesero pazientemente. Stava per giungere il momento in cui, involontariamente, come per un comando della coscienza, terribili confessioni gli sarebbero sfuggite.

Il 10 novembre, verso le otto di sera, quando cominciava a farsi scuro, lo sconosciuto si presentò inopinatamente ai coloni, che erano riuniti sotto la veranda. I suoi occhi brillavano stranamente e tutta la sua persona aveva ripreso l’aspetto selvatico dei giorni peggiori.

Cyrus Smith e i suoi compagni furono dolorosamente stupiti, vedendo che, dominato da una terribile emozione, gli battevano i denti come se avesse avuto la febbre. Che cosa aveva, dunque? La vista di suoi simili gli era insopportabile? Era forse già stanco di vivere in un ambiente onesto? Forse la nostalgia dell’abbrutimento lo riprendeva? C’era da crederlo, quando lo si udì pronunziare queste frasi incoerenti:

«Perché sono qui?… Con qual diritto m’avete strappato al mio isolotto?… Può esservi forse un vincolo qualsiasi tra voi e me?… Sapete chi sono… che cosa ho fatto… perché ero laggiù… solo? E chi vi dice che non mi ci abbiano abbandonato?… e ch’io non fossi condannato a morire là?… Conoscete voi il mio passato?… Sapete s’io abbia rubato, assassinato… Se non sia un miserabile… un essere maledetto… buono solo a vivere come una bestia selvaggia… lontano da tutti… Dite… lo sapete voi?»

I coloni ascoltavano senza interrompere lo sciagurato, al quale quelle mezze confessioni sfuggivano, per così dire, suo malgrado. Cyrus Smith volle allora avvicinarglisi per calmarlo, ma quegli indietreggiò vivamente.

«No, no!» gridò. «Una parola soltanto… Sono libero?»

«Siete libero!» rispose l’ingegnere.

«Addio, dunque!» gridò, e fuggì come un pazzo. Nab, Pencroff, Harbert, corsero subito verso il margine del bosco… ma ritornarono soli.

«Bisogna lasciarlo fare!» disse Cyrus Smith.

«Non ritornerà mai più!» gridò Pencroff.

«Ritornerà» rispose l’ingegnere.

E, da allora, molti giorni passarono; ma Cyrus Smith — era una specie di presentimento? — persiste nell’incrollabile idea che lo sventurato sarebbe, presto o tardi, ritornato.

«È l’ultima rivolta in quella rozza natura,» diceva «toccata dal rimorso e che un nuovo isolamento, ormai, spaventerebbe.»

Intanto, tutti i lavori furono continuati, sull’altipiano di Bellavista e al recinto, dove Cyrus Smith aveva l’intenzione di erigere una fattoria. È inutile dire che le sementi raccolte da Harbert all’isola di Tabor erano state accuratamente seminate. L’altipiano formava allora un vasto orto, ben disegnato, ben tenuto, che non lasciava inoperose le braccia dei coloni. Là c’era sempre da lavorare. A mano a mano che i legumi e gli ortaggi s’erano moltiplicati, era stato necessario ingrandire le semplici aiuole, che tendevano a diventare dei veri campi, a detrimento dei pascoli. Ma il foraggio abbondava nelle altre parti dell’isola e gli onagri non avevano da temere di essere messi a razione. Era meglio, del resto, trasformare in orto l’altipiano di Bellavista, difeso dalla sua profonda cintura di piccoli corsi d’acqua, e lasciar fuori le praterie, che non avevano bisogno d’essere protette dalle depredazioni dei quadrumani e dei quadrupedi.

Il 15 novembre venne fatta la terza mietitura. Il campo era naturalmente molto cresciuto in superficie, nei diciotto mesi da che il primo frumento era stato seminato! Il secondo raccolto di seicentomila chicchi produsse questa volta quattromila staia, ossia più di cinquecento milioni di chicchi! La colonia era ricca ora di frumento, poiché bastava seminarne una dozzina di staia per assicurare il raccolto ogni anno e perché tutti, uomini e bestie, potessero nutrirsi.

La mietitura fu fatta e l’ultima quindicina del mese di novembre fu consacrata ai lavori di panificazione.

Infatti, c’era il grano, ma non la farina, e fu dunque necessaria la costruzione di un mulino. Cyrus Smith avrebbe potuto utilizzare la seconda cascata, che si scaricava nel Mercy, per far funzionare il suo motore, la prima essendo già occupata a muovere i pestelli della gualchiera; ma dopo aver discusso, fu deciso di costruire un semplice mulino a vento sulle alture di Bellavista. Costruire l’uno non era più difficile che costruire l’altro, ed era certo, d’altra parte, che la forza non sarebbe mancata su quell’altipiano, esposto a tutti i venti del mare aperto.

«Senza contare» disse Pencroff «che il mulino a vento sarà più allegro e farà un bell’effetto nel paesaggio!»

I coloni si misero, dunque, all’opera, scegliendo legname da costruzione per la gabbia e il meccanismo del mulino. Alcune grosse pietre di grès, che si trovavano a nord del lago, potevano facilmente trasformarsi in macine, e quanto alle ali, l’inesauribile involucro del pallone fornì la tela necessaria.

Cyrus Smith tracciò i piani, e l’area per il mulino fu scelta un po’ a destra del pollaio, vicino alla riva del lago. Tutta la gabbia doveva posare su di un perno piantato in grossi travi, in modo da poter girare con tutto il meccanismo, a seconda delle esigenze del vento.

Questo lavoro fu rapidamente compiuto. Nab e Pencroff erano diventati abilissimi carpentieri e non avevano che da attenersi alle sagome fornite dall’ingegnere. Così una specie di garitta cilindrica, un vero macinino da pepe, sormontata da un tetto aguzzo, si elevò in poco tempo nel luogo designato. I quattro telai che costituivano le ali erano stati solidamente impiantati nell’albero, in modo da formare con esso un determinato angolo e vi furono fissati con tenoni di ferro. Le diverse parti del meccanismo interno, il tamburo destinato a contenere le due macine, la macina fissa e quella girante, la tramoggia, specie di grande cassa quadrata, larga in alto, stretta in basso, che doveva permettere ai chicchi di cadere sulle macine, la vaschetta oscillante destinata a regolare il passaggio del grano, alla quale il suo perpetuo tictac ha fatto dare il nome di «chiacchierona» e per finire il buratto che, mediante la stacciatura, separa la crusca dalla farina, tutto venne costruito senza fatica. Gli attrezzi erano buoni e il lavoro fu poco difficile, essendo le parti di un mulino molto semplici. Fu solo questione dì tempo.

Tutti avevano lavorato alla costruzione del mulino e il primo di dicembre era già ultimato.

Pencroff, come sempre, era entusiasta della sua opera e non dubitava che l’apparecchio fosse perfetto.

«Adesso, un buon vento,» disse «e macineremo facilmente il nostro primo raccolto!»

«Un buon vento, sì,» rispose l’ingegnere «ma non troppo, Pencroff.»

«Bah! Il nostro mulino girerà più presto!»

«Non è necessario che giri tanto velocemente» rispose Cyrus Smith. «Si sa per esperienza che un mulino dà il massimo rendimento quando il numero dei giri delle ali in un minuto è pari a sei volte il numero dei piedi percorsi dal vento in un secondo. Con una brezza media, che dia ventiquattro piedi al secondo, le ali faranno sedici giri al minuto, e di più non ne occorre!»

«Appunto!» esclamò Harbert «soffia un vento maneggevole da nordest, che farà proprio al caso nostro!»

Non c’era alcuna ragione di ritardare l’inaugurazione del mulino, poiché i coloni avevano fretta di gustare il primo pezzo di pane dell’isola di Lincoln. Quel giorno, quindi, nella mattinata, due o tre staia di frumento furono macinate e il giorno seguente, a colazione, una magnifica pagnotta, forse un po’ compatta, benché lievitata col lievito di birra, compariva sulla tavola di GraniteHouse. Ognuno vi affondava i denti, e con qual piacere è facile comprendere, del resto!

Intanto, lo sconosciuto non era ricomparso. Più volte Gedeon Spilett e Harbert avevano percorso la foresta nei dintorni di GraniteHouse, senza incontrarlo, senza trovarne traccia. I coloni erano seriamente inquieti di questa sparizione prolungata. Certamente, l’antico selvaggio dell’isola di Tabor non poteva sentirsi a disagio in mezzo alle foreste del Far West, così ricche di selvaggina; ma non c’era da temere ch’egli riprendesse le sue abitudini e che quell’indipendenza risvegliasse i suoi istinti feroci? Tuttavia Cyrus Smith, forse per una specie di presentimento, persisteva sempre a dire che il fuggitivo sarebbe ritornato.

«Sì, ritornerà!» ripeteva con una fiducia, che i suoi compagni non potevano condividere. «Quando quel disgraziato era all’isola di Tabor si sapeva solo! Qui invece, sa che i suoi simili l’aspettano! Poiché ha già a metà parlato della sua vita passata, quel poveretto ritornerà per narrarcela tutta intera, e quel giorno egli sarà nostro.»

Gli avvenimenti si preparavano a dar ragione a Cyrus Smith.

Il 3 dicembre, Harbert aveva lasciato l’altipiano di Bellavista ed era andato a pescare sulla riva meridionale del lago. Era disarmato, perché sino a quel giorno non era mai stato necessario prendere alcuna precauzione, in quanto gli animali pericolosi non si mostravano in quella parte dell’isola.

Frattanto Pencroff e Nab lavoravano al pollaio, mentre Cyrus Smith e il cronista erano occupati ai Camini a fabbricare della soda, essendo esaurita la provvista di sapone.

D’un tratto risuonarono delle grida:

«Aiuto! A me!»

Cyrus Smith e il giornalista, troppo lontani, non avevano potuto udire quel richiamo concitato. Pencroff e Nab, abbandonando il cortile in tutta fretta, s’erano precipitati verso il lago.

Ma prima di essi, lo sconosciuto, di cui nessuno avrebbe potuto supporre la presenza in quel luogo, attraversò il Creek Glicerina, fra l’altipiano e la foresta, e saltò sulla riva opposta.

Là, Harbert era di fronte a un formidabile giaguaro, simile a quello ch’era stato ucciso al promontorio del Rettile. Colto alla sprovvista, egli si teneva in piedi contro un albero; mentre l’animale, raggomitolato su se stesso, stava per slanciarsi… Ma lo sconosciuto, senz’altra arma che un coltello, si precipitò sulla temibile belva, che si rivolse contro il nuovo avversario.

La lotta fu breve. Lo sconosciuto era d’una forza e d’una sveltezza prodigiose. Con una mano, possente come una morsa, aveva afferrato il giaguaro alla gola, senza curarsi che gli artigli della belva gli penetrassero nelle carni, e con l’altra mano gli trafiggeva il cuore con il coltello.

Il giaguaro cadde. Lo sconosciuto lo respinse col piede, e stava già per fuggire proprio nel momento in cui i coloni arrivavano sul teatro della lotta, quando Harbert, attaccandosi a lui, gridò:

«No, no! Non ve ne andrete!»

Cyrus Smith andò incontro allo sconosciuto, che, al vederlo avvicinarsi, aggrottò le sopracciglia. Il sangue gli colava da una spalla sotto la giubba lacerata, ma egli non se ne curava.

«Amico,» gli disse Cyrus Smith «noi abbiamo ora contratto un debito di riconoscenza verso di voi. Per salvare il nostro ragazzo, avete arrischiato la vita!»

«La mia vita!…» mormorò lo sconosciuto «Che cosa vale? Meno che nulla!»

«Siete ferito?»

«Poco importa.»

«Volete darmi la mano?»

E siccome Harbert cercava di afferrare quella mano che l’aveva salvato, lo sconosciuto incrociò le braccia, il suo petto si gonfiò, gli occhi gli si velarono e sembrò voler fuggire; ma, facendo un violento sforzo su se stesso, e con tono brusco:

«Chi siete?» disse «e che cosa pretendete di essere per me? Così egli domandava, per la prima volta, la storia dei coloni. Saputa questa»

storia, egli avrebbe, forse, narrato la sua.

In poche parole Cyrus Smith raccontò tutto quello che era successo dopo la loro partenza da Richmond, come s’erano tratti d’impaccio e quali risorse erano ora a loro disposizione.

Lo sconosciuto ascoltava con estrema attenzione.

Poi, l’ingegnere disse ancora chi e che cosa erano Gedeon Spilett, Harbert, Pencroff, Nab, lui, e aggiunse che la più grande gioia che avevano provata dal giorno del loro arrivo nell’isola di Lincoln era stata quando, al ritorno dall’isolotto, avevano creduto di poter avere un compagno di più.

A queste parole, lo sconosciuto arrossì, chinò il capo sul petto e un sentimento di confusione si dipinse su tutta la persona.

«E adesso che ci conoscete,» soggiunse Cyrus Smith «volete darci la mano?»

«No,» rispose lo sconosciuto con voce sorda «no! Voi siete gente onesta, voi! E io!…»

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