QUESTE ultime parole giustificavano i presentimenti dei coloni. C’era nella vita di quello sventurato un funesto passato, espiato forse agli occhi degli uomini, ma di cui la sua coscienza non l’aveva ancora assolto. In ogni modo, il colpevole aveva dei rimorsi, s’era pentito, e quella mano che gli avevano chiesta i suoi nuovi amici gliel’avrebbero cordialmente stretta, ma egli non si sentiva degno di porgerla a dei galantuomini! Ciò nonostante, dopo la scena del giaguaro, non ritornò nella foresta e non lasciò più il recinto di GraniteHouse.
Qual era il mistero di quell’esistenza? Lo sconosciuto avrebbe parlato un giorno? All’avvenire la risposta. A ogni modo, fu assolutamente deciso che il suo segreto non gli sarebbe mai stato domandato e che la vita sarebbe continuata da allora in comune con lui, come se nulla si fosse saputo.
Durante alcuni giorni l’esistenza in comune continuò a essere quella che era sempre stata. Cyrus Smith e Gedeon Spilett lavoravano assieme, ora chimici, ora fisici. Il giornalista non lasciava l’ingegnere che per andare a caccia con Harbert, poiché non sarebbe stato prudente lasciare che il giovanetto vagasse da solo per la foresta e bisognava stare in guardia. Quanto a Nab e Pencroff, un giorno alle stalle o al pollaio, un altro al recinto, e senza contare i lavori a GraniteHouse, non mancavano certo di occupazioni.
Lo sconosciuto lavorava in disparte e aveva ripreso il suo consueto modo di vivere, non intervenendo ai pasti, coricandosi sotto gli alberi, senza unirsi mai ai compagni. Sembrava proprio che la compagnia di quelli che l’avevano salvato gli fosse insopportabile!
«Ma, allora,» faceva notare Pencroff «perché ha richiesto il soccorso dei suoi simili? Perché ha gettato quel documento in mare?»
«Ce lo dirà» rispondeva invariabilmente Cyrus Smith.
«Quando?»
«Forse più presto di quello che pensate, Pencroff. E, infatti, il giorno delle confessioni era prossimo.»
Il 10 dicembre, una settimana dopo il ritorno dello sconosciuto a GraniteHouse, Cyrus Smith se lo vide venire incontro.
«Signore, avrei da farvi una domanda» disse con voce calma e in tono umile.
«Parlate» rispose l’ingegnere; «ma prima lasciate ch’io pure vi faccia una domanda.»
A queste parole lo sconosciuto arrossì e fu sul punto di ritirarsi. Cyrus Smith comprese quello che passava nell’animo del colpevole, il quale temeva indubbiamente che l’ingegnere lo interrogasse sul suo passato! Cyrus Smith lo trattenne per la mano:
«Compagno,» gli disse «non solo siamo per voi dei compagni, ma degli amici. Questo mi premeva di dirvi, questo era tutto quanto volevo chiedervi. E ora vi ascolto.»
Lo sconosciuto si passò la mano sugli occhi. Era in preda a una specie di tremito e rimase alcuni istanti senza poter articolare parola.
«Signore,» disse alla fine «vengo a pregarvi di accordarmi una grazia.»
«Quale?»
«Voi avete a quattro, o cinque miglia da qui, ai piedi della montagna, un recinto per i vostri animali domestici. Questi animali hanno bisogno d’essere curati. Volete permettermi di vivere con essi laggiù?»
Cyrus Smith guardò per alcuni istanti l’infelice, con un sentimento di commiserazione profonda. Poi:
«Amico,» disse «il recinto ha soltanto delle stalle, appena convenienti per gli animali…»
«Sarà abbastanza per me, signore.»
«Amico,» riprese Smith «noi non vi contrarieremo mai in nulla. Vi piace vivere al recinto? Sia. Sarete, d’altronde, sempre il benvenuto a GraniteHouse. Ma, poiché volete rimanere laggiù, prenderemo le disposizioni necessarie perché vi siate opportunamente ospitato.»
«Non importa; io mi ci troverò sempre bene.»
«Amico,» rispose Cyrus Smith, che insisteva apposta su questo cordiale appellativo «lascerete a noi decidere su quello che dobbiamo fare!»
«Grazie, signore» rispose lo sconosciuto, scostandosi. L’ingegnere comunicò tosto ai compagni la proposta che gli era stata fatta
e fu deciso di costruire nel recinto una casetta di legno più comoda possibile.
Il giorno stesso, i coloni si recarono al recinto con gli attrezzi necessari, e la settimana non era ancora trascorsa che già la casa era pronta a ricevere il suo ospite. Era stata costruita a una ventina di piedi dalle stalle; di là sarebbe stato facile sorvegliare il gregge di mufloni, che contava allora più di ottanta capi. Alcuni mobili — un lettino, una tavola, una panca, un armadio, una cassapanca — furono fabbricati e, inoltre, armi, munizioni e utensili vari furono trasportati al recinto.
Lo sconosciuto non era andato a vedere la sua nuova dimora e aveva lasciato che i coloni vi lavorassero senza di lui, mentre egli continuava a occuparsi dei lavori agricoli sull’altipiano, che voleva evidentemente ultimare. E difatti, grazie a lui, tutte le terre erano arate e pronte per essere seminate, appena fosse venuto il momento giusto.
Era il 20 dicembre quando furono terminati i lavori al recinto. L’ingegnere annunciò allo sconosciuto che la sua dimora era pronta a riceverlo, e questi rispose che sarebbe andato ad abitarla la sera stessa.
Quella sera i coloni erano radunati nel salone di GraniteHouse. Erano le otto, cioè l’ora in cui il loro compagno doveva lasciarli. Non volendo molestarlo, imponendogli con la loro presenza degli addii che gli sarebbero forse costati fatica, l’avevano lasciato solo ed erano saliti a GraniteHouse.
Ora, essi conversavano nel salone da qualche minuto, quando un colpo leggero fu battuto alla porta. Lo sconosciuto entrò quasi subito, e senz’altri preamboli:
«Signori,» disse «prima che vi lasci, è bene che sappiate la mia storia. Eccola.»
Queste semplici parole non poterono non impressionare vivissimamente Cyrus Smith e i suoi compagni.
«Noi non vi domandiamo nulla, amico» disse. «È vostro diritto tacere…»
«È mio dovere parlare.»
«Sedetevi dunque.»
«Rimarrò in piedi.»
«Siamo pronti ad ascoltarvi» rispose Cyrus Smith.
Lo sconosciuto si teneva in un canto della sala, un poco protetto dalla penombra. Aveva il capo scoperto, le braccia incrociate sul petto, e in quell’atteggiamento, con voce sorda, sforzandosi a parlare, fece il seguente racconto, senza essere mai interrotto dai suoi uditori:
«Il 20 dicembre 1854, uno yacht a vapore, il Duncan, appartenente al nobile scozzese lord Glenarvan, gettava l’ancora al capo Bernouilli, sulla costa occidentale dell’Australia, all’altezza del trentasettesimo parallelo. A bordo di questo yacht erano lord Glenarvan, sua moglie, un maggiore dell’esercito inglese, un geografo francese, una fanciulla e un giovinetto. Questi ultimi erano i figli del capitano Grant, il cui bastimento, il Britannici, era colato a picco un anno prima. Il Duncan era comandato dal capitano John Mangles e governato da un equipaggio di quindici uomini.»
«Ecco perché questo yacht si trovava in quel tempo sulle coste dell’Australia.
«Sei mesi prima, una bottiglia contenente un documento scritto in inglese, in tedesco e in francese, era stata trovata nel mare d’Irlanda e raccolta dal Duncan. Quel documento diceva, in sostanza, che esistevano ancora tre superstiti del naufragio del Britannia, che questi superstiti erano il capitano Grant e due dei suoi uomini, e che essi avevano trovato rifugio su una terra di cui il documento dava la latitudine, ma la cui longitudine, cancellata dall’acqua del mare, non era più leggibile.
«La latitudine era quella di 37° 11’ australe. Dunque, essendo ignota la longitudine, seguendo il detto trentasettesimo parallelo attraverso i continenti e i mari, si era certi di arrivare sulla terra abitata dal capitano Grant e dai suoi due compagni.
«Poiché l’ammiragliato inglese aveva esitato a intraprendere quella ricerca, lord Glenarvan risolse di tentare il tutto per tutto per ritrovare il capitano. Mary e Robert Grant erano stati messi in relazione con lui. Lo yacht Duncan fu equipaggiato per una lunga campagna, cui la famiglia del lord e i figli del capitano vollero prender parte; il Duncan, lasciando Glasgow, si diresse verso
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l’Atlantico, doppiò lo stretto di Magellano e risalì il Pacifico sino alla Patagonia, dove, secondo una prima interpretazione del documento, si poteva supporre che il capitano Grant fosse rimasto prigioniero degli indigeni.
«Il Duncan sbarcò i suoi passeggeri sulla costa occidentale della Patagonia e riparti per andarli a riprendere sulla costa orientale, al capo Corrientes.
«Lord Glenarvan attraversò la Patagonia, seguendo il trentasettesimo parallelo e, non avendo trovato alcuna traccia del capitano, si rimbarcò il 13 novembre, allo scopo di proseguire le sue ricerche attraverso l’oceano.
«Dopo aver visitato senza successo le isole Tristan d’Acunha e di Amsterdam, poste sul suo percorso, il Duncan, come ho detto, arrivò al capo Bernouilli, sulla costa australiana, il 20 dicembre 1854.
«L’intenzione di lord Glenarvan era di attraversare l’Australia, come aveva attraversato l’America, e sbarcò. A poche miglia dal lido esisteva una fattoria, appartenente a un irlandese, che offri ospitalità ai viaggiatori. Lord Glenarvan fece conoscere a questo irlandese le ragioni che l’avevano condotto in quei paraggi e gli domandò se sapeva che un tre alberi inglese, il Britannia, si fosse perduto da meno di due anni sulla costa ovest dell’Australia.
«L’irlandese non aveva mai sentito parlare di quel naufragio; ma, con gran sorpresa dei presenti, uno dei servitori dell’irlandese intervenne e disse:
««Milord, lodate e ringraziate Iddio. Se il capitano Grant è ancora vivo, è vivo in terra australiana».
««Chi siete voi?» chiese lord Glenarvan.
««Uno scozzese come voi, milord» rispose quell’uomo. «Sono uno dei compagni del capitano Grant, uno dei naufraghi del Britannia.»
«Quell’uomo si chiamava Ayrton. Era, infatti, il nostromo del Britannia, come testimoniavano i suoi documenti. Ma, separato dal capitano Grant nel momento in cui la nave si infrangeva sugli scogli, aveva sino allora creduto che il suo capitano fosse perito con tutto l’equipaggio e che fosse lui, Ayrton, il solo superstite del Britannia.
««Solamente,» egli aggiunse «il Britannia s’è perduto non sulla costa, ovest, ma sulla costa est dell’Australia, e se il capitano Grant è ancora vivo, come indica il suo documento, è prigioniero degli indigeni australiani e bisogna cercarlo sull’altra costa.»
«Quell’uomo, così parlando, aveva la voce sincera, lo sguardo sicuro. Non si poteva dubitare delle sue parole. L’irlandese, che l’aveva al suo servizio da più di un anno, ne rispondeva. Lord Glenarvan credette alla lealtà di quell’uomo, e mercé i suoi consigli, risolse di attraversare l’Australia, seguendo il trentasettesimo parallelo. Lord Glenarvan, sua moglie, i due fanciulli, il maggiore, il francese, il capitano Mangles e alcuni marinai dovevano comporre la piccola colonna, sotto la guida d’Ayrton, mentre il Duncan, agli ordini del secondo, Tom Austin, si sarebbe recato a Melbourne, ove avrebbe atteso le istruzioni di lord Glenarvan.
«Essi partirono il 23 dicembre 1854.
«È tempo di dire che Ayrton era un traditore. Era stato veramente nostromo del Britannia; ma, per divergenze con il comandante, aveva tentato di indurre l’equipaggio alla rivolta e impadronirsi della nave, e il capitano Grant, l’8 aprile 1852, l’aveva sbarcato sulla costa ovest dell’Australia, poi era ripartito abbandonandolo, e così facendo egli non aveva compiuto che un atto di giustizia.
«Così, quel miserabile nulla sapeva del naufragio del Britannia, che aveva appreso per la prima volta dal racconto di Glenarvan! Dopo essere stato abbandonato, era divenuto, sotto il nome di Ben Joyce, il capo dei deportati evasi, e se sostenne impudentemente che il naufragio aveva avuto luogo sulla costa est, se spinse lord Glenarvan a prendere quella direzione, fu perché sperava di separarlo dal suo bastimento, d’impadronirsi del Duncan per dedicarsi alla pirateria nel Pacifico».
Qui lo sconosciuto s’interruppe un istante. La sua voce tremava; ma riprese subito, in questi termini:
«La spedizione partì e si diresse attraverso il continente australiano. Essa fu naturalmente disgraziata, poiché Ayrton o Ben Joyce, come si vorrà chiamarlo, la dirigeva, ora preceduto, ora seguito dalla sua banda di deportati, che era stata preavvisata del colpo da fare.»
«Intanto il Duncan era stato mandato a Melbourne per essere riparato. Si trattava, dunque, di convincere lord Glenarvan a ordinare allo yacht di lasciare Melbourne e di raggiungere la costa est dell’Australia, ove sarebbe stato facile impadronirsene. Dopo aver condotto la spedizione abbastanza vicino a questa costa, in mezzo a vaste foreste, ove mancavano tutti i mezzi di sussistenza, Ayrton ottenne una lettera, ch’egli stesso s’era incaricato di portare al secondo del Duncan, lettera che ordinava allo yacht di raggiungere immediatamente, sulla costa est, la baia di Twofold, che si trovava ad alcune giornate di cammino dal punto ove la spedizione si era fermata. Là appunto Ayrton aveva dato convegno ai suoi complici.
«Nel momento in cui questa lettera stava per essergli consegnata, il traditore fu smascherato e non gli rimase che fuggire. Ma gli occorreva a ogni costo avere quella lettera, che doveva mettere in sua balia il Duncan. Ayrton riuscì a impadronirsene, e due giorni dopo, arrivava a Melbourne.
«Fino allora il criminale era riuscito nei suoi odiosi disegni. Egli stava per condurre il Duncan nella baia di Twofold, ove sarebbe stato facile ai deportati d’impadronirsene, e massacrato l’equipaggio, Ben Joyce sarebbe divenuto padrone di quei mari. Ma Dio doveva arrestarlo proprio quando la sua trama funesta stava per compiersi.
«Ayrton, giunto a Melbourne, consegnò subito la lettera al secondo comandante, Tom Austin, che ne prese conoscenza e tosto salpò; ma si pensi alla costernazione e alla collera di Ayrton, quando l’indomani seppe che il secondo conduceva il bastimento, non già sulla costa est dell’Australia, nella baia di Twofold, ma bensì sulla costa est della Nuova Zelanda. Volle opporsi, Austin gli mostrò la lettera!… E, infatti, per un errore provvidenziale del geografo francese che aveva redatto la lettera, era indicato come luogo di destinazione la costa est della Nuova Zelanda.
«Tutti i piani di Ayrton fallivano! Egli volle rivoltarsi. Venne imprigionato e poi condotto sulla costa della Nuova Zelanda, senza saper più che cosa sarebbe avvenuto dei suoi complici, né di lord Glenarvan.
«Il Duncan rimase a incrociare in quei paraggi fino al 3 marzo. Quel giorno Ayrton sentì delle detonazioni. Erano le cannonate del Duncan, e poco dopo lord Glenarvan e tutti i suoi giungevano a bordo.
«Ecco quello che era accaduto.
«Dopo mille fatiche, mille pericoli,lord Glenarvan aveva potuto giungere alla fine del suo viaggio e arrivare alla costa est dell’Australia, alla baia di Twofold. Il Duncan non c’era! Telegrafò a Melbourne. Gli si rispose: «Duncan partito dal 18 corrente per destinazione ignota».
«Lord Glenarvan non poté più pensare che una cosa: e cioè che lo yacht era caduto nelle mani di Ben Joyce e ch’era diventato un vascello di pirati!
«Nondimeno lord Glenarvan non volle abbandonare la partita. Era un uomo intrepido e generoso. S’imbarcò su una nave mercantile, si fece condurre sulla costa ovest della Nuova Zelanda, l’attraversò sul trentasettesimo parallelo, senza trovare alcuna traccia del capitano Grant; ma sull’altra costa, con grande sorpresa, e per volontà divina, ritrovò il Duncan agli ordini del secondo, che lo aspettava da cinque settimane!
«Era il 3 marzo 1855. Lord Glenarvan era, dunque, a bordo del Duncan; ma vi era anche Ayrton. Egli comparve innanzi al lord, che ne voleva ricavare tutto quello che il bandito poteva sapere in merito al capitano Grant. Ayrton ricusò di parlare. Lord Glenarvan allora gli disse che al primo scalo sarebbe stato consegnato alle autorità inglesi. Ayrton rimase muto.
«Il Duncan riprese la rotta del trentasettesimo parallelo. Intanto, lady Glenarvan tentò di vincere la resistenza del bandito. Alla fine, l’influenza di lei lo conquistò, e Ayrton, in cambio di quello che stava per dire, pregò lord Glenarvan di abbandonarlo su una delle isole del Pacifico, invece di consegnarlo alle autorità inglesi. Lord Glenarvan, deciso a tutto per sapere quanto concerneva il capitano Grant, acconsenti.
«Ayrton narrò allora tutta la sua vita, e ne risultò con certezza ch’egli non sapeva più nulla del capitano Grant, dal giorno in cui questi l’aveva sbarcato sulla costa australiana.
«Nondimeno, lord Glenarvan mantenne la parola data. Il Duncan continuò la sua rotta e arrivò all’isola di Tabor. Là doveva essere lasciato Ayrton, là, per un vero miracolo, venne ritrovato il capitano Grant con i suoi due uomini, precisamente sul trentasettesimo parallelo. Il deportato andava, dunque, a sostituirlo su quell’isolotto deserto; ed ecco le parole che lord Glenarvan pronunziò nel momento in cui Ayrton abbandonò lo yacht:
««Qui, Ayrton, sarete lontano da ogni terra e senza comunicazione possibile coi vostri simili. Non potrete fuggire dall’isolotto, ove il Duncan vi lascia. Sarete solo, sotto l’occhio di un Dio, che legge nel più profondo dei cuori; ma non sarete né perduto né ignorato, come il capitano Grant. Per indegno che siate nel ricordo degli uomini, gli uomini si ricorderanno di voi. Io so dove siete, Ayrton, e so dove trovarvi. Non lo dimenticherò mai!»
«E il Duncan salpò, sparendo in brevissimo tempo.
«Era il 18 marzo 1855. (Nota: Gli avvenimenti che sono qui succintamente narrati sono tolti da un’opera che alcuni dei nostri lettori conoscono senz’altro, I figli del capitano Grant. Qui, come anche più innanzi, si noterà una certa discordanza nelle date; ma si comprenderà in seguito perché le date vere non si siano potute dare prima. (Nota dell’Editore Hetzel). Fine nota)
«Ayrton era solo, ma né le munizioni, né le armi, né gli utensili, né le sementi gli mancavano. Era a sua disposizione, a disposizione di un deportato, la casa fabbricata dall’onesto capitano Grant. Non aveva che da lasciarsi vivere ed espiare nell’isolamento i delitti commessi.
«Signori, egli si penti, ebbe vergogna dei suoi delitti e fu molto infelice! Pensò che se gli uomini fossero venuti un giorno a ricercarlo su quell’isolotto, bisognava ch’egli fosse degno di ritornare fra loro! Quanto soffri, il miserabile! Quanto lavorò per rifarsi con il lavoro! Come pregò per rigenerarsi con la preghiera!
«Per due, tre anni fu così; ma Ayrton, abbattuto dall’isolamento, scrutando sempre se qualche nave fosse apparsa all’orizzonte della sua isola, chiedendosi se il tempo dell’espiazione fosse prossimo al suo termine, soffriva come nessuno ha mai sofferto! Oh, com’è dura la solitudine per un’anima rosa dai rimorsi!
«Ma il Cielo, indubbiamente, non trovava che lo sciagurato fosse abbastanza punito; ed egli sentì che, a poco a poco, diventava selvaggio! Sentì a poco a poco l’abbrutimento impadronirsi di lui! Egli non può dire se fu dopo due o quattro anni d’abbandono; ma, alla fine, divenne il miserabile che avete trovato!
«Non ho bisogno di dirvi, signori, che Ayrton o Ben Joyce e io non siamo che una sola persona!»
Cyrus Smith e i suoi compagni, alla fine del racconto, s’erano alzati. È difficile dire fino a che punto fossero commossi! Tanta miseria, tanti dolori e tanta disperazione messi a nudo davanti a loro!
«Ayrton,» disse allora Cyrus Smith «voi siete stato un grande criminale, ma il Cielo ha certamente giudicato che avete espiato i vostri delitti! L’ha provato riconducendovi fra i vostri simili. Ayrton, siete perdonato! E adesso, volete essere nostro compagno?»
Ayrton indietreggiò.
«Eccovi la mia mano!» disse l’ingegnere.
Ayrton si precipitò sulla mano che Cyrus Smith gli tendeva, e grosse lacrime sgorgarono dai suoi occhi.
«Volete vivere con noi?» domandò Cyrus Smith.
«Signor Smith, lasciatemi qualche tempo ancora,» rispose Ayrton «lasciatemi solo nell’abitazione del recinto!»
«Come vorrete, Ayrton» rispose Cyrus Smith.
Ayrton stava per ritirarsi, quando l’ingegnere gli rivolse un’ultima domanda:
«Ancora una parola, amico. Se davvero volevate vivere isolato, perché avete gettato in mare il documento che ci ha messi sulle vostre tracce?»
«Un documento?» rispose Ayrton, che pareva non sapere di che cosa gli si parlava.
«Sì, quel documento chiuso in una bottiglia, che abbiamo trovato e che dava la posizione esatta dell’isola di Tabor!»
Ayrton si passò una mano sulla fronte. Poi, dopo aver riflettuto:
«Non ho mai gettato in mare documenti!» rispose.
«Mai?» gridò Pencroff.
«Mai!»
E Ayrton, inchinandosi, indietreggiò verso la porta e uscì.