«POVER’UOMO!» disse Harbert, che, slanciandosi verso la porta, aveva visto Ayrton scivolare lungo la corda dell’ascensore e sparire nell’oscurità.
«Tornerà» disse Cyrus Smith.
«Ah, perbacco, signor Cyrus,» esclamò Pencroff «che cosa vuol dir questo? Come! Non fu Ayrton a gettare la bottiglia in mare? Ma chi è stato, allora?»
Certo, se una domanda doveva essere fatta, era proprio quella!
«È stato lui» rispose Nab; «ma l’infelice era già metà fuori di senno.»
«Sì,» disse Harbert «e non aveva più la coscienza di quel che faceva.»
«Il fatto non può spiegarsi che così, amici,» rispose vivamente Cyrus Smith; «e io comprendo adesso come Ayrton abbia potuto indicare esattamente la situazione dell’isola di Tabor; infatti, gli avvenimenti stessi che avevano preceduto il suo abbandono nell’isola gliela facevano conoscere.»
«Nondimeno,» fece notare Pencroff «s’egli non era ancora un bruto nel momento in cui redigeva il documento e se è sette od otto anni che l’ha gettato in mare, come mai quel foglio non fu alterato dall’umidità?»
«Questo prova» rispose Cyrus Smith «che Ayrton è stato privato dell’intelligenza in un tempo molto più recente di quel che non creda.»
«Bisogna che sia così,» rispose Pencroff «altrimenti la cosa sarebbe inesplicabile!»
«Inesplicabile, davvero» disse l’ingegnere, che sembrava non voler prolungare quella conversazione.
«Ma Ayrton avrà detto la verità?» chiese il marinaio.
«Sì» rispose il giornalista. «La storia che ha narrata è assolutamente vera. Io mi ricordo benissimo che i giornali hanno riferito il tentativo fatto da lord Glenarvan e il risultato da lui ottenuto.»
«Ayrton ha detto la verità,» aggiunse Cyrus Smith «non dubitatene, Pencroff, poiché essa era abbastanza crudele per lui. Si dice il vero quando ci si accusa così!»
Il giorno seguente — 21 dicembre — i coloni discesero alla spiaggia ed essendosi portati sull’altipiano, non vi trovarono più Ayrton. Ayrton aveva raggiunto, durante la notte, la sua casa del recinto, e i coloni reputarono conveniente non importunarlo con la loro presenza. Il tempo indubbiamente avrebbe fatto ciò che non avevano potuto gli incoraggiamenti.
Harbert, Pencroff e Nab ripresero allora le loro consuete occupazioni. Quel giorno appunto gli stessi lavori riunirono Cyrus Smith e il giornalista nel laboratorio dei Camini.
«Sapete, caro Cyrus,» disse Gedeon Spilett «che la spiegazione che ieri avete data relativamente a quella bottiglia non m’ha soddisfatto per niente? Come ammettere che quel disgraziato abbia potuto scrivere il documento e gettare la bottiglia in mare, senza averne serbato il ricordo?»
«Perché non è stato lui che l’ha gettata, caro Spilett.»
«Allora, voi credete ancora…»
«Non credo niente, non so niente!» rispose Cyrus Smith, interrompendo il giornalista. «Mi accontento di annoverare quest’incidente fra quelli che non ho potuto spiegare finora!»
«Davvero, Cyrus,» disse Gedeon Spilett «queste cose sono incredibili! Il vostro salvataggio, la cassa arenata sulla sabbia, le avventure di Top e da ultimo quella bottiglia… Non avremo, dunque, mai la chiave di questi enigmi?»
«Sì!» rispose vivacemente l’ingegnere «si, quand’anche dovessi frugare quest’isola fin nelle sue viscere!»
«Il caso ci darà forse la chiave del mistero!»
«Il caso! Spilett! Io non credo al caso più di quanto creda ai misteri di questo mondo. C’è una causa in tutto quello che succede d’inesplicabile qui, e questa causa io la scoprirò. Ma, intanto, osserviamo e lavoriamo.»
Giunse il mese di gennaio. Incominciava l’anno 1867. I lavori estivi furono condotti con assiduità. Nei giorni seguenti, Harbert e Gedeon Spilett, essendo andati dalle parti del recinto, poterono constatare che Ayrton aveva preso possesso della dimora preparata per lui. Si occupava del numeroso gregge affidato alle sue cure, risparmiando ai suoi compagni la fatica di andare ogni due o tre giorni a visitare il recinto. Tuttavia, per non lasciare Ayrton troppo a lungo isolato, i coloni lo visitavano assai spesso.
Non era inutile (tutt’altro!), dati certi sospetti che l’ingegnere e Gedeon Spilett condividevano, che quella parte dell’isola fosse soggetta a una certa sorveglianza; e Ayrton, se qualche incidente fosse intervenuto, non avrebbe mancato di informarne gli abitanti di GraniteHouse.
Però, poteva darsi che l’incidente fosse subitaneo ed esigesse d’essere rapidamente conosciuto dall’ingegnere. Anche all’infuori di ogni fatto relativo al mistero dell’isola di Lincoln, molti altri se ne potevano verificare, che avrebbero richiesto un pronto intervento dei coloni, come l’apparizione d’una nave in vista della costa occidentale, un naufragio sugli atterraggi dell’ovest, il possibile arrivo di pirati, ecc.
Così Cyrus Smith risolse di mettere il recinto in comunicazione immediata con GraniteHouse.
Il 10 gennaio partecipò il suo progetto ai compagni.
«Ah, diamine! E come farete, signor Cyrus?» domandò Pencroff. «Pensereste, per caso, d’installare un telegrafo?»
«Precisamente» rispose l’ingegnere.
«Elettrico?» esclamò Harbert.
«Elettrico» rispose Cyrus Smith. «Abbiamo tutti gli elementi necessari per confezionare una pila. Più difficile sarà fare i fili di ferro, ma per mezzo di una filiera credo che ne verremo a capo.»
«Dopo questo,» replicò il marinaio «non dispero più di viaggiare un giorno in ferrovia!»
I coloni si misero all’opera, cominciando dalla parte più difficile, cioè dalla fabbricazione dei fili, giacché, se non fossero riusciti in questa operazione, sarebbe stato inutile fabbricare la pila e gli altri accessori.
Il ferro dell’isola di Lincoln, com’è noto, era di qualità ottima e quindi molto adatto a lasciarsi distendere. Cyrus Smith cominciò con il fabbricare una filiera, o trafila, vale a dire una piastra d’acciaio, che fu forata a buchi conici di diverse grandezze; i quali dovevano successivamente ridurre il filo al grado di sottigliezza voluta. Questa lastra d’acciaio, dopo essere stata temperata alla massima durezza, venne fissata in maniera irremovibile su di un telaio solidamente piantato nel suolo, a pochi piedi soltanto dalla grande cascata, di cui l’ingegnere stava per utilizzare ancora la forza motrice.
Infatti, là era la gualchiera, che allora non funzionava, ma il cui albero, mosso con forza poderosa, poteva servire a tirare il filo, avvolgendolo intorno a sé.
L’operazione fu delicata e richiese molte cure. Il ferro, preliminarmente preparato in aste lunghe e sottili, le cui estremità erano state assottigliate con la lima, venne introdotto nel foro di maggior calibro della trafila, stirato dall’albero della gualchiera e avvolto per una lunghezza dai venticinque ai trenta piedi, poi svolto e introdotto successivamente nei fori di minore diametro. Finalmente, l’ingegnere ottenne dei fili lunghi da quaranta a cinquanta piedi, ch’era facile collegare e tendere sulla distanza di cinque miglia che separava il recinto da GraniteHouse.
Bastarono alcuni giorni per condurre a buon fine quella faccenda. Dopo che la macchina fu avviata, Cyrus Smith lasciò i compagni a trafilare e s’occupò di fabbricare la sua pila.
Si trattava di ottenere una pila a corrente continua. È noto che gli elementi delle pile moderne si compongono generalmente di carbone di storta, di zinco e di rame. Il rame mancava totalmente all’ingegnere, che, malgrado le sue ricerche, non ne aveva trovato traccia nell’isola di Lincoln, e bisognava farne a meno. Il carbone di storta, vale a dire quella dura grafite che si trova nelle storte delle officine del gas, dopo che al carbon fossile è stato tolto l’idrogeno, si sarebbe potuto produrre, ma sarebbe stato necessario impiantare apparecchi speciali, con un lavoro complicato. Quanto allo zinco, si ricorderà che la cassa trovata alla punta del Relitto era foderata con un rivestimento di questo metallo, che non poteva essere meglio utilizzato. Cyrus Smith, dopo mature riflessioni, risolse, dunque, di fabbricare una pila semplicissima, somigliante a quella che Becquerel ideò nel 1820 e nella quale è adoperato unicamente lo zinco. Quanto alle altre sostanze, acido nitrico e potassa, erano a sua disposizione.
Ecco, dunque, come fu composta questa pila, i cui effetti dovevano essere prodotti dalla reazione reciproca dell’acido e della potassa.
Furono fabbricati barattoli di vetro, che vennero riempiti di acido nitrico. L’ingegnere li tappò con un turacciolo attraversato da un tubo di vetro chiuso alla sua estremità inferiore (e destinato a immergersi nell’acido) per mezzo di un tampone d’argilla, trattenuto da un pezzo di tela. Dall’estremità superiore di questo tubo, egli versò allora nel medesimo una soluzione di potassa, precedentemente ottenuta mediante l’incenerimento di diverse piante, e in questo modo l’acido e la potassa poterono reagire l’uno sull’altra attraverso l’argilla.
Cyrus Smith prese poi le due lamine di zinco e ne immerse una nell’acido nitrico, l’altra nella soluzione di potassa. Presto si produsse una corrente, che passò dalla lamina del barattolo a quella del tubo; le due lamine erano state unite con un filo metallico, per cui la lamina del tubo divenne il polo positivo e quella della fialetta il polo negativo dell’apparecchio. Ogni barattolo produceva, dunque, altrettante correnti, che, riunite, sarebbero bastate a provocare tutti i fenomeni della telegrafia elettrica.
Tale fu l’ingegnoso e semplicissimo apparecchio che Cyrus Smith costruì e che gli avrebbe presto consentito di stabilire una comunicazione telegrafica fra GraniteHouse e il recinto.
Il 6 febbraio fu iniziato l’impianto dei pali, muniti di isolatori di vetro, e destinati a sostenere il filo lungo la strada del recinto. Pochi giorni dopo il filo era steso, pronto a condurre, con una velocità di centomila chilometri al secondo, la corrente elettrica, che la terra avrebbe poi ricondotto al suo punto di partenza.
Erano state fabbricate due pile, una per GraniteHouse, l’altra per il recinto, poiché se il recinto doveva comunicare con GraniteHouse, poteva anche essere utile che GraniteHouse comunicasse con il recinto.
Quanto al ricevitore e al trasmettitore, furono semplicissimi a farsi. Alle due stazioni il filo s’avvolgeva su di un’elettrocalamita, cioè su di un pezzo di ferro dolce, circondato da un filo. Se la comunicazione fra i due poli era stabilita, la corrente, partendo dal polo positivo, attraversava il filo, passava nell’elettrocalamita, che si magnetizzava temporaneamente, e ritornava via terra al polo negativo. Se la corrente era interrotta, l’elettrocalamita si smagnetizzava subito. Bastava dunque collocare una lamina di ferro dolce davanti all’elettrocalamita, perché la lamina stessa ricadesse quando la corrente era interrotta. Ottenuto così questo movimento della lastra di ferro, Cyrus Smith poté assai facilmente collegarvi un ago disposto su un quadrante, il quale portava in evidenza le lettere dell’alfabeto, e in tal modo, stabilire la corrispondenza da una stazione all’altra.
L’impianto fu interamente completato il 12 febbraio. Quel giorno Cyrus Smith, lanciando la corrente attraverso il filo, domandò se tutto andava bene al recinto, e alcuni istanti dopo ricevette da Ayrton una risposta soddisfacente.
Pencroff non stava più in sé dalla gioia, e ogni mattina e sera lanciava un telegramma al recinto, telegramma che non restava mai senza risposta.
Questo modo di comunicazione presentava due effettivi vantaggi; anzitutto perché permetteva di constatare la presenza di Ayrton al recinto e poi perché non lasciava mai costui in un completo isolamento. Del resto, Cyrus Smith non lasciava mai passare una settimana senza andarlo a trovare e Ayrton pure veniva di tanto in tanto a GraniteHouse.
La bella stagione trascorse così in mezzo ai soliti lavori. Le ricchezze della colonia, specialmente in ortaggi e cereali, crescevano di giorno in giorno, e le pianticelle portate dall’isola di Tabor avevano magnificamente attecchito. L’altipiano di Bellavista offriva un aspetto molto rassicurante. Il quarto raccolto di grano era stato magnifico, e naturalmente nessuno pensò di contare se i quattrocento miliardi di chicchi venivan tutti fuori alla mietitura. Tuttavia, Pencroff aveva avuto l’idea di farlo, ma quando Cyrus Smith gli ebbe detto che, pur contando trecento chicchi al minuto, cioè novemila all’ora, gli sarebbero occorsi circa cinquemilacinquecento anni per compiere la sua operazione, il bravo marinaio credette di dovervi rinunziare.
Il tempo era magnifico e la temperatura caldissima durante la giornata; ma, alla sera, le brezze provenienti dal largo temperavano gli ardori dell’atmosfera e procuravano notti fresche agli abitanti di GraniteHouse. Nondimeno, vi furono alcuni temporali, che, se non erano di lunga durata, colpivano però l’isola con straordinaria violenza. Per alcune ore i lampi non cessavano di incendiare il cielo e i brontolii del tuono proseguivano ininterrottamente.
In quel periodo la colonia era estremamente prospera. Nel pollaio abbondavano gli ospiti e i coloni si nutrivano a esuberanza, poiché era urgente ridurre la popolazione a un numero più moderato. I porci avevano già prolificato e si capisce che le cure da dedicare a questi animali assorbivano gran parte del tempo di Nab e di Pencroff. Gli onagri, che anch’essi avevano dato due graziose bestiole, erano molto spesso montati da Gedeon Spilett e da Harbert, divenuto un eccellente cavaliere sotto la direzione del giornalista, e venivano pure attaccati al carretto per trasportare a GraniteHouse la legna e il carbon fossile o i diversi prodotti minerali che l’ingegnere adoperava.
Parecchie ricognizioni furono effettuate in quel periodo fino nel più fitto delle foreste del Far West. Gli esploratori potevano arrischiarvisi senza temere gli eccessi di temperatura, giacché i raggi del sole penetravano appena tra le folte fronde intrecciate sul loro capo. Visitarono così tutta la riva sinistra del Mercy, che costeggiava la strada che andava dal recinto alla foce del Creek della Cascata.
Ma durante queste escursioni, i coloni ebbero cura di essere bene armati, poiché incontravano frequentemente certi cinghiali, estremamente selvatici e ferocissimi, contro i quali bisognava lottare seriamente.
Durante quella stagione venne pure mossa una guerra terribile ai giaguari. Gedeon Spilett aveva votato loro un odio tutto speciale e il suo allievo Harbert lo assecondava bene. Armati com’erano, non temevano per nulla l’incontro di una di quelle belve. Il coraggio di Harbert era magnifico e il sangue freddo del giornalista stupefacente. Così, una ventina di magnifiche pelli ornavano già il salone di GraniteHouse e se la fortunata caccia continuava, la razza dei giaguari sarebbe stata in breve estinta sull’isola, e i cacciatori perseguivano appunto quello scopo.
Anche l’ingegnere prese parte a diverse ricognizioni nei paraggi sconosciuti dell’isola, ch’egli osservava con minuziosa attenzione. Ben altre tracce che quelle degli animali egli cercava nei punti più folti di quei vasti boschi, ma mai
nulla di sospetto apparve ai suoi occhi. Né Top né Jup, che l’accompagnavano, lasciavano supporre, con il loro atteggiamento, che ci fosse qualcosa di straordinario; eppure più d’una volta il cane aveva ancora abbaiato alla bocca del pozzo, che l’ingegnere aveva invano esplorato.
In quel tempo Gedeon Spilett, aiutato da Harbert, prese parecchie vedute delle parti più pittoresche dell’isola, servendosi dell’apparecchio fotografico ch’era stato trovato nella cassa e che fino allora non avevano mai adoperato.
Questo apparecchio, munito d’un potente obiettivo, era completissimo. Nulla vi mancava; v’erano tutte le sostanze necessarie alla riproduzione fotografica: collodio per preparare la lastra di vetro, nitrato d’argento per renderla sensibile, iposolfato di soda per fissare l’immagine ottenuta, cloruro d’ammonio per bagnare la carta destinata a dare la prova positiva, acetato di soda e cloruro d’oro per impregnare quest’ultima. C’erano persino le carte già clorurate, e prima di posarle sulle prove negative bastava immergerle per alcuni minuti nel nitrato d’argento allungato con acqua.
Il giornalista e il suo aiutante divennero in breve abili operatori e ottennero vedute di paesaggi assai belle, come l’insieme dell’isola preso dall’altipiano di Bellavista, con il monte Franklin all’orizzonte, la foce del Mercy, così pittorescamente incorniciata nelle sue alte rocce, la radura e il recinto addossato ai primi gioghi della montagna, tutta la curiosa conformazione del Capo Artiglio, della Punta del Relitto, ecc.
I fotografi non dimenticarono di fare il ritratto a tutti gli abitanti dell’isola, nessuno eccettuato.
«L’isola si sta popolando» diceva Pencroff.
E il marinaio era felicissimo di vedere la sua immagine, fedelmente riprodotta, ornare i muri di GraniteHouse e si fermava volentieri davanti a quell’esposizione, come avrebbe fatto davanti alle più ricche vetrine di Broadway.
Ma, bisogna dirlo, il ritratto meglio riuscito fu incontestabilmente quello di mastro Jup. Mastro Jup aveva posato con una serietà impossibile a descriversi e la sua immagine era parlante!
«Si direbbe che sta per fare una smorfia!» esclamò Pencroff.
Se mastro Jup non fosse stato contento, sarebbe proprio stato il caso di dire che era molto difficile da accontentare; ma era soddisfatto, e contemplava la sua immagine con un’aria sentimentale, che rivelava una leggera dose di fatuità.
I grandi calori estivi finirono con il mese di marzo. Il tempo fu talvolta piovoso, ma l’atmosfera era ancora calda. Il mese di marzo, corrispondente al settembre delle latitudini boreali, non fu così bello come si sarebbe potuto sperare. Forse annunciava un inverno precoce e rigoroso.
I coloni, una mattina, il 21, furono persino sul punto di credere che la prima neve avesse fatto la sua apparizione. Infatti, Harbert, essendosi affacciato di buon’ora a una finestra di GraniteHouse, gridò:
«To’! L’isolotto è coperto di neve!»
«Della neve in questa stagione!» disse il giornalista, che aveva raggiunto il ragazzo.
Gli altri compagni si avvicinarono subito e non poterono costatare che una cosa, cioè che non solo l’isolotto, ma tutto il greto ai piedi di GraniteHouse era coperto di uno strato bianco, uniformemente sparso al suolo.
«È proprio neve!» disse Pencroff.
«O le assomiglia molto!» osservò Nab.
«Ma il termometro segna cinquantotto gradi (14 gradi centigradi sopra zero)!» fece notare Gedeon Spilett.
Cyrus Smith guardava la distesa bianca senza pronunciarsi, poiché non sapeva davvero come spiegare il fenomeno, in quella stagione dell’anno e con quella temperatura.
«Per mille diavoli!» esclamò Pencroff «le nostre piantagioni si geleranno!»
E il marinaio si disponeva a scendere, quando fu preceduto dall’agile Jup, che si lasciò scivolare fino a terra.
Ma la scimmia non aveva ancora toccato terra, che l’enorme strato di neve si sollevava e si sparpagliava nell’aria in così infinita quantità di fiocchi, che la luce del sole ne fu velata per alcuni minuti.
«Sono uccelli!» gridò Harbert.
Erano, infatti, sciami d’uccelli marini, dalle piume d’un candore abbagliante. S’erano abbattuti a centinaia di migliaia sull’isolotto e sulla costa e sparvero in lontananza, lasciando i coloni sbalorditi, come avessero assistito a un mutamento a vista, che avesse fatto succedere l’estate all’inverno in uno scenario magico. Disgraziatamente, il cambiamento era stato così subitaneo, che né il cronista, né il giovanetto poterono abbattere uno solo di quegli uccelli, di cui non riuscirono quindi a precisare la specie.
Pochi giorni dopo, il 26 marzo, si compivano due anni da che i naufraghi dell’aria erano stati gettati sull’isola di Lincoln!