LA CONVALESCENZA del giovane malato procedeva regolarmente. Una cosa sola adesso era da desiderare, e cioè che il suo stato permettesse di ricondurlo a GraniteHouse. Per ben sistemata e rifornita che fosse l’abitazione del recinto, non poteva offrire le comodità della sana dimora di GraniteHouse. Inoltre, non offriva nemmeno la stessa sicurezza, e i suoi ospiti, malgrado l’attenta sorveglianza, vi si trovavano sempre sotto la minaccia del fuoco dei deportati. Laggiù, invece, in quell’inespugnabile e inaccessibile massiccio, nulla avrebbero avuto da temere e qualsiasi tentativo contro le loro persone sarebbe forzatamente fallito. Aspettavano dunque con impazienza il momento in cui Harbert avrebbe potuto essere trasportato senza pericolo per la sua ferita, ed erano fermamente decisi a effettuare il trasporto, benché le comunicazioni attraverso il bosco dello Jacamar fossero difficilissime.
Mancavano notizie di Nab, ma non si sentivano inquieti per lui. Il coraggioso negro, trincerato dentro GraniteHouse, non si sarebbe lasciato sorprendere. Top non gli era più stato rimandato, giacché era parso inutile esporre il fedele animale a qualche fucilata, che avrebbe privato i coloni del loro più utile ausiliario.
I coloni, dunque, attendevano, ma avevano fretta di trovarsi tutti riuniti a GraniteHouse. L’ingegnere soffriva nel vedere le sue forze divise, perché ciò faceva il gioco dei pirati. Dopo che Ayrton era sparito, essi non erano che quattro contro cinque, giacché Harbert non contava ancora, e non era questa la preoccupazione minore del bravo ragazzo, che comprendeva di quale imbarazzo egli fosse causa.
Sul modo di agire, allo stato presente delle cose, contro i deportati si discusse a fondo nella giornata del 29 novembre fra Cyrus Smith, Gedeon Spilett e Pencroff, in un momento in cui Harbert, assopito, non poteva udirli.
«Amici,» disse il giornalista, dopo che ebbero parlato di Nab e dell’impossibilità di comunicare con lui «anch’io credo, come voi, che avventurarsi sulla strada del recinto sarebbe rischiare di ricevere una fucilata senza poterla restituire. Ma non avete pensato che adesso converrebbe, invece, dare apertamente la caccia a quei miserabili?»
«Ci pensavo» rispose Pencroff. «Credo che noi non siamo uomini da paventare un proiettile e, per conto mio, se il signor Cyrus approva, sono pronto a gettarmi nella foresta! Che diavolo! Un uomo vale quanto un altro!»
«Ma può valerne cinque?» domandò l’ingegnere.
«Io mi unirò a Pencroff,» rispose il giornalista «e tutt’e due, bene armati e accompagnati da Top…»
«Caro Spilett, e voi, Pencroff,» riprese Cyrus Smith «ragioniamo freddamente. Se i deportati avessero il loro covo in una determinata località dell’isola; se questa località ci fosse nota, e non si trattasse che di stanarveli, capirei un attacco diretto. Ma non ci sarà, piuttosto, da temere che essi siano sicuri di essere i primi a sparare?»
«Eh, signor Cyrus,» esclamò Pencroff «non sempre una palla giunge a segno!»
«Quella che ha colpito Harbert non ha sbagliato, Pencroff» rispose l’ingegnere. «D’altronde, dovete convenire che se tutt’e due lasciate il recinto, rimarrei io solo a difenderlo. Potete garantire che i banditi non vi vedranno uscire, che non vi lasceranno addentrare nella foresta e che non ci attaccheranno durante la vostra assenza, sapendo non esservi qui che un ragazzo ferito e un uomo?»
«Avete ragione, signor Cyrus,» rispose Pencroff, in preda a una sorda collera «avete ragione. Faranno di tutto per riprendere il recinto, che sanno ben fornito di provviste. E da solo voi non potreste tener loro testa. Ah, se fossimo a GraniteHouse!»
«Se fossimo a GraniteHouse,» disse l’ingegnere «la situazione sarebbe molto differente! Là non temerei di lasciare Harbert con uno di noi e gli altri tre andrebbero a perlustrare le foreste dell’isola. Ma siamo al recinto, e conviene che ci restiamo sino al momento in cui potremo lasciarlo tutti assieme!»
Nulla si poteva opporre ai ragionamenti di Cyrus Smith, e i suoi compagni lo compresero.
«Se Ayrton fosse ancora dei nostri!» disse Gedeon Spilett. «Poveretto! Il suo ritorno alla vita sociale è stato di breve durata!»
«Se è morto!…» aggiunse Pencroff in tono piuttosto singolare.
«Sperate, dunque, Pencroff, che quei furfanti lo abbiano risparmiato?»
«chiese Gedeon Spilett.»
«Sì, se hanno avuto interesse a farlo!»
«Come! Supporreste che Ayrton, ritrovando i suoi vecchi complici, dimenticando tutto quello che ci deve…»
«Chi sa?» rispose il marinaio, che non arrischiava senza esitare questa spiacevole supposizione.
«Pencroff,» disse Cyrus Smith, afferrando per un braccio il marinaio
«questo è un cattivo pensiero, e mi affliggereste molto persistendo a parlare così. Garantisco della fedeltà di Ayrton.»
«E io pure» aggiunse con vivacità il giornalista.
«Si… sì… signor Cyrus… ho torto» rispose Pencroff. «Ho avuto un cattivo pensiero, infatti, e nulla lo giustifica! Ma che cosa volete? Non son più padrone di me! Ho perduto completamente la testa. Questa detenzione nel recinto mi pesa orribilmente e non sono mai stato tanto sovreccitato come adesso!»
«Abbiate pazienza, Pencroff» disse l’ingegnere. «Fra quanto tempo, caro Spilett, credete che Harbert possa essere trasportato a GraniteHouse?»
«È un po’ difficile dirlo, Cyrus,» rispose il giornalista «perché un’imprudenza potrebbe produrre conseguenze funeste. Ma, insomma, se la convalescenza si svolge regolarmente e se fra otto giorni le forze gli saranno ritornate, ebbene, allora vedremo!»
Otto giorni! Il ritorno a GraniteHouse sarebbe avvenuto soltanto ai primi di dicembre.
Allora la primavera sarebbe stata già al suo secondo mese. Il tempo era bello e il caldo incominciava a farsi sentire. Le foreste dell’isola erano in pieno rigoglio e si avvicinava il momento dei consueti raccolti. Il ritorno a GraniteHouse sarebbe stato dunque seguito da grandi lavori che solo la ideata spedizione nell’isola avrebbe interrotti.
Si capisce, quindi, quanto nuocesse ai coloni quel sequestro nel recinto. Ma, se erano obbligati a piegarsi alla necessità, non lo facevano senza impazienza.
Una volta o due il cronista s’arrischiò a uscire sulla strada e fece il giro del recinto chiuso dalla palizzata. Top l’accompagnava e Gedeon Spilett, con la carabina carica, era pronto a ogni evento.
Non fece alcun cattivo incontro e non trovò alcuna traccia sospetta. Il cane l’avrebbe avvertito d’ogni pericolo, e siccome Top non abbaiava, se ne poteva dedurre che non c’era nulla da temere, in quel momento almeno, e che i deportati erano occupati in un’altra parte dell’isola.
Nondimeno, durante la sua seconda uscita, il 27 novembre, Gedeon Spilett, che s’era avventurato nei boschi per un quarto di miglio a sud della montagna, notò che Top fiutava qualche cosa. Il cane non aveva più la sua andatura indifferente; andava e veniva, frugando nelle erbe e negli sterpi, come se il suo odorato gli avesse rivelato qualche oggetto sospetto.
Gedeon Spilett seguì Top, l’incoraggiò, lo incitò con la voce, pur avendo l’occhio attento a tutto e la carabina spianata, approfittando del riparo degli alberi per nascondersi. Non era probabile che Top avesse sentito la presenza di un uomo, giacché, in tal caso, l’avrebbe annunciata con latrati contenuti e una specie di collera sorda. Ora, dato che il cane non faceva sentire alcun brontolio, voleva dire che il pericolo non era né vicino, né imminente.
Circa cinque minuti passarono così, Top frugando, il giornalista seguendolo e secondandolo prudentemente, quando, tutto a un tratto, il cane si precipitò verso un folto cespuglio e ne trasse un brandello di stoffa.
Era un pezzo di vestito, macchiato e lacero, che Gedeon Spilett portò immediatamente al recinto.
I coloni l’esaminarono e riconobbero in esso un pezzo della giacca di Ayrton; era infatti un pezzo del feltro fabbricato unicamente nel laboratorio di GraniteHouse.
«Vedete, Pencroff,» fece osservare Cyrus Smith «c’è stata resistenza da parte del povero Ayrton. I pirati l’hanno trascinato suo malgrado. Dubitate ancora della sua onestà?»
«No, signor Cyrus» rispose il marinaio; «è già molto tempo che mi sono liberato della mia diffidenza di un istante. Ma mi pare che da questo fatto si possa trarre una conseguenza.»
«Quale?» chiese il giornalista.
«Che Ayrton non è stato ucciso al recinto, ma l’hanno trascinato via vivo, poiché ha resistito! Ora, forse, egli vive ancora!»
«Può essere, infatti» rispose l’ingegnere che rimase pensieroso.
C’era, nel rinvenimento di quel pezzo di stoffa, una speranza in cui i compagni di Ayrton potevano confidare. Infatti, sulle prime avevano creduto che, sorpreso nel recinto, Ayrton fosse caduto sotto qualche palla, com’era caduto Harbert. Ma, se i predoni non l’avevano ucciso subito, e l’avevano invece condotto vivo in qualche altra parte dell’isola, non era lecito ammettere che fosse ancora loro prigioniero? Poteva darsi anche che qualcuno di essi avesse riconosciuto in Ayrton un vecchio compagno d’Australia, il Ben Jovce, il capo dei deportati evasi. E chi sa che non avessero concepito l’inverosimile speranza
di ricondurlo nelle loro file! Sarebbe stato molto utile per loro farne un traditore!…
Quell’incidente fu, dunque, favorevolmente interpretato al recinto, e il ritrovamento di Ayrton non parve più impossibile. V’era, inoltre, la certezza che, dal canto suo, Ayrton — se era prigioniero — avrebbe fatto di tutto per sfuggire dalle mani dei banditi, e allora sarebbe stato un potente aiuto per i coloni!
«In ogni caso,» osservò Gedeon Spilett «se, per fortuna, Ayrton riesce a salvarsi, andrà direttamente a GraniteHouse, perché non conosce il tentativo d’assassinio di cui Harbert è stato vittima e, di conseguenza, non può supporre che noi siamo imprigionati nel recinto.»
«Ah, vorrei ch’egli fosse già a GraniteHouse!» esclamò Pencroff «e che vi fossimo noi pure. Poiché, insomma, se quei furfanti nulla possono tentare contro la nostra dimora, possono però saccheggiare l’altipiano, le nostre piantagioni, il nostro pollaio!»
Pencroff era, come un vero e proprio contadino, attaccato con il cuore ai suoi raccolti. Ma bisogna dire che Harbert era il più impaziente di tutti di tornare a GraniteHouse, perché sapeva quanto la presenza dei coloni vi fosse necessaria. Ed era lui che li tratteneva al recinto! Così la sua mente era occupata da quest’unica idea: lasciare il recinto, lasciarlo a ogni costo! Egli credeva di poter sopportare il trasferimento fino a GraniteHouse! Assicurava che le forze gli sarebbero ritornate più presto nella sua camera, con l’aria e la vista del mare!
Parecchie volte sollecitò Gedeon Spilett, ma questi, temendo con ragione che le ferite di Harbert, mal cicatrizzate, si riaprissero per via, non dava l’ordine di partire.
Ma nel frattempo si verificò un incidente, che indusse Cyrus Smith e i suoi due amici a cedere al desiderio del giovinetto, e Dio sa quanti dolori e quanti rimorsi causò poi loro quella determinazione!
Era il 29 novembre. Alle sette di mattina i tre coloni conversavano nella camera di Harbert, quando udirono Top abbaiare vivacemente.
Cyrus Smith, Pencroff e Gedeon Spilett afferrarono i fucili, sempre pronti a far fuoco, e uscirono dalla casa.
Top, ai piedi dello steccato, saltava, abbaiava, ma di contentezza, non di collera.
«Viene qualcuno!»
«Sì!»
«Non è un nemico!»
«Nab, forse?»
«O Ayrton?»
Queste parole erano appena state scambiate fra l’ingegnere e i suoi compagni, quando un corpo, scavalcando la palizzata, ricadeva nel recinto.
Era Jup, mastro Jup in persona, al quale Top fece un’accoglienza da vero amico!
«Jup!» esclamò Pencroff.
«È Nab che ce lo manda» disse il cronista.
«Allora,» disse l’ingegnere «deve avere qualche biglietto. Pencroff si precipitò sull’orango. Evidentemente, se Nab avesse avuto»
qualche cosa d’importante da annunciare al suo padrone, non avrebbe potuto impiegare un messaggero più sicuro e più rapido, che poteva passare laddove né ai coloni, né allo stesso Top sarebbe stato possibile.
Cyrus Smith non si era ingannato. Al collo di Jup era appeso un sacchettino, in cui si trovava un biglietto scritto di pugno da Nab.
Si pensi alla disperazione di Cyrus Smith e dei suoi compagni quando lessero queste parole:
«Venerdì, ore sei del mattino. Altipiano invaso dai deportati! NAB.» Si guardarono senza pronunciar parola, poi rientrarono in casa. Che cosa dovevano fare? I deportati sull’altipiano di Bellavista volevano dire il disastro, la devastazione, la rovina!
Harbert, vedendo rientrare l’ingegnere, il giornalista e Pencroff, comprese che la situazione s’era aggravata e, quando poi scorse Jup, non dubitò più che una disgrazia minacciasse GraniteHouse.
«Signor Cyrus,» disse «voglio partire. Posso sopportare il viaggio! Voglio partire!»
Gedeon Spilett s’avvicinò ad Harbert. Poi, dopo averlo guardato:
«Partiamo, dunque!» disse.
In breve si decise se Harbert sarebbe stato trasportato su di una barella o nel carretto che Ayrton aveva condotto al recinto. La barella avrebbe avuto movimenti più dolci per il ferito, ma rendeva necessari due portatori, e quindi due fucili sarebbero mancati alla difesa, in caso di un attacco per la strada.
Non si poteva, invece, adoperare il carro, lasciando così tutte le braccia disponibili? Era, dunque, impossibile collocarvi i materassi su cui riposava Harbert e avanzare con tanta precauzione, che ogni scossa gli fosse evitata? Si poteva.
Fu condotto il carro. Pencroff vi attaccò l’onagro. Cyrus Smith e il giornalista sollevarono i materassi di Harbert e li posarono sul fondo del carro fra le due sponde.
Il tempo era bello. Vivi raggi di sole s’insinuavano attraverso gli alberi.
«Le armi sono pronte?» domandò Cyrus Smith.
Erano pronte. L’ingegnere e Pencroff, armati ciascuno di un fucile a due colpi e Gedeon Spilett, con la sua carabina, non avevano che da partire.
«Sei sistemato bene, Harbert?» domandò l’ingegnere.
«Ah, signor Cyrus,» rispose il ragazzo «state tranquillo, non morirò per via!»
Il povero ragazzo parlava così, ma si vedeva che faceva appello a tutta la sua energia e che solo per un supremo sforzo di volontà teneva deste le sue forze prossime a estinguersi.
L’ingegnere si sentì stringere il cuore dolorosamente. Esitò ancora a dare il segnale della partenza. Ma sarebbe stato come mettere Harbert alla disperazione, forse anche ucciderlo.
«In cammino!» disse Cyrus Smith.
La porta del recinto venne aperta. Jup e Top, che sapevano tacere quand’era necessario, si slanciarono avanti. Il carretto uscì, la porta fu richiusa e l’onagro, guidato da Pencroff, avanzò con passo lento.
Sarebbe stato certo meglio prendere un’altra strada, non quella che andava direttamente dal recinto a GraniteHouse, ma il carro avrebbe incontrato grandi difficoltà a muoversi in mezzo ai boschi. Bisognò, dunque, seguire questa via, benché certamente nota ai deportati.
Cyrus Smith e Gedeon Spilett camminavano ai due lati del carro, pronti a rispondere a ogni attacco. Ma non era probabile che i deportati avessero già abbandonato l’altipiano di Bellavista. Il biglietto di Nab evidentemente era stato scritto e mandato appena i deportati vi si erano mostrati. Ora, questo biglietto era stato scritto alle sei del mattino e l’agile scimmia, abituata a venire spesso al recinto, aveva impiegato appena tre quarti d’ora a percorrere le cinque miglia che lo separavano da GraniteHouse. La strada doveva essere sicura in quel momento e, se fosse stato necessario sparare, sarebbe stato nelle vicinanze di GraniteHouse.
Tuttavia, i coloni stavano in guardia. Top e Jup, — questo armato del suo bastone — ora precedendo i coloni, ora perlustrando il bosco ai lati della strada, non segnalavano alcun pericolo.
Il carro avanzava lentamente, guidato da Pencroff. Avevano lasciato il recinto alle sette e mezzo. Un’ora dopo, quattro miglia su cinque erano state superate, senza alcun incidente.
La strada era deserta come tutta la parte del bosco dello Jacamar, che si stendeva fra il Mercy e il lago. Nessun allarme. I cedui parevano deserti come nel giorno in cui i coloni erano sbarcati sull’isola.
I coloni si avvicinavano all’altipiano. Ancora un miglio e sarebbero stati in vista del ponticello del Creek Glicerina. Cyrus Smith era persuaso che il ponticello sarebbe stato al suo posto, sia che i deportati fossero entrati da quella parte, sia che, dopo aver passato uno dei corsi d’acqua che chiudevano la cinta, avessero preso la precauzione di abbassarlo, per aprirsi la via a un’eventuale ritirata.
Finalmente gli ultimi alberi si diradarono, permettendo ai coloni di vedere il mare. Ma il carretto continuò la sua strada, poiché nessuno dei suoi difensori poteva pensare ad abbandonarlo.
A un tratto Pencroff fermò l’onagro e con voce terribile:
«Ah, miserabili!» esclamò.
E con la mano mostrò una densa nuvola di fumo, che turbinava al disopra del mulino, delle stalle e della corte degli animali.
Un uomo s’agitava in mezzo a quei vapori.
Era Nab.
I suoi compagni mandarono un grido. Egli udì e corse loro incontro…
I deportati avevano abbandonato l’altipiano da circa mezz’ora, dopo averlo devastato!
«E il signor Harbert?» esclamò Nab. Gedeon Spilett ritornò allora presso il carro. Harbert era svenuto!