Per più di un mese, le quattro sonde automatiche avevano viaggiato silenziosamente attraverso lo spazio, puntando verso il pianeta maggiore del sistema di Alpha Centauri, L’unico legame tra le sonde e l’astronave era un continuo segnale radio, della minore intensità possibile, per non sprecare l’energia delle batterie.
Ma quando le sonde si avvicinarono alle due stelle principali di Alpha Centauri, le pile solari sui loro gusci cominciarono a convertire la luce in elettricità, e i segnali radio acquistarono forza. A uno a uno, gli strumenti di bordo si risvegliarono al nuovo apporto di energia e iniziarono a rimandare dati all’astronave. Ma questi dati, esaurienti e complessi, erano portati ora da raggi laser.
Alcuni degli strumenti calcolarono con esattezza la posizione delle sonde nello spazio, e le rotte che seguivano avvicinandosi al pianeta maggiore. Questi dati furono esaminati dagli uomini e dall’elaboratore a bordo dell’astronave, e alle sonde furono trasmesse lievi correzioni di rotta. Le sonde eseguirono, e gli uomini e le donne dell’astronave si congratularono con se stessi. L’elaboratore, impassibile, immagazzinò tutti i dati.
Le sonde rasentarono, oltrepassandolo felicemente, il campo gravitazionale di Alpha Centauri B, la stella minore del sistema, e si lasciarono attrarre da Alpha Centauri A, la stella gialla simile al sole, avvicinandosi al pianeta maggiore. Ci furono altre lievi correzioni di rotta, altre microscopiche emissioni di gas dai piccoli getti d’assetto, e poi le sonde entrarono in orbita attorno al pianeta.
Sull’astronave, la gente fece festa.
Da quel momento, fiumane di dati attraversarono lo spazio, riversandosi dalle sonde all’astronave in arrivo. Erano dati in codice, naturalmente, espressi in un linguaggio comprensibile solo agli ingegneri e all’elaboratore. E insieme ai dati, lungo i raggi laser che collegavano le sonde con l’astronave, arrivarono anche immagini.
Due delle sonde sganciarono capsule d’atterraggio. Una di queste non toccò mai la superficie del pianeta, o almeno non trasmise mai dati dopo che fu entrata nell’atmosfera. L’altra atterrò, e dalla superficie del nuovo mondo cominciò a inviare fotografie e informazioni.
Larry percorreva a passo spedito un corridoio del livello 2, dove si trovava la maggior parte dei laboratori e delle officine. Polanyi gli aveva telefonato tutto eccitato: le prime fotografie del pianeta erano pronte da esaminare.
Vide qualcuno venire dalla parte opposta e, prima della faccia, riconobbe la tuta arancione di Dan. La porta del laboratorio di Polanyi era a metà strada fra loro.
Si erano evitati, dopo che Dan era stato dimesso dall’infermeria. S’incontravano ora, alla porta di Polanyi, per la prima volta.
— Ciao, Dan — disse Larry meccanicamente.
Dan fece un cenno con la testa, serio serio. — Ciao.
Larry allungò una mano per aprire la porta ma Dan lo prevenne.
— Polanyi ha invitato anche te? — chiese Larry.
— Ha invitato tutti i membri nel Consiglio — rispose Dan — Hai qualcosa in contrario?
Larry lo guardò con astio, e se ne accorse. — Assolutamente niente… se tu credi di poter portar via del tempo al tuo lavoro.
Dan gli fece segno di precederlo, poi entrò dietro di lui dicendo: — Abbiamo finito, ormai. Il generatore è stato rimontato ed è senza difetti. Oggi riprenderà a funzionare.
— Bene. Sono contento. — Ma Larry non sorrideva.
— Eccovi qua. Siete i primi — li salutò Polanyi.
Era seduto al suo banco da lavoro in fondo al vasto laboratorio, che era un’accozzaglia di strumenti, videoschermi, pannelli di controllo, banchi di lavoro, terminali dell’elaboratore, e altri attrezzi che a Larry erano completamente sconosciuti. Mezza dozzina di tecnici in tuta bianca armeggiavano attorno a uno dei pannelli dell’elaboratore, vicino a un videoschermo grande come una parete montato su gambe che sembravano troppo fragili per il peso che sostenevano.
Polanyi si mise a gironzolare nervosamente attorno allo schermo, incitando i tecnici. Larry vide alcune sedie disposte in fila e andò a sedersi. Dan si avvicinò ai tecnici e stette lì a curiosare. Dopo circa dieci minuti, cominciarono ad arrivare gli altri consiglieri. I vecchi occuparono le sedie, e Larry si alzò e si unì all’irregolare semicerchio dei giovani in piedi dietro.
Alla fine i tecnici si distribuirono a vari pannelli di controllo sparsi attorno alla stanza, e Polanyi si rivolse al suo pubblico.
— Quello che vedete, e non avrei bisogno di dirlo, non sono ologrammi — esordì. — Ci sono olografie, tra i dati trasmessi dalle sonde, ma non le abbiamo ancora decodificate completamente. E ho pensato che vi interessasse vedere quello che c’è, anche se sono solo immagini a due dimensioni.
Larry annuì e disse: — Ci sono fotografie della superficie tra quelle che vedremo?
— Solo tre — rispose Polanyi. — La trasmissione di dati dalla superficie è difficoltosa, non sappiamo ancora perché. I dati orbitali invece sono perfetti.
Larry si accorse improvvisamente di aver perso di vista Dan. Si guardò in giro nella stanza affollata, e lo vide che se ne stava in disparte, di fianco al gruppo.
Le luci sul soffitto si spensero, e Larry tornò a rivolgere l’attenzione allo schermo che si accendeva. Apparvero dei colori, presero forma delle figure.
Era una fotografia del pianeta scattata da lontano, in modo che se ne vedesse l’intera sfera.
— Questa è la prima fotografia scattata dalle sonde — disse nel buio la voce di Polanyi. — E precisamente dalla sonda Uno, come indicano chiaramente i numeri in basso a destra.
Il pianeta era giallo. Vaste distese di giallo dorato, chiazzate qua e là di verde. Larry si chiese quale fosse la terra e quale l’acqua. L’intera palla era striata di nuvole bianche, che velavano gran parte del terreno sottostante. Ma non c’erano formazioni nuvolose complesse, come i cumuli temporaleschi che Larry aveva visto in certe immagini della Terra.
— Ecco la successiva — disse la voce di Polanyi.
La seconda fotografia era stata presa a distanza ravvicinata. Vi si vedevano rilievi simili a grinze, come quelle di un lenzuolo spiegazzato. Il giallo era la terra ferma, si rese conto Larry, e le chiazze verdi non erano la vegetazione, ma acqua.
La rassegna di fotografie durò più di un’ora. Il pianeta non aveva grandi oceani, ma solo mari, sparsi qua e là. E non c’erano calotte di ghiaccio ai poli.
Polanyi commentava spiegando che cosa rappresentavano le fotografie, frammettendo informazioni fornite da altri strumenti a bordo delle sonde. E tutto contribuiva a comporre un quadro deludente.
Il pianeta era poco più grande della Terra, ma la gravità in superficie era più alta di un terzo.
Qualcuno, nel buio, disse: — Uno virgola tre g. Significa che un uomo di novanta chili se ne sentirebbe addosso trenta in più, continuamente.
— Sarebbe come portarsi sempre in spalla un bambino di otto anni.
— Uno sforzo tremendo per il cuore. — Larry riconobbe, in quest’ultima osservazione, la voce del medico capo.
L’aria conteneva una percentuale di ossigeno poco più alta di quella della Terra, ma anche quantità pericolosamente elevate di ossidi nitrosi e solforosi.
— Effetto del vulcanismo — spiegò Polanyi, indicando col dito una fotografia della parte in ombra del pianeta, dove brillavano delle luci rosse. — Vulcani… in gran parte attivi. Ce lo confermano gli analizzatori a infrarossi. I vulcani in attività emettono ossidi solforosi e altre sostanze nocive.
Larry fece una smorfia.
La vegetazione era di un verde tendente al giallo. Conteneva clorofilla, com’era risultato dalle letture spettrali effettuate dalle sonde, ma lo svolgimento delle sue funzioni vitali non era, evidentemente, lo stesso del verde della Terra.
— E le fotografie della capsula? — chiese qualcuno.
— Stanno per arrivare.
L’immagine sullo schermo cambiò bruscamente, e apparve un paesaggio meraviglioso, tutto dorato. Piante gialle dappertutto, alcune alte e robuste, come alberi, con esili rampicanti pendenti dai rami; era giallo anche il cielo, dove le nuvole avevano una sfumatura dorata.
— Questa fotografia è stata scattata verso l’ora del tramonto locale — disse Polanyi. — Il colore giallo è dovuto a questo, credo… almeno in parte.
Era stupendo. Larry guardava quelle colline, quelle nubi, quell’erba tenera d’oro, e nel suo intimo si risvegliava qualcosa che non avrebbe mai creduto di provare. Un mondo, un mondo vero, dove si poteva camminare all’aria aperta, alzare gli occhi e vedere un cielo che aveva albe e tramonti, salire su una collina, nuotare in un fiume…
Rabbrividì. Si stava suggestionando. Quel mondo dorato era una trappola mortale. Un uomo non avrebbe potuto viverci cinque minuti, se non indossando un’ingombrante tuta protettiva.
La scena cambiò. Ora l’erba e gli alberi gialli seguivano il pendio dolce di una valle. In lontananza si vedevano montagne di roccia nuda, con le cime velate di nubi.
— Ci sono almeno due vulcani attivi tra quelle montagne sullo sfondo — disse Polanyi. — Le nubi sono vapori fuoriusciti dai vulcani.
Era sempre stupendo.
La scena cambiò di nuovo, e apparve la vista dall’altra parte della capsula. Il pendio della collina, sempre coperto d’erba e arbusti dorati, saliva; e su, vicino alla cima, quattro sagome scure si stagliavano contro il cielo.
— Sembrerebbero animali — disse la voce di Polanyi. — E tenendo conto della distanza, abbiamo dedotto che devono essere più o meno grossi come pecore terrestri.
Difficile dire che forma avessero. Si aveva l’impressione di una testa, di anche rotonde. Non si vedevano code, e non si poteva neppure tentare di distinguere quante gambe avessero perché la parte inferiore del corpo era nascosta dall’erba alta.
Le luci sul soffitto del laboratorio si accesero improvvisamente, e l’immagine svanì dallo schermo.
— Per il momento non abbiamo altro — disse Polanyi.
Larry strizzò gli occhi alla luce improvvisa, e scoprì di essere di malumore. Aveva passato la vita in una prigione, in un reclusorio d’acciaio e di plastica, dove si respirava sempre la stessa aria riciclata, e si conosceva ogni faccia, ogni comparto, ogni millimetro quadro di spazio. E là fuori c’era un mondo. Un grande, bellissimo mondo dorato su cui nessuno aveva mai messo piede, e che aspettava di essere esplorato e abitato.
Aspetta di ucciderci, si ricordò.
Tutti si erano messi a parlare, sottovoce, e il laboratorio era pieno del ronzìo di dieci conversazioni insieme.
Poi la voce di Dan impose il silenzio. — E così abbiamo avuto la prima visione della terra promessa.
Larry fece un passo avanti. — Io direi che promette ben poco. È inabitabile.
— Per noi — ribatté Dan, — ma non per i nostri figli.
— Se li trasformiamo in esseri capaci di respirare zolfo e forti quanto un uomo più un terzo.
— Se è necessario, i genetisti sono in grado di farlo.
Larry fece per rispondere, ma si trattenne. Disse soltanto: — Questo non è il posto adatto per discuterne. Domani mattina convocherò il Consiglio e allora sentiremo il parere di tutti e decideremo se questo pianeta dev’essere il nostro mondo o se dobbiamo cercarne un altro.
Dan non disse niente, si limitò a guardare Larry con un sorriso ambiguo sulle labbra.
Era tardi, e le luci del corridoio erano basse. Larry e Valery avevano cenato nell’alloggio dei Loring, con la madre di Val. Ora, dopo una lunga passeggiata per il livello 1, stavano rientrando. Camminavano lentamente, mano nella mano.
Si fermarono a uno degli oblò di vetroplastica, si sedettero sulla panca imbottita contro la paratia vicina, e per alcuni minuti guardarono il cielo fuori senza parlare.
Le stelle erano fitte come granelli di polvere. Una, gialla, brillava più delle altre. Poco distante, una arancione occhieggiava, più fioca.
— Domani mattina il Consiglio si riunisce per decidere — disse Larry, stancamente.
— Pensi che siamo arrivati alla fine del viaggio? — chiese Valery.
Larry scosse la testa. — Non è possibile. Non possiamo viverci, su quel pianeta… anche se…
— Anche se?
— È stupendo! — disse Larry. — Oggi ho visto le fotografie della superficie. È bellissimo. Vorrei tanto che fosse possibile viverci.
— I genetisti non possono…?
— Possono adattare alle condizioni di vita del pianeta i nostri figli. Ma… questo vorrebbe dire farli crescere lontano da noi, in una parte dell’astronave con una gravità più alta e un’atmosfera diversa. Vorrebbe dire che per andare a trovarli dovremmo metterci una tuta pressurizzata.
— Oh…
— E i genitori? Ti par possibile che noi continuiamo a vivere qui dentro, in questo bozzolo, in questa prigione, e lasciamo andare i nostri figli sul pianeta? È pazzesco, impensabile. Il pianeta è bellissimo ma inadatto a noi. Se tentassimo di farcelo andar bene a tutti i costi, saremmo degli infelici.
— E allora bisogna andare avanti — disse Val.
— Già. Ma Dan s’è impuntato. Mi darà battaglia.
— E tu vincerai.
Larry la guardò. — Mah. Mi ripugna, sai, dovermi scontrare con lui.
— Dan è convinto che l’astronave non è in grado di proseguire — disse Valery. — Dice che moriremo tutti, se tentiamo di raggiungere un’altra stella.
Larry vide che Val non lo guardava; teneva gli occhi fissi alle stelle. Le prese il mento e le girò la faccia verso di lui.
— Vi siete visti spesso, da quando lui è uscito dall’infermeria, vero?
— Sì — rispose Valery, sottovoce.
Larry lasciò cadere la mano. — È una cosa che non mi fa piacere. Anzi, mi dà terribilmente fastidio.
— Larry — disse Valery, dolcemente, — io sono una donna libera. Posso fare quello che voglio.
— Lo so, hai ragione. Ma… non mi va che tu lo veda.
— Non ti fidi di me?
Larry si sentì meschino e infelice. — Certo che mi fido di te, Val, ma…
— Niente ma, Larry. O ti fidi o non ti fidi.
— Mi fido — disse Larry tetro e accigliato.
— E fai male.
— Eh?
— Oh, Larry… è tutto così complicato! Io non voglio che Dan ti faccia del male. M’ha detto… che se sposo lui, non tenterà più di strapparti la presidenza.
Larry ebbe la sensazione che lo stomaco gli si intorpidisse. — E tu cosa gli hai risposto?
— Io… gli ho lasciato credere che ero disposta a farlo, se davvero ti lasciava in pace.
Larry seppe cosa si provava sotto un getto d’elio liquido: un freddo dannato. — Ah. Gli hai lasciato credere questo.
— L’ho fatto per te.
— Grazie tante. M’hai fatto un favore enorme. Adesso lui sa che può alzare un dito e farti correre. Basta che attacchi lite con me, e ti ha a sua disposizione.
— No… non è…
Larry strinse i pugni. — Sono stato uno scemo a credere che preferissi me. È lui che hai sempre voluto. E adesso hai il pretesto per prendertelo.
La sentì sussultare. — Larry… no… per favore… — Aveva una voce fioca, lontanissima.
— M’hai fatto intendere per tutto questo tempo che amavi me… solo perché lui non era in circolazione. Ma appena riappare, è lui che conta.
— Non hai capito niente!
Larry si alzò in piedi. E per un attimo, guardando le stelle, ebbe voglia che la parete di metallo e plastica sprofondasse, facendolo precipitare senza fine nel gelo dell’eternità.
— Niente? — ripeté a voce bassissima. — Non ho capito niente?
E allora si alzò anche lei, e gli si piantò davanti, con la faccia rossa di rabbia.
— Siete tutti e due uguali! — sbottò. La voce era bassa ma ora vibrava come una corda d’acciaio. — Tutti e due volete possedermi, spadroneggiare su di me. Ma io non sono un oggetto di proprietà di nessuno dei due. Io sono io, e non starò qui come un fiorellino ad aspettare che chi la vince tra voi due mi colga. D’ora in poi, sia tu sia Dan farete a meno di me. Non voglio più vedere né l’uno né l’altro! Chiaro?
Larry fece un passo indietro. — Val…
— Se tu e il tuo ex-amico volete scannarvi a tutti i costi, fatelo pure, ma per un motivo qualunque che non sia io. Non voglio essere il premio per il vincitore. Picchiatevi, accoppatevi, se volete… io non c’entro più, mi ritiro. Non me ne importa più niente! Ho tentato di salvarvi. Io vi amo tutt’e due, capisci? Vi amo tutt’e due, ma ho sempre amato più te, Larry. Sono stata io a spingerti ad accaparrarti la presidenza… perché sono stata io a volerti. Ma sei tutto preso a flettere i muscoli e a fare il geloso… Tu hai paura di Dan! Non potrai mai essere felice, tornare te stesso, se non ti liberi di questa paura. E ti sembra che l’unico modo per liberarti sia ucciderlo… o essere ucciso da lui. Ecco a che cosa arriverete, voi due. Ma io non voglio averci niente a che fare! Andate avanti, ammazzatevi! A me non importa più niente, me ne lavo le mani!
Si voltò e corse via per il corridoio.
Larry non riuscì a rincorrerla. Era pietrificato. E poi sapeva che lei aveva ragione.