CAPITOLO XVIII LE RIFLESSIONI DI CIASCUNO «RIPRESA DEI LAVORI DI COSTRUZIONE» IL PRIMO GENNAIO 1869 «UN PENNACCHIO IN CIMA AL VULCANO» PRIMI SINTOMI DI UN’ERUZIONE «AYRTON E CYRUS SMITH AL RECINTO» ESPLORAZIONE NELLA CRIPTA DAKKAR «QUEL CHE IL CAPITANO NEMO AVEVA DETTO ALL’INGEGNERE»

ALLO SPUNTAR del giorno, i coloni avevano di nuovo raggiunto, in silenzio, l’ingresso della caverna, cui diedero il nome di «cripta Dakkar», in memoria del capitano Nemo. La marea era bassa ed essi poterono agevolmente passare sotto l’arcata, la cui base era battuta dal flusso.

La lancia in ferro fu lasciata in questo luogo sicuro, opportunamente al riparo, e per maggior precauzione Pencroff, Nab e Ayrton la alarono sul piccolo greto, confinante con uno dei lati della grotta, in un luogo ove non correva nessun pericolo.

L’uragano era cessato con la notte. Gli ultimi rombi del tuono s’allontanavano spegnendosi verso ovest. Non pioveva più, ma il cielo era ancora carico di nubi. Insomma, questo mese d’ottobre, inizio della primavera australe, non si presentava sotto i migliori auspici e il vento aveva tendenza a saltare da un quadrante all’altro, e non permetteva di fare assegnamento su di un tempo stabile.

Cyrus Smith e i compagni, lasciando la cripta Dakkar, avevano ripreso la via del recinto. Cammin facendo, Nab e Harbert ebbero cura di staccare il filo teso dal capitano tra il recinto e la cripta, perché avrebbe potuto essere utilizzato.

Camminando, i coloni parlavano poco. I diversi avvenimenti della notte dal 15 al 16 ottobre li avevano vivamente impressionati. Lo sconosciuto che li aveva sino allora così efficacemente protetti, l’uomo che la loro immaginazione elevava a genio, il capitano Nemo, non era più. Il suo Nautilus e lui erano sepolti in fondo a un abisso. Sembrava a ciascuno che il loro isolamento fosse maggiore di prima. S’erano, per così dire, abituati a contare su quel potente intervento, che ormai mancava loro per sempre. Gedeon Spilett e lo stesso Cyrus Smith non potevano sottrarsi a quell’impressione. Perciò mentre andavano lungo la strada del recinto, tutti serbavano il più profondo silenzio.

Verso le nove della mattina, i coloni erano rientrati a GraniteHouse.

Era stato convenuto che la costruzione della nave sarebbe stata attivamente sollecitata, e Cyrus Smith le dedicò più che mai il suo tempo e le sue cure. Non si poteva sapere quel che riservasse l’avvenire. Era una garanzia per i coloni avere a loro disposizione un solido bastimento, capace di tenere il mare anche con il cattivo tempo e abbastanza grande per tentare, all’occorrenza, una traversata di qualche importanza. Se, terminato il bastimento, i coloni non si fossero decisi ancora a lasciare l’isola di Lincoln, per raggiungere o un arcipelago polinesiano del Pacifico, o le coste della Nuova Zelanda, si sarebbero per lo meno recati al più presto all’isola di Tabor, allo scopo di depositarvi lo scritto relativo ad Ayrton. Era una precauzione indispensabile da prendere, per il caso in cui lo yacht scozzese fosse ricomparso in quei mari.

I lavori furono, dunque, ripresi. Cyrus Smith, Pencroff e Ayrton, aiutati da Nab, da Gedeon Spilett e da Harbert, salvo quando qualche altra faccenda urgente li richiamava altrove, lavoravano senza posa nel cantiere. Era necessario che il nuovo bastimento fosse pronto entro cinque mesi, vale a dire per il principio del mese di marzo, se si voleva visitare l’isola di Tabor prima che i venti equinoziali avessero reso quella traversata impossibile. Così i carpentieri non perdettero un momento. D’altronde, non avevano da preoccuparsi per l’attrezzatura, giacché quella del brigantino era stata salvata per intero. Bisognava dunque, innanzi tutto, portare a termine lo scafò della nave.

La fine dell’anno 1868 passò in questi importanti lavori, escludendone quasi completamente ogni altro. In capo a due mesi e mezzo, le coste erano state sistemate e i primi corsi di fasciame inchiodati. Già si poteva vedere che i piani disegnati da Cyrus Smith erano eccellenti e che la nave si sarebbe comportata bene in mare. Pencroff si applicava al lavoro anima e corpo e non si faceva riguardo di brontolare, quando l’uno o l’altro abbandonava l’ascia del carpentiere per il fucile del cacciatore. Tuttavia, bisognava pur mantenere fornite le riserve di GraniteHouse, in vista del prossimo inverno. Ma il bravo marinaio non era contento, quando gli operai mancavano al cantiere. In quelle occasioni, brontolando, egli faceva, per collera, il lavoro di sei uomini.

Tutta quella stagione estiva fu cattiva. Durante alcuni giorni il calore fu estenuante e l’atmosfera, satura di elettricità, si scaricava poi mediante violenti temporali, che turbavano assai gli strati atmosferici. Era raro che non si udissero dei lontani rombi di tuono. Era come un brontolio sordo, ma permanente, simile a quello che si fa udire nelle regioni equatoriali del globo.

Il 1° gennaio 1869 si distinse per una burrasca di estrema violenza e il fulmine colpì più volte l’isola. Grossi alberi furono abbattuti, fra gli altri uno di quegli enormi bagolari, che ombreggiavano il pollaio all’estremità sud del lago. Quel fatto aveva forse una qualche relazione con i fenomeni che si svolgevano nelle viscere della terra? Si stabiliva forse una specie di connessione fra le perturbazioni dell’aria e quelle delle parti interne del globo? Cyrus Smith fu indotto a crederlo, poiché lo sviluppo di quei temporali fu contraddistinto da una recrudescenza dei sintomi vulcanici.

Il 3 gennaio Harbert, essendo fin dall’alba salito all’altipiano di Bellavista per sellare uno degli onagri, scorse un enorme pennacchio, che si sprigionava dalla cima del vulcano.

Harbert preavverti tosto i coloni, che andarono subito a osservare la vetta del monte Franklin.

«Eh!» esclamò Pencroff «non sono vapori, stavolta! Mi pare che il gigante non si contenti più di respirare, ma che fumi!»

L’immagine usata dal marinaio rappresentava giustamente la modificazione operatasi alla bocca del vulcano. Già da tre mesi il cratere emetteva dei vapori più o meno intensi, ma che provenivano ancora da un’ebollizione interna delle materie minerali. Stavolta, ai vapori era seguito un fumo denso, che s’elevava sotto forma di colonna grigiastra, larga più di trecento piedi alla base e aprentesi come un immenso fungo a un’altezza da sette a ottocento piedi sopra la cima del monte.

«Il fuoco è nel camino» disse Gedeon Spilett.

«E noi non potremo spegnerlo!» rispose Harbert.

«Si dovrebbero pulire anche i vulcani» fece osservare Nab, che sembrava parlare con la maggior serietà del mondo.

«Bell’idea, Nab!» esclamò Pencroff. «T’incaricheresti tu di quella pulitura?»

E Pencroff proruppe in una larga risata.

Cyrus Smith osservava attentamente il fumo proiettato dal monte Franklin e tendeva anche l’orecchio, come se avesse voluto sorprendere qualche lontano brontolio. Poi, tornando verso i compagni, da cui s’era allontanato un poco:

«Infatti, amici, si è prodotta un’importante modificazione, non dobbiamo nascondercelo. Le materie vulcaniche non sono più solamente allo stato di ebollizione; hanno preso fuoco e noi siamo certamente minacciati da una prossima eruzione!»

«Ebbene, signor Smith, si vedrà l’eruzione,» esclamò Pencroff «e la si applaudirà, se sarà ben riuscita! Penso che non ci sia di che preoccuparci!»

«No, Pencroff,» rispose Cyrus Smith «perché l’antica strada delle lave è sempre aperta, e il cratere, grazie alla sua disposizione, le ha finora sempre riversate verso il nord. Eppure…»

«Eppure, poiché da un’eruzione non c’è da trarre alcun vantaggio, sarebbe meglio che non si verificasse» disse il giornalista.

«Chi sa?» rispose il marinaio. «Forse in questo vulcano c’è qualche utile e preziosa materia, ch’esso vomiterà compiacentemente e di cui faremo buon uso!»

Cyrus Smith crollò il capo, da uomo che non s’aspettava niente di buono dal fenomeno, il cui svolgimento si presentava così improvviso. Egli non considerava leggermente, come Pencroff, le conseguenze di un’eruzione. Se le lave, dato l’orientamento del cratere, non minacciavano direttamente le parti boschive e coltivate dell’isola, altre complicazioni potevano presentarsi. Infatti, non è raro che le eruzioni siano accompagnate da terremoti, e un’isola della natura di quella di Lincoln, formata di materie così diverse — basalti da una parte, granito dall’altra, lave al nord, suolo friabile a mezzogiorno, materie che, di conseguenza, non potevano essere solidamente unite fra loro — avrebbe corso il rischio di disgregarsi. Se, quindi, l’effusione delle sostanze vulcaniche non costituiva un pericolo molto serio, ogni movimento della struttura terrestre, che avesse scosso l’isola, poteva produrre conseguenze molto gravi.

«Mi sembra,» disse Ayrton, ch’era disteso a terra in modo da posare l’orecchio sul suolo «mi sembra di udire sordi rumori, come farebbe un carro carico di sbarre di ferro.»

I coloni ascoltarono con estrema attenzione e poterono constatare che Ayrton non s’ingannava. Ai rumori cui aveva accennato si mescolavano talvolta dei sordi muggiti sotterranei, che formavano una sorta di «crescendo» e poi si spegnevano a poco a poco, come fosse passato del vento nelle profondità del globo. Ma non si udiva ancora nessuna vera e propria detonazione. Da tutto questo si poteva dunque dedurre che i vapori e il fumo trovavano libero passaggio attraverso il camino centrale e che, essendo la valvola abbastanza larga, nessuno spostamento si sarebbe prodotto, nessuna esplosione sarebbe stata da temere.

«Ah! diamine,» disse allora Pencroff «non ritorniamo al lavoro? Che il monte Franklin fumi, sbraiti, gema, vomiti pure fuoco e fiamme finché gli piacerà; non è questa una ragione per star senza far niente! Andiamo, Ayrton, Nab, Harbert, signor Cyrus, signor Spilett; bisogna che oggi tutti diano mano all’opera. È il momento di sistemare le cinte e una dozzina di braccia non saranno di troppo. Fra meno di due mesi voglio che il nostro nuovo Bonadventure — perché gli conserveremo questo nome, non è vero? — galleggi sulle acque di Porto Pallone! Dunque, non c’è un’ora da perdere!»

Tutti i coloni, di cui Pencroff aveva chiesto l’aiuto, discesero al cantiere e lavorarono alla posa delle cinte, le costole dello scheletro che formano la cintura di un bastimento e uniscono solidamente fra loro spessi corsi di fasciame. Era un’operazione difficile e faticosa, alla quale tutti dovettero partecipare.

I coloni lavorarono, dunque, assiduamente per tutta quella giornata, 3 gennaio, senza preoccuparsi del vulcano, che, d’altra parte, dalla spiaggia davanti a GraniteHouse non era visibile. Ma una volta o due delle grandi ombre, velando il sole, che descriveva il suo arco diurno in un cielo estremamente puro, indicarono che una densa nube di fumo passava fra il suo disco e l’isola. Il vento, soffiando dal largo, portava tutti quei vapori verso l’ovest. Cyrus Smith e Gedeon Spilett notarono benissimo quegli oscuramenti passeggeri e ragionarono più volte dei progressi che evidentemente faceva il fenomeno vulcanico, ma il lavoro non fu interrotto. Era, d’altronde, del più alto interesse, sotto tutti i punti di vista, che il bastimento fosse ultimato nel minor tempo possibile. In presenza delle eventualità, che potevano verificarsi, la sicurezza dei coloni sarebbe stata, a nave terminata, molto meglio garantita. Chi poteva sapere se quella nave non avrebbe rappresentato un giorno il loro unico asilo?

La sera, dopo cena, Cyrus Smith, Gedeon Spilett e Harbert salirono sull’altipiano di Bellavista. Era già notte fatta e l’oscurità doveva permettere di constatare se ai vapori e al fumo accumulati alla bocca del cratere si mescolavano fiamme o materie incandescenti, proiettate dal vulcano.

«Il cratere è in fiamme!» gridò Harbert, che, più svelto dei suoi compagni, era arrivato per primo sull’altipiano.

Il monte Franklin, distante circa sei miglia, appariva allora come una gigantesca torcia, in cima alla quale si contorcevano delle fiamme fuligginose. Fumo, scorie e ceneri erano forse commiste a quelle fiamme, cosicché il loro splendore, molto attenuato, non spiccava vivo nelle tenebre della notte. Ma una specie di chiarore fulvo si diffondeva sull’isola e mostrava confusamente la massa boscosa dei primi piani. Immensi vortici offuscavano gli strati superiori dell’atmosfera, attraverso i quali scintillavano alcune stelle. «I progressi sono rapidi!» disse l’ingegnere.

«Non c’è da meravigliarsi» rispose il giornalista. «Il risveglio del vulcano data già da un certo tempo. Vi ricordate, Cyrus, che i primi vapori sono apparsi quando abbiamo esplorato i contrafforti della montagna, per scoprire il nascondiglio del capitano Nemo? Era, se non m’inganno, verso il 15 ottobre.»

«Sì,» rispose Harbert «e sono già passati due mesi e mezzo da allora!»

«Il fuoco sotterraneo ha dunque covato per dieci settimane,» riprese Gedeon Spilett «e non c’è proprio da stupirsi che si sviluppi adesso con tanta violenza!»

«Non sentite delle vibrazioni del suolo?» domandò Cyrus Smith.

«Infatti,» rispose Gedeon Spilett «ma da questo a un terremoto…»

«Non dico che siamo minacciati da un terremoto,» rispose Cyrus Smith «che Dio ce ne preservi. No. Queste vibrazioni sono dovute all’effervescenza del fuoco centrale. La crosta terrestre non è altro che la parete d’una caldaia, e come sapete la parete d’una caldaia, sotto la pressione dei gas, vibra come una piastra sonora. Questo è appunto l’effetto che ora si produce.»

«Che magnifici fasci di fuoco!» esclamò Harbert.

In quel momento scaturiva dal cratere una specie di fuoco d’artificio, di cui i vapori non avevano potuto attenuare lo splendore. Migliaia di frammenti luminosi e di punti infocati si proiettavano in opposte direzioni. Taluni, sfondando la cupola di fumo, la squarciavano con rapidissimo getto e si lasciavano dietro una vera polvere incandescente. Quel fulgore di luci fu accompagnato da detonazioni successive, che producevano lo stesso fragore lacerante di una batteria di mitraglie.

Cyrus Smith, il giornalista e il giovanetto, dopo aver passato un’ora sull’altipiano di Bellavista, ridiscesero sulla spiaggia e ritornarono a GraniteHouse. L’ingegnere era pensieroso, preoccupato anzi, tanto che Gedeon Spilett credette di dovergli domandare se presentiva qualche pericolo prossimo, di cui l’eruzione potesse essere la causa diretta o indiretta.

«Si e no» rispose Cyrus Smith.

«Tuttavia,» riprese il giornalista «la più grande disgrazia che potrebbe capitarci sarebbe un terremoto, che sconvolgerebbe l’isola, vero? Ora, non credo che questo sia da temersi, perché i vapori e le lave hanno trovato un passaggio libero per riversarsi all’esterno.»

«Perciò,» rispose Cyrus Smith «non temo tanto un terremoto, nel senso che ordinariamente si dà alle convulsioni del suolo, provocate dall’espansione di vapori sotterranei; ma penso che altre cause possano produrre grandi disastri.»

«Quali, caro Cyrus?»

«Non so bene… bisogna che veda… che visiti la montagna… Fra pochi»

giorni saprò qualche cosa di preciso.

Gedeon Spilett non insistette e poco dopo, malgrado le detonazioni del vulcano che aumentavano d’intensità e che gli echi dell’isola ripetevano, gli abitanti di GraniteHouse dormivano d’un sonno profondo.

Tre giorni passarono, il 4, il 5 e il 6 gennaio. Il lavoro ferveva sempre attorno al bastimento e, senza spiegarsi altrimenti, l’ingegnere intensificava l’opera stessa quanto più gli era possibile. Il monte Franklin era allora incappucciato da un’oscura nube di sinistro aspetto e con le fiamme eruttava anche pietre incandescenti, alcune delle quali ricadevano nel cratere stesso, la qual cosa faceva dire a Pencroff, che non voleva considerare il fenomeno se non dal lato divertente:

«To’! Il gigante gioca a bilboquet! Il gigante fa giochi di prestigio! E, infatti, le materie vomitate ricadevano nel baratro e le lave, spinte verso»

l’alto dalla pressione interna, sembrava che non fossero ancora salite fino all’apertura del cratere. Almeno, lo sbocco nordest, ch’era visibile in parte, non versava alcun torrente sul pendio settentrionale del monte.

Però, per quanto urgenti fossero i lavori di costruzione, anche altre faccende esigevano la presenza dei coloni in diversi punti dell’isola. Prima di tutto, bisognava andare al recinto, dove era rinchiuso il gregge di mufloni e di capre, e rinnovare la provvista di foraggio di quegli animali. Fu stabilito allora che Ayrton vi si sarebbe recato il giorno seguente, 7 gennaio, e siccome egli poteva bastare da solo a quell’operazione, cui era abituato, Pencroff e gli altri manifestarono una certa sorpresa quando udirono l’ingegnere dire ad Ayrton:

«Poiché andate domani al recinto, vi accompagnerò.»

«Eh! signor Cyrus!» esclamò il marinaio «i nostri giorni di lavoro sono contati e, se voi pure partite, saranno quattro braccia di meno!»

«Saremo di ritorno l’indomani,» rispose Cyrus Smith «ma ho bisogno d’andare al recinto. Desidero stabilire a che punto si trova l’eruzione.»

«L’eruzione! L’eruzione!.» rispose Pencroff, con aria poco soddisfatta. «Questa eruzione è certamente una cosa importante, eppure non m’inquieta per nulla!»

Checché ne dicesse il marinaio, l’esplorazione stabilita dall’ingegnere venne fissata per l’indomani. Harbert avrebbe desiderato vivamente accompagnare Cyrus Smith, ma non volle contrariare Pencroff assentandosi.

L’indomani, allo spuntar del giorno, Cyrus Smith e Ayrton, montando sul carro tirato da due onagri, correvano a gran trotto sulla via del recinto.

Sul cielo della foresta passavano grosse nuvole, che il cratere del monte Franklin formava incessantemente con le sue materie fuligginose. Quelle nubi, che si movevano pesantemente nell’atmosfera, erano evidentemente composte di sostanze eterogenee. Non al solo fumo del vulcano esse dovevano la loro strana opacità e pesantezza. Scorie allo stato di polvere, pozzolana polverizzata e ceneri grigiastre, finì quanto la più fine fecola, erano sospese fra le loro dense volute. Queste ceneri sono così tenui, che talvolta si videro mantenersi nell’aria per mesi interi. Dopo l’eruzione del 1783, in Islanda, durante più di un anno l’atmosfera fu così carica di polveri vulcaniche da lasciare a malapena passare i raggi del sole.

Ma più spesso queste materie polverizzate s’abbassavano, e così accadde anche in quell’occasione. Cyrus Smith e Ayrton erano appena giunti al recinto, che una specie di neve nerastra, simile a una leggera polvere da sparo, cadde e modificò istantaneamente l’aspetto del suolo. Alberi, prati, tutto fu ricoperto da uno strato di parecchi pollici di spessore. Fortunatamente, però, tirava vento da nordest, e la maggior parte della nuvola andò a dissolversi sul mare.

«Ecco un fatto singolare, signor Smith» disse Ayrton.

«Ecco un fatto grave» rispose l’ingegnere. «Questa pozzolana, queste pietre pomici polverizzate, in una parola tutta questa polvere minerale, dimostra quanto profondo è lo sconvolgimento negli strati inferiori del vulcano.»

«Ma non c’è nulla da fare?»

«Nulla. Non c’è che da rendersi conto dei progressi del fenomeno. Voi, dunque, Ayrton, occupatevi delle faccende del recinto. Nel frattempo, io risalirò le sorgenti del Creek Rosso ed esaminerò lo stato del monte alla sua pendice settentrionale. Poi…»

«Poi… signor Smith?»

«Poi faremo una visita alla cripta Dakkar… Voglio vedere… Insomma, ritornerò a prendervi fra due ore.»

Ayrton entrò allora nella corte del recinto e, aspettando il ritorno dell’ingegnere, s’occupò dei mufloni e delle capre, che sembravano provare un certo malessere davanti a quei primi sintomi di un’eruzione.

Intanto, Cyrus Smith, dopo essersi avventurato sulla cresta dei contrafforti orientali, aggirò il Creek Rosso e arrivò nel punto ove lui e i suoi compagni avevano scoperto una sorgente solforosa, al tempo della loro prima esplorazione.

Le cose erano molto cambiate; invece d’una sola colonna di fumo, egli ne contò tredici, che si sprigionavano fuori dalla terra come se fossero state violentemente spinte all’insù da qualche stantuffo. Era evidente che la crosta terrestre subiva, in quel punto del globo, una spaventosa pressione. L’atmosfera era satura di gas solforosi, d’idrogeno, d’acido carbonico, frammisti a vapore acqueo. Cyrus Smith sentiva fremere i tufi vulcanici, di cui la pianura era sparsa e che non erano se non ceneri polverulente, che il tempo aveva solidificato; ma non vide nessuna traccia di lave recenti.

L’ingegnere poté assicurarsi ancora più completamente di ciò, quando ebbe osservato tutto il versante settentrionale del monte Franklin. Vortici di fumo e di fiamme uscivano dal cratere; una gragnuola di scorie cadeva al suolo; ma nessuna fuoruscita di lava si operava attraverso l’apertura del cratere, e ciò provava che il livello delle materie vulcaniche non aveva ancora raggiunto la sommità del camino centrale.

«Preferirei, invece, che fosse il contrario!» si disse Cyrus Smith. «Almeno sarei certo che le lave hanno ripreso il loro corso normale. Chi sa, se non si scaricheranno per qualche nuova bocca? Ma non è questo il pericolo! Il capitano Nemo l’ha giustamente presentito! No! il pericolo non è questo!»

Cyrus Smith avanzò sino all’enorme rialzo, il cui prolungamento circondava lo stretto golfo del Pescecane. Così poté esaminare sufficientemente da quel lato le vecchie striature lasciate dalle lave. Dopo questo attento esame non vi fu più dubbio per lui: l’ultima eruzione risaliva a epoca lontanissima.

Allora ritornò sui suoi passi, prestando orecchio ai boati sotterranei, che si propagavano susseguendosi come un tuono continuo, sul quale emergevano a tratti fragorose detonazioni. Alle nove della mattina era di ritorno al recinto.

Ayrton l’aspettava.

«Gli animali sono rifocillati, signor Smith» disse Ayrton.

«Sta bene, Ayrton.»

«Sembrano inquieti, signor Smith.»

«Sì, l’istinto parla in loro, e l’istinto non inganna.»

«Quando vorrete…»

«Prendete una lanterna e un acciarino, Ayrton,» disse l’ingegnere «e partiamo.»

Ayrton fece quanto gli era stato ordinato. Gli onagri, staccati dal carro, vagavano per il recinto. La porta fu chiusa esternamente, e Cyrus Smith, precedendo Ayrton, prese, verso ovest, lo stretto sentiero che conduceva alla costa.

Ambedue camminavano su di un suolo ovattato dalla polvere caduta dalle nubi. Nessun quadrupede si scorgeva nei boschi. Anche gli uccelli erano fuggiti. A tratti, una leggera brezza sollevava lo strato di cenere e i due coloni, presi in un vortice opaco, non sì. vedevano più. Avevano cura allora di applicarsi un fazzoletto sugli occhi e sulla bocca, giacché correvano rischio d’essere accecati e soffocati.

Cyrus Smith e Ayrton, in quelle condizioni, non potevano camminare rapidamente. Inoltre, l’aria era pesante, come se il suo ossigeno fosse stato in parte bruciato e fosse divenuto inadatto alla respirazione. Ogni cento passi dovevano fermarsi a riprender fiato. Erano già passate le dieci quando l’ingegnere e il suo compagno raggiunsero la cresta dell’enorme cumulo di rocce basaltiche e porfiriche, che formava la costa nordovest dell’isola.

Ayrton e Cyrus Smith cominciarono a discendere quella costa scoscesa, seguendo press’a poco l’accidentato percorso che nella notte della tempesta li aveva condotti alla cripta Dakkar. In pieno giorno, questa discesa fu meno pericolosa e, d’altronde, lo strato di ceneri, ricoprendo le rocce altrimenti troppo levigate, permetteva d’assicurare più solidamente il piede sulle superfici in pendio.

Il rialzo che costeggiava il lido, a un’altezza di quaranta piedi circa, fu in breve raggiunto. Cyrus Smith si ricordava che quel corridoio declinava per un dolce pendio fino al livello del mare. Benché la marea fosse bassa in quel momento, nessun arenile si mostrava e le onde, sporche di polvere vulcanica, andavano a battere direttamente contro il basalto del litorale.

Cyrus Smith e Ayrton ritrovarono senza fatica l’apertura della cripta Dakkar e si fermarono sotto l’ultimo scoglio che formava il ripiano inferiore del rialzo.

«La lancia dev’essere là» disse l’ingegnere.

«C’è, signor Smith» rispose Ayrton, tirando a sé la leggera imbarcazione, ch’era ricoverata sotto la volta dell’arcata.

«Imbarchiamoci, Ayrton.»

I due coloni s’imbarcarono nella lancia. Una leggera ondulazione li spinse ancor più sotto la bassissima volta della cripta; ivi, Ayrton, dopo aver battuto l’acciarino, accese la lanterna. Poi afferrò i due remi; la lanterna fu posta sul tagliamare della lancia, in maniera da proiettare i suoi raggi in avanti e Cyrus Smith prese la barra, governando in mezzo alle tenebre della cripta.

Non c’era più il Nautilus a illuminare con la sua vivida luce l’oscura caverna. Probabilmente, l’irradiazione elettrica, sempre nutrita dalla sua potente sorgente, si propagava ancora in fondo alle acque, ma nessun chiarore usciva, naturalmente, dal baratro ove riposava il capitano Nemo.

La luce della lanterna, benché insufficiente, permise tuttavia all’ingegnere di avanzare, seguendo la parete destra della cripta. Un silenzio sepolcrale regnava sotto quella volta, per lo meno nella sua parte anteriore, giacché ben presto Cyrus Smith udì distintamente i brontolii, che partivano dal seno della montagna.

«È il vulcano» disse.

Poco dopo, un acuto odore rivelò l’esistenza di agenti chimici, e dei vapori solforosi presero alla gola l’ingegnere e il suo compagno.

«Ecco quello che temeva il capitano Nemo» mormorò Cyrus Smith, impallidendo leggermente. «Bisogna, tuttavia, andar sino in fondo.»

«Andiamo!» rispose Ayrton, che si curvò sui remi e spinse la lancia verso il fondo della cripta.

Venticinque minuti dopo aver varcato l’apertura, la lancia arrivava alla parete terminale e si fermava.

Allora Cyrus Smith, salendo sul sedile, esplorò con la lanterna le diverse zone della parete, che separava la cripta dal camino centrale del vulcano. Quale era lo spessore di questa parete? Era di cento piedi o soltanto di dieci? Non era possibile dirlo. Ma i rumori sotterranei erano troppo percettibili, perché fosse molto grossa.

L’ingegnere, dopo avere esplorato la muraglia seguendo una linea orizzontale, fissò la lanterna all’estremità di un remo, e lo fece muovere di nuovo su e giù per la parete basaltica, ma più in alto.

Là, da alcune fessure appena visibili, attraverso i prismi mal connessi, traspirava un fumo acre, che infettava l’atmosfera della caverna. Delle fratture solcavano la muraglia e alcune di esse, più nettamente visibili, s’abbassavano sino a due o tre piedi soltanto dalle acque della cripta.

Cyrus Smith rimase a tutta prima pensieroso. Poi mormorò ancora queste parole:

«Sì! il capitano aveva ragione! Il pericolo è qui, ed è un pericolo terribile! Ayrton non disse nulla, ma, a un segno di Cyrus Smith, riprese i remi e dopo una mezz’ora usciva, assieme all’ingegnere, dalla cripta Dakkar.»

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