L’INDOMANI, 17 aprile, la prima domanda del marinaio fu per Spilett.
«Ebbene, signore,» gli domandò «che cosa diventeremo oggi?»
«Quello che piacerà a Cyrus» rispose il giornalista.
I compagni dell’ingegnere, da fornaciai e vasai ch’erano stati fino allora, stavano per diventare operai metallurgici.
Il giorno precedente, dopo colazione, l’esplorazione era stata spinta fino alla punta del capo Mandibola, distante quasi sette miglia dai Camini. Colà finiva la lunga serie delle dune, e il suolo prendeva un aspetto vulcanico. Non erano più alte muraglie granitiche, come quelle dell’altipiano Bellavista, ma una bizzarra e capricciosa cornice, formata dalle materie minerali eruttate dal vulcano, che cingeva lo stretto golfo compreso tra i due capi. I coloni, arrivati a quella punta, erano poi ritornati sui loro passi, e al cader della notte rientrarono ai Camini, ma non si addormentarono prima che fosse stata definitivamente risolta la questione di sapere se bisognava pensare a lasciare o no l’isola di Lincoln.
Le milleduecento miglia che separavano l’isola dall’arcipelago delle Paumotu costituivano una distanza notevole. Una barca non sarebbe bastata a superarla, soprattutto all’avvicinarsi della cattiva stagione. Pencroff l’aveva formalmente dichiarato. Ora, costruire una semplice imbarcazione era un lavoro difficile, anche possedendo gli utensili necessari. Essendo i coloni sprovvisti di utensili, bisognava cominciare con il fabbricare martelli, scuri, accette, seghe, succhielli, pialle, ecc., il che avrebbe richiesto un certo tempo. Fu dunque deciso che si sarebbe passato l’inverno sull’isola di Lincoln, cercando però una dimora più comoda dei Camini.
Prima d’ogni altra cosa, si trattava di utilizzare il minerale di ferro, di cui l’ingegnere aveva osservato qualche giacimento nella parte nordovest dell’isola, e di trasformare quel minerale sia in ferro, che in acciaio.
Generalmente, il suolo non contiene i metalli allo stato puro. Per la maggior parte, essi si trovano combinati con l’ossigeno o con lo zolfo. I due campioni portati da Cyrus Smith erano appunto, uno di ferro magnetico non carbonato, l’altro di pirite, chiamata anche solfuro di ferro. Bisognava dunque ridurre il primo, cioè l’ossido di ferro, per mezzo del carbone, vale a dire liberarlo dell’ossigeno, per ottenerlo allo stato puro. Questa depurazione si fa sottoponendo il minerale a contatto del carbone a un’alta temperatura, sia con il rapido e facile «metodo catalano», che ha il vantaggio di trasformare direttamente il minerale in ferro con una sola operazione, sia con il metodo degli alti forni, che trasforma dapprima il minerale in ghisa, e poi la ghisa in ferro, togliendo il tre o quattro per cento di carbone che permane nella ghisa.
Ora, di che cosa aveva bisogno Cyrus Smith? Di ferro e non di ghisa: ed egli doveva cercare il più rapido metodo di riduzione. D’altronde, il minerale raccolto era di per se stesso molto puro e molto ricco. Ora quel minerale ossidato che si trova in masse confuse di un grigio scuro, dà una polvere nera, si cristallizza in ottaedri regolari, fornisce le calamite naturali e in Europa serve a fabbricare quei ferri di prima qualità, di cui la Svezia e la Norvegia sono così abbondantemente provviste. Non lontano dal giacimento del minerale accennato, si trovavano i giacimenti di carbon fossile, che i coloni avevano già messi a profitto. Ne conseguiva una grande facilità per la lavorazione del minerale, poiché gli elementi della fabbricazione si trovavano vicini. Questo è anzi un fattore della prodigiosa ricchezza degli sfruttamenti minerari del Regno Unito, dove il carbon fossile serve a fabbricare il metallo estratto contemporaneamente dallo stesso suolo.
«Allora, signor Cyrus,» disse Pencroff «ci prepariamo a lavorare il minerale di ferro?»
«Sì, amico mio» rispose l’ingegnere «e a tale scopo, che credo non vi dispiacerà, cominceremo con il dare la caccia alle foche sull’isolotto.»
«La caccia alle foche!» esclamò il marinaio, volgendosi verso Gedeon Spilett. «Occorre, dunque, la foca per fabbricare il ferro?»
«Se lo dice Cyrus!» rispose il cronista.
Ma l’ingegnere aveva già abbandonato i Camini, e Pencroff si preparò alla caccia delle foche, senza aver ottenuto altre spiegazioni.
Poco dopo Cyrus Smith, Harbert, Gedeon Spilett, Nab e il marinaio erano riuniti sul greto, in un punto ove il canale lasciava una specie di passaggio guadabile a bassa marea. La marea era al minimo del riflusso e i cacciatori poterono attraversare il canale senza bagnarsi oltre il ginocchio. Cyrus Smith metteva per la prima volta il piede sull’isolotto: per i suoi compagni invece era la seconda volta, poiché il pallone li aveva a tutta prima gettati là.
Quando misero piede a terra, alcune centinaia di pinguini li guardarono con occhio imbambolato. I coloni, armati di bastoni, avrebbero potuto ucciderli facilmente, ma non pensarono affatto di abbandonarsi a un massacro doppiamente inutile, tanto più che interessava loro non spaventare gli anfibi, che se ne stavano sdraiati sulla sabbia, a breve distanza. Rispettarono pure alcuni innocentissimi apterigidi, le cui ali, ridotte allo stato di moncherini, si appiattivano in forma di pinne, ornate di piume d’apparenza squamosa.
I coloni s’avanzarono, dunque, prudentemente verso la punta nord, camminando sul suolo crivellato di piccole pozze pantanose, che formavano altrettanti nidi d’uccelli acquatici. Verso l’estremità dell’isolotto si scorgevano grossi punti neri natanti a fior d’acqua. Si sarebbero detti calotte di scogli mobili.
Erano gli anfibi che dovevano venir catturati. Bisognava lasciarli prender terra, giacché, con il bacino stretto, il pelo corto e fitto, la conformazione fusiforme che hanno, le foche, eccellenti nuotatrici, sono difficili da prendersi in mare, mentre sul suolo i piedi corti e palmati non permettono loro che un movimento di reptazione poco rapido.
Pencroff conosceva le abitudini di questi anfibi, e consigliò di attendere che fossero distesi sulla sabbia, ai raggi del sole, che non avrebbe tardato a farli cadere in un profondo sonno. Si sarebbe manovrato allora, in modo da tagliar loro la ritirata e da colpirli sul muso.
I cacciatori si nascosero, dunque, dietro le rocce del lido, e aspettarono in silenzio.
Trascorse un’ora prima che le foche venissero a ruzzare sulla sabbia. Erano una mezza dozzina. Pencroff e Harbert si separarono dagli altri, allo scopo di aggirare la punta dell’isolotto, in modo da prenderle a tergo e da impedir loro la ritirata. Nel frattempo, Cyrus Smith, Gedeon Spilett e Nab, strisciando lungo le rocce, si portavano furtivamente verso il futuro teatro del combattimento.
Improvvisamente, il marinaio si mostrò in tutta l’altezza della propria statura. Gettò un grido. L’ingegnere e gli altri due compagni si gettarono precipitosamente fra il mare e le foche. Due di esse, vigorosamente colpite, rimasero morte sulla sabbia, ma le altre poterono riguadagnare il mare e prendere il largo.
«Ecco le foche richieste, signor Cyrus!» disse il marinaio, avanzandosi verso l’ingegnere.
«Bene!» rispose Cyrus Smith. «Ne faremo dei mantici da fucina!»
«Mantici da fucina?» esclamò Pencroff. «Ebbene, ecco delle foche fortunate!»
Infatti, l’ingegnere si proponeva di fabbricare, con la pelle di quegli anfibi, una macchina soffiante, necessaria per il trattamento del minerale. Gli animali erano di corporatura media, giacché la loro lunghezza non oltrepassava i sei piedi, e, per la forma della testa, rassomigliavano a cani.
Siccome era inutile caricarsi del non indifferente peso delle due bestie, Nab e Pencroff risolsero di scuoiarle sul posto, mentre Cyrus Smith e il giornalista avrebbero finito di esplorare l’isolotto.
Il marinaio e il negro se la cavarono abilmente con il loro lavoro, e tre ore dopo Cyrus Smith aveva a sua disposizione due pelli di foca, che contava di utilizzare così come si trovavano senza sottoporle ad alcuna concia.
I coloni dovettero aspettare che il mare decrescesse, dopo di che, attraversando il canale, ritornarono ai Camini.
Non fu lavoro da poco stendere quelle pelli su telai di legno, destinati a mantenerle ben tese, e cucirle per mezzo di fibre, in modo da potervi immagazzinare l’aria senza lasciare troppe fughe. Bisognò ricominciare da capo parecchie volte. Cyrus Smith non aveva a sua disposizione che le due lame d’acciaio fabbricate con il collare di Top: ciò nonostante, egli fu si accorto e i suoi compagni lo aiutarono con tanta diligenza, che tre giorni dopo gli attrezzi della piccola colonia s’erano accresciuti di un mantice, destinato a soffiare l’aria nel minerale grezzo, quand’esso sarebbe stato trattato con il calore, condizione questa indispensabile per la riuscita dell’operazione.
La mattina del 20 aprile, ebbe inizio «il periodo metallurgico», così come lo chiamò il giornalista nei suoi appunti. Com’è noto, l’ingegnere era deciso a operare sul luogo stesso dove si trovavano i giacimenti di carbon fossile e di minerale grezzo. Ora, stando alle sue osservazioni, quei giacimenti erano situati ai piedi dei contrafforti nordest del monte Franklin, cioè a una distanza di sei miglia. Non si poteva, dunque, pensare di ritornare ogni giorno ai Camini, e fu convenuto che la piccola colonia si sarebbe accampata sotto una capanna di rami, in modo che l’importante operazione potesse essere sorvegliata giorno e notte.
Stabilito questo progetto, i coloni partirono sin dal mattino. Nab e Pencroff trascinavano su di un graticcio il mantice, e una certa quantità di provviste vegetali e animali, che sarebbero poi anche state rinnovate per via.
La strada seguita fu quella dei boschi dello Jacamar, che vennero attraversati obliquamente da sudest a nordovest nella parte più folta. Fu necessario tracciare un sentiero, che avrebbe poi costituito la via di comunicazione più diretta fra l’altipiano di Bellavista e il monte Franklin. Gli alberi, appartenenti alle specie già nominate, erano magnifici. Harbert ne segnalò, fra gli altri, dei nuovi: erano dracene, che Pencroff trattò da «porri presuntuosi», giacché, malgrado la loro altezza, erano della medesima famiglia delle liliacee, come la cipolla, le cipolline, lo scalogno e gli asparagi. Queste piante potevano fornire delle radici legnose, le quali, cotte, sono eccellenti e che, sottoposte a una certa fermentazione, danno un gradevolissimo liquore. Ne fu fatta provvista.
La traversata del bosco durò a lungo. Richiese tutta la giornata, ma permise d’osservare la fauna e la flora. Top, più particolarmente incaricato della fauna, correva attraverso le erbe e le sterpaglie, mettendo in fuga indistintamente ogni sorta di selvaggina. Harbert e Gedeon Spilett uccisero a frecciate due canguri, e inoltre un animale che somigliava molto a un riccio e a un formichiere: al primo, perché si arrotolava come una palla ed era irto di aculei; al secondo, perché aveva unghie particolarmente adatte a scavare, muso lungo e sottile terminante a becco d’uccello e una lingua estensibile, munita di piccole spine che gli servivano a trattenere gli insetti.
«E quando sarà in pentola,» fece naturalmente osservare Pencroff, «a che cosa assomiglierà?»
«A un eccellente pezzo di manzo» rispose Harbert.
«Non gli chiediamo di più» replicò il marinaio.
Durante quell’escursione scorsero alcuni cinghiali selvatici, che non cercarono affatto di attaccare la piccola comitiva e non pareva, quindi, che si dovessero incontrare belve pericolose, quando, in una folta macchia, Spilett credette di vedere, a pochi passi da lui, fra i primi rami di un albero, un animale ch’egli prese per un orso, e si mise tranquillamente a disegnarlo. Fortunatamente per Gedeon Spilett, la bestia non apparteneva alla temibile famiglia dei plantigradi. Non era che un kula, più noto sotto il nome di «poltrone», che aveva la corporatura di un grosso cane, il pelo irto e di colore sporco, le zampe armate di robusti artigli, che gli permettevano di arrampicarsi sugli alberi e di nutrirsi di foglie. Verificata l’identità dell’animale, che non fu disturbato nelle sue occupazioni, Gedeon Spilett cancellò la parola «orso» scritta sotto lo schizzo, mise «kula» al posto di quella, e ripresero il cammino.
Alle cinque di sera, Cyrus Smith dava il segnale di alt. Erano giunti fuori della foresta, laddove nascevano i possenti contrafforti che puntellavano verso est il monte Franklin. Ad alcune centinaia di passi scorreva il Creek Rosso, e quindi l’acqua potabile non era lontana.
Venne subito organizzato l’accampamento. In meno di un’ora, al margine della foresta, fra gli alberi, una capanna di rami misti a liane e impastati con argilla offrì un rifugio sufficiente. Le ricerche geologiche furono rimandate all’indomani. La cena fu preparata, un buon fuoco fiammeggiò davanti alla capanna, lo spiedo girò, e alle otto, mentre uno dei coloni vegliava per mantenere acceso il fuoco in caso che qualche bestia pericolosa si fosse aggirata nei dintorni, tutti gli altri dormivano di un sonno profondo.
L’indomani, 21 aprile, Cyrus Smith, accompagnato da Harbert, si pose alla ricerca dei terreni di antica formazione, sui quali già aveva trovato un campione di minerale grezzo. Egli ritrovò il giacimento a fior di terra, quasi alla sorgente del corso d’acqua, ai piedi della base laterale di uno dei contrafforti di nordest. Quel minerale, ricchissimo di ferro, chiuso nella sua ganga fusibile, si adattava perfettamente al metodo di riduzione che l’ingegnere voleva adottare, vale a dire il metodo catalano, ma semplificato, così come si usa in Corsica.
Infatti, il metodo catalano propriamente detto esige la costruzione di forni e di crogiuoli, nei quali il minerale grezzo e il carbone, disposti a strati alternati, si trasformano e si riducono. Ma Cyrus Smith voleva risparmiare quelle costruzioni, e voleva, come se si trattasse della cosa più semplice, formare con il minerale grezzo e il carbone una massa cubica, al centro della quale avrebbe diretto il soffio del mantice. Questo era, indubbiamente, il procedimento usato da Tubalcain e dai primi metallurghi del mondo abitato. Ora, quello ch’era riuscito ai nipoti d’Adamo e che dava ancora buoni risultati nelle contrade ricche di minerale greggio e di combustibile, non poteva non riuscire nelle circostanze in cui si trovavano i coloni dell’isola di Lincoln.
Così, come il minerale grezzo, anche il carbon fossile fu raccolto, senza fatica e non lontano, alla superficie del suolo. Prima si ruppe il minerale in piccoli pezzi e lo si sbarazzò, con le mani, dalle impurità che ne imbrattavano la superficie. Poi, carbone e minerale furono ammassati a strati alterni, così come fa il carbonaio con la legna che vuol carbonizzare. In questa maniera, sotto l’influenza dell’aria proiettata dal mantice, il carbone doveva trasformarsi in acido carbonico, poi in ossido di carbonio, destinato questo a ridurre l’ossido di ferro, cioè a liberarlo dall’ossigeno.
Così procedette l’ingegnere. Il mantice di pelle di foca, munito all’estremità di un tubo di terra refrattaria, fabbricato prima nel forno da terraglie, fu posto vicino al mucchio di minerale greggio. Mosso da un meccanismo, i cui congegni consistevano in un telaio, corde di fibra e contrappeso, esso lanciò nella massa una quantità d’aria che ne elevò la temperatura e contribuì alla trasformazione chimica che doveva dare il ferro puro.
L’operazione fu difficile. Fu necessaria tutta la pazienza e l’ingegnosità dei coloni per condurla a buon fine; ma finalmente essa riuscì, e il risultato definitivo fu un blocco di ferro, poroso, somigliante a una spugna, che bisognò forgiare, fucinare, insomma, per toglierne la ganga liquefatta. Evidentemente, il primo martello mancava a quei fabbri improvvisati; ma, in fin dei conti, essi si trovavano nelle medesime condizioni in cui s’era trovato il primo lavoratore di metalli e fecero come egli dovette fare.
Il primo massello con un lungo manico costituito da un bastone, servì da martello per forgiare il secondo su un’incudine di granito, e si pervenne così a ottenere un metallo grossolano, ma utilizzabile.
Finalmente, dopo tanti sforzi e tante fatiche, il 25 aprile, parecchie barre di ferro erano forgiate e si trasformarono in utensili, pinze, tenaglie, piccozze, zappe, ecc., che a Pencroff e a Nab parvero veri capolavori.
Ma non era allo stato di ferro puro che quel metallo poteva rendere i maggiori servigi, bensì allo stato di acciaio. Ora, l’acciaio è una combinazione di ferro e di carbonio che si ottiene, sia dalla ghisa, togliendo a questa l’eccesso di carbonio, sia dal ferro, aggiungendo allo stesso il carbonio che gli manca. Il primo, ottenuto dalla decarburazione della ghisa, dà l’acciaio naturale o pudellato; il secondo, prodotto con la carburazione del ferro, dà l’acciaio di cementazione.
Cyrus Smith doveva cercar di fabbricare preferibilmente quest’ultimo, giacché possedeva il ferro allo stato puro. E vi riuscì, riscaldando il metallo con del carbone in polvere, in un crogiuolo fatto di terra refrattaria.
Questo acciaio, che è malleabile a caldo e a freddo, egli lo lavorò poi con il martello. Nab e Pencroff, abilmente diretti, ne fecero ferri da scure, che, scaldati sino a divenir rossi e tuffati bruscamente nell’acqua fredda, acquistarono un’eccellente tempera.
Vari altri strumenti, rozzamente foggiati, è inutile dirlo, furono così fabbricati: lame da pialla, scuri, asce, strisce d’acciaio destinate a essere trasformate in seghe, cesoie, scalpelli, e, poi, ancora ferri da zappa e da piccone, martelli, chiodi, ecc.
Finalmente, il 5 maggio, essendo finito il primo periodo metallurgico, i fabbri rientrarono ai Camini e nuovi lavori li avrebbero tra poco autorizzati a prendere una qualifica nuova.