XI

Guido Lastella era un astronauta, il solo uomo a bordo dell’astronave capace di pilotare un razzo avanti e indietro da un’orbita di parcheggio alla superficie di un altro pianeta. Lui non era uno dei prigionieri politici, di quegli scienziati esiliati dalla Terra e rinchiusi nell’astronave per salvaguardare la stabilità del mondo. Guido Lastella era un astronauta. E fare l’astronauta era il suo divertimento.

Ma lo stesso governo della Terra che aveva esiliato migliaia di scienziati con le loro famiglie, aveva anche soppresso quasi completamente i voli spaziali. Li aveva ridotti a qualche viaggio sulla Luna, due o tre volte l’anno, per portare manodopera alle fabbriche, e ai voli orbitali, per riparare i satelliti artificiali. Nient’altro. Niente più viaggi su Marte, niente più esplorazioni nel sistema solare. La Terra non poteva permetterselo.

E così, quando gli esuli avevano ottenuto dal governo della Terra il permesso di lanciare la loro prigione orbitante verso le stelle, Lastella si era offerto volontario di accompagnarli.

— Ci sono destinato. Lo dice il mio nome, no?

E per cinquant’anni aveva viaggiato verso le stelle, congelato nel criosonno, per essere risvegliato quando ci fosse stato bisogno di lui. Ora era sveglio e faceva il suo mestiere d’astronauta.

Terribilmente infelice.

Era chiuso in una tuta pressurizzata, sulla superficie del nuovo mondo che tutti chiamavano Maggiore, contrazione de il pianeta maggiore di Alpha Centauri. Ma Lastella l’aveva battezzato Il Pianeta Giallo e quel colore era per lui un segnale di pericolo.

Si sentiva sempre stanco, sul pianeta. Forse era la gravità elevata che pesava sui muscoli. Forse era la paura, che non lo abbandonava mai.

Erano ormai sei settimane che Guido portava avanti e indietro un piccolo aviorazzo dalla superficie all’astronave, che ora orbitava a cinquecento chilometri sopra l’equatore del pianeta. Almeno due volte alla settimana trasportava uomini e attrezzature al piccolo accampamento eretto sulla riva di uno dei mari del Pianeta Giallo. Il resto del tempo, insegnava ad alcuni giovani a pilotare il razzo. C’era stato un incidente in cui erano rimasti uccisi due uomini e una ragazza. E più di una volta si era evitato per un pelo che la cosa si ripetesse. In quelle sei settimane, Guido era invecchiato molto di più che nei cinquant’anni di criosonno.

In quel momento era fermo a metà strada tra l’aviorazzo e la base, composta di attrezzature e tende a cupola di plastica in ordine sparso. Un vento impetuoso sferzava l’acqua verde del mare sollevando onde dalla cresta spumeggiante Ma per Guido, chiuso dentro la tuta pressurizzata, il vento era solo un leggero stridore.

Quello che lo rendeva inquieto era la minacciosa nuvola giallobruna che il vento portava verso di loro dall’orizzonte.

— Astronave da campo — crepitò la voce di una ragazza nella cuffia. — Abbiamo accertato che sull’altra riva del vostro mare c’è un nuovo vulcano in attività, e il vento sta portando il pulviscolo radioattivo nella vostra direzione.

Dentro il casco, Guido annuì amaramente. Poi premette un pulsante sulla cintura.

— Ci conviene riportare su la scialuppa al più presto possibile, prima che arrivi la nuvola.

— Ripartite subito? Ma non siamo ancora pronti. — Era la voce di Dan, dal campo, molto più forte di quella della ragazza dall’astronave.

Guido si avviò verso l’aviorazzo. — L’ultima volta che ho visto una nuvola simile, si portava dietro un uragano che ci ha bloccato per due giorni. E son piovute tante pietre e tanto zolfo che abbiamo dovuto spianare l’intero involucro del razzo. Non voglio rifare l’esperienza.

— Ma non puoi portarci via tutti. Qualcuno deve restare anche col temporale. E l’attrezzatura…

— Io, prima di tutto, penso alla scialuppa. L’attrezzatura è protetta, e voi potete aspettare la fine del temporale nel rifugio sotterraneo. — Guido raggiunse la scialuppa, aprì il pannello d’accesso, e premette il pulsante che c’era sotto. Il portello si aprì con uno schiocco, e la scaletta si srotolò fino ai suoi piedi.

— Aspetta — disse la voce di Dan. — Ti mando qualcuno. Per quante persone hai posto?

— Per quattro. A meno di non rimuovere una parte del carico che abbiamo imbarcato stamattina.

— Il deuterio? Neanche per sogno. Vale più di tutti noi messi insieme.

Guido guardò il mare, che ora spumeggiava furiosamente, con onde ciclopiche che si accavallavano e andavano a infrangersi nascondendo il sole e il cielo dorato.

— Posso aspettare dieci minuti — disse.

Nella tenda centrale dell’accampamento, Dan si accigliò e guardò di malumore la radio. La tenda centrale era un guazzabuglio di apparecchi radio, videoschermi, unità di cottura, scatoloni di provviste, tavoli e sedie pieghevoli, e cinque persone affaccendate.

Dan sentiva all’esterno la furia crescente del vento. Una delle ragazze sedute a un banco d’analisi alzò gli occhi al tetto della cupola trasparente; la plastica s’increspava al vento, con un crepitìo che nessuno di quelli che stavano nella tenda aveva mai udito prima. C’erano voluti giorni perché si abituassero al vento e a tutti i rumori di un mondo aperto.

E ora questi rumori non erano soltanto nuovi, ma anche spaventosi.

— Nancy, Tania, Vic… voi tre mettetevi la tuta e tornate sull’astronave. Io e te, Ross, resteremo qui. Vic, portati dietro l’ultimo barile di deuterio.

— Ma non è neanche pieno a metà — obiettò Vic.

— Lo so, ma è meglio portarlo sull’astronave — disse Dan. — Non si può prevedere quali danni farà il temporale, e il deuterio è troppo prezioso.

Vic annuì.

— Mettiti la tuta — ripeté Dan. — Io e Ross ci fermiamo qui.

Ross Cranston gli lanciò un’occhiata ma non disse niente. Non gli faceva piacere venire dopo un barile d’acciaio inossidabile alto un metro, anche se sapeva che il deuterio era davvero più importante, per l’astronave, di un qualsiasi operatore meccanografico.

Le due ragazze e Vic impiegarono qualche minuto a prepararsi, perché l’alta gravità rallentava i movimenti. Poi Vic prese il barile per i manici, e gli cedettero leggermente le ginocchia.

— Ce la fai? — chiese Dan.

— Sì. — Da sotto il casco, la voce di Vic arrivava smorzata.

I tre attraversarono la camera di compensazione e si avviarono pesantemente, nella sabbia e nella ghiaia agitate dal vento, verso la sagoma snella dell’aviorazzo. Dan rimase a guardarli da dietro la plastica trasparente della tenda. Le due ragazze presero un manico del barile ciascuna e aiutarono Vic a portarlo.

Dan si voltò e vide che Ross era già al portello del rifugio sotterraneo.

— Io mi metto la tuta e vado a controllare gli impianti di raffinazione — gli disse. Dovette alzare la voce per farsi sentire al di sopra dell’urlo del vento, benché Ross fosse solo a pochi metri.

Ross annuì, visibilmente infelice.

— Tu sta’ alla radio, mentre sono fuori — disse Dan, allungando una mano verso la tuta.

Ross fece una faccia visibilmente preoccupata, ma annuì ancora.

Ha paura, pensò Dan. Ha paura del temporale, e ha paura che mi succeda qualcosa, perché allora lui sarebbe costretto a venire fuori ad aiutarmi.

Nessuno dei due si trovava sul pianeta quando c’era stato il primo uragano, quattro settimane prima. Il vento aveva rovesciato l’antenna di comunicazione sulla tenda centrale, e due persone erano rimaste gravemente ferite. In seguito a questo incidente l’antenna era stata spostata lontano dal campo, ed era stato scavato il rifugio sotterraneo.

Mentre Dan finiva di sistemarsi la tuta, i motori del razzo si accesero con un rombo che superò perfino la furia crescente del vento. Dan, col casco in mano, stette a guardare la scialuppa che avanzava sulle ruote d’atterraggio, e poi, acquistata velocità, oltrepassava urlando la tenda in direzione del mare. La sagoma a delta si perse nel luccicante calore dei gas di scarico ma, socchiudendo gli occhi, Dan riuscì a distinguere il muso che si sollevava. Il razzo fece ancora un breve tratto sulle ruote di coda, poi si alzò in volo come una freccia, sparandosi dritto in aria contro il cupo ammasso di nubi.

Dopo neanche un minuto, il suo rombo era svanito, e restava soltanto il muggito del vento e il crepitìo della plastica della tenda.

Mettendosi il casco, Dan pensò che c’era una bella differenza tra vedere un temporale su un videonastro e trovarcisi in mezzo.

Controllò la radio della tuta. — Vado, Ross.

— Okay.

Dan si voltò e vide Ross tetro e spaventato.

— Se scendi nel rifugio avvertimi prima di lasciare la radio. Non voglio trovarmi là fuori abbandonato a me stesso.

— Sta’ tranquillo.

Dan aprì il portello interno della camera di compensazione. E mentre la camera si sigillava e pompava buona aria respirabile, tentò di calmarsi.

Non era spaventato; era euforico, eccitato. E questo era pericoloso, lo sapeva. I paurosi, come Ross, non corrono rischi. Lui invece era felice di essere sulla superficie del pianeta, di trovarsi su un nuovo mondo e lo eccitava l’idea di affrontarne i pericoli. L’uragano, il vento, il mare infuriato, la polvere e la sabbia che oscuravano l’aria, le nuvole che si facevano sempre più cupe… tutto gli dava un senso di libertà e d’avventura. Era tutt’altra cosa che l’astronave. Tutt’altra cosa che quel mondo quieto e ordinato dove tutto si svolgeva secondo programmi stabiliti, e ogni giorno era uguale all’altro. Questa sì che era vita!

Le luci della camera di compensazione passarono al verde. Dan raggiunse il portello esterno e girò lentamente, molto lentamente, il volante di comando. Il portello si aprì, ed entrò una folata di vento denso di sabbia.

Dan dovette appoggiarsi con tutto il peso contro il portello, per aprirlo abbastanza da poter uscire. I suoi muscoli cominciavano già ad avvertire la fatica. L’alta gravità rendeva tutto più pesante: la tuta, il portello che non voleva aprirsi. Fu uno sforzo sollevare un piede dal pavimento della camera pressurizzata e posarlo sul suolo sabbioso.

Il vento colse Dan di sorpresa. L’aveva sentito urlare, ma ora ne sperimentava la forza. Pur dentro la tuta, gli sembrava di ricevere gli schiaffi di un gigante, spintoni bruschi che minacciavano di farlo cadere.

Sorrise.

Voltò le spalle al vento e si avviò, rasentando la tenda, verso l’ammasso di sagome metalliche della raffineria che avevano ormai perso la loro lucentezza.

Dopo settimane di esposizione all’atmosfera corrosiva del pianeta, il metallo non brillava più, e le piogge l’avevano scalfito e ammaccato. Ma dentro tutto funzionava, si disse Dan, guardando i tubi che arrivavano al mare. Si prende l’acqua, si estrae il deuterio, e quel che resta, il 99,97 per cento, si restituisce. Non vogliamo molto da te, disse silenziosamente Dan al mare. Solo un esiguo 0,03 per cento. Quanto ci serve per vivere.

Uno stridore metallico lo fece sussultare violentemente. Impacciato dal casco, per vedere quello che succedeva dovette voltarsi completamente e inclinare all’indietro tutta la persona.

Uno dei pannelli delle batterie solari, la serie di pile al silicone che trasformavano la luce solare in energia elettrica, si era staccato dal tetto della torre di deposito della raffineria. E scivolava da una cupola all’altra degli impianti di raffinazione, sbattendo, stridendo… Arrivato in fondo, fu preso dal vento e volteggiò come un’enorme foglia dentellata, sparendo nelle nubi di polvere che si addensavano dappertutto.

— Tanto non servivi a niente! — urlò Dan. Le batterie solari erano state corrose quasi subito dall’aria impregnata di zolfo, e per fornire l’energia alla base si era dovuto portar giù dall’astronave un piccolo generatore. Il resto dell’attrezzatura in quella parte dell’accampamento pareva in ordine perfetto. Se anche i pannelli solari vogliono staccarsi tutti, pensò Dan, non fa niente. Purché non squarcino la tenda.

Cominciavano a tremargli le gambe per lo sforzo, ma si costrinse ad avanzare lungo il lato della raffineria. Appena svoltato l’angolo, il vento lo investì con una forza tale che per poco non lo fece cadere all’indietro. Quasi piegato in due, avanzò ancora.

Si stava facendo molto buio e il vento urlava selvaggiamente. Le nuvole di polvere erano tanto fitte che quasi non ci si vedeva a un passo.

Un lampo guizzò sul mare, illuminando per un brevissimo istante l’intera scena. Dan lo sentì crepitare nella cuffia, e provò un’irragionevole fitta di terrore.

Poi venne il rombo del tuono, lontano ma minaccioso Dan continuò ad avanzare.

Nell’oscurità, nella polvere, non riusciva a vedere l’antenna radio. Poi ci fu un altro lampo e la vide, che ondeggiava come un gigantesco albero spoglio. Ondeggiava ma resisteva, stava in piedi. I nuovi pioli d’ancoraggio facevano il loro dovere.

Una folata di vento improvvisa gli sollevò uno stivale da terra. Dan oscillò un momento, riuscì con un tremendo sforzo a mantenere l’equilibrio e piantò di nuovo il piede sul terreno.

— Ross? — chiamò al microfono nel casco. Nessuna risposta.

— Ross! Sei lì? Torno indietro… arrivo tra un minuto. Silenzio. Solo il crepitìo dei lampi nella cuffia. Ross si era rintanato nel rifugio, evidentemente.

Piegato in due, Dan avanzò lentamente. Ogni passo era uno sforzo doloroso. Un altro lacerante stridore, e, con la coda dell’occhio, Dan vide che un altro dei pannelli solari si era staccato ed era caduto a terra, dove procedeva rimbalzando come un giocattolo sfuggito a un bambino.

Poi ci fu un rumore ancora più sinistro. Un gemito straziante, da far rizzare i capelli in testa, come se il pianeta stesso si squarciasse. Dan alzò gli occhi alle cupole metalliche e alle torri al suo fianco, ma non vide niente che…

Il lamento si ripeté. E poi, debole, si udì un suono… Un rumore morbido, come di plastica… la tenda!

Dan si slanciò forsennatamente avanti. Incespicò e cadde a faccia in giù, ma non si fermò. Per un tratto avanzò carponi, poi, faticosamente, si rimise in piedi. La furia del vento continuava a crescere, diventava intollerabile.

Aggrappandosi a un piolo della scaletta esterna della torre che aveva di fianco, Dan si riposò un momento, squassato dalla veemenza folle del vento. Poi riprese a camminare. Svoltò l’angolo, e allora vide che cos’era quel gemito.

La tenda era crollata e sbatteva sul terreno come un mostruoso pterodattilo moribondo. Dan non vide più la camera di compressione, non riuscì a capire se Ross aveva fatto in tempo a rifugiarsi sottoterra. Se non ce l’aveva fatta, era là dentro morto.

Una sola cosa era certa. Dan non poteva più sperare di mettersi in salvo nella tenda.

L’uragano urlò trionfante.


Nel centro d’osservazione dell’astronave, al mozzo, l’unico rumore era il sussurro dei ventilatori.

Larry, che si librava davanti alla parete trasparente della cupola di vetroplastica, stava guardando la grande massa curva del pianeta. Un’enorme macchia giallobruna nascondeva parte della superficie: l’uragano.

Larry puntò appena le dita sulla plastica, ancorandosi.

Aveva un telefono a parete a portata di mano, ma non voleva usarlo, non voleva sapere quello che stava succedendo.

— Dan è sempre laggiù.

Larry riconobbe, senza bisogno di voltarsi, la voce di Valery. La guardò: nella luce dorata che arrivava fino a loro dal pianeta, sembrava un’antica dea, sfolgorante nella semioscurità del centro d’osservazione. La faccia, però, era anche troppo umana, segnata dall’ansia e dalla paura.

— La scialuppa è arrivata un quarto d’ora fa — disse Larry. — Lastella s’è portato dietro le due ragazze e Vic O’Malley. Dan e Cranston si sono fermati sul pianeta. Dan ha voluto che non si lasciasse a terra un solo grammo di deuterio.

— E lui ora è in mezzo all’uragano. — La voce di Valery era calma, ma Larry sentiva un inizio di tremito.

— Hanno il rifugio sotterraneo. Non gli succederà niente.

— Ma ha dato notizie? Sei sicuro…?

Larry indicò col pollice la nuvola scura. — Non si può trasmettere con quella roba. Abbiamo tentato tutte le frequenze. Ci sono troppe interferenze.

— Forse è morto.

— No. È coraggioso e in gamba. Se la caverà benissimo.

Valery fissò lo sguardo sulla turbinante nuvola color melma. — Sembra viva… un mostro famelico… — Allungò una mano verso Larry. — Non puoi proprio fare niente? Non puoi mandare la scialuppa a prenderlo?

Larry la prese fra le braccia con tenerezza. — Non possiamo fare niente. Solo aspettare. La scialuppa non potrebbe atterrare nell’uragano. Possiamo solo aspettare. — E intanto si chiedeva: se ci fossi io, laggiù, e Dan fosse qui al sicuro, sarebbe così preoccupata?

— È terribile non poter far niente — disse Valery.

— Lo so, lo so.

— Quanto durerà l’uragano?

Larry si strinse nelle spalle. — È impossibile dirlo. Non abbiamo abbastanza dati sui fenomeni meteorologici del pianeta. L’ultimo è durato due giorni. Ma non sappiamo se era eccezionalmente lungo o… — Lasciò in sospeso la frase.

— O eccezionalmente breve — finì Valery. — Questo sembra anche peggio, eh?

Larry non rispose.

Valery non staccava gli occhi dal pianeta.

— Oh, Larry, se morisse…

— Sarà colpa mia.

Valery si voltò bruscamente, rimbalzando via dalla parete. — Colpa tua? E perché?

— Sono stato io a mandarlo laggiù, no?

— È il suo lavoro. E lui ci teneva ad andare.

— Avrei potuto impedirglielo — disse Larry. — Avrei potuto mandare un altro al suo posto. Io sapevo che era pericoloso.

Valery fluttuava a mezz’aria descrivendo un piccolo semicerchio attorno a Larry, che per vederla meglio si voltò con le spalle alla parete.

— Tu volevi che rischiasse di morire?

Larry chiuse gli occhi e cercò la risposta dentro di sé. — No.

— Almeno consciamente.

— Cioè?

— Sapevi che avrebbe corso pericoli enormi.

Larry annuì. — Sì, e ho pensato anche di andare giù con lui… ma quello che so fare io, laggiù non è richiesto. Potevo occupare dello spazio utile nella scialuppa e al campo solamente per dimostrare che ero coraggioso quanto Dan?

— Però, nell’intimo, sapevi che sarebbe potuto rimanere ucciso.

— Certo. Ma questo non vuol dire… — Larry cominciò a capire dove Valery voleva arrivare. — Val, non penserai che… non puoi credere una cosa simile!

— Infatti non la credo — disse Valery. Ma il tono era incerto, poco convincente.

Certo che se lui morisse, tutti i miei problemi sarebbero risolti, pensò Larry. Ma subito un’altra parte della sua mente urlò: ma allora diventeresti un assassino, che tu l’abbia voluto o no!

Valery parve rendersi conto del tumulto che l’agitava. Gli prese una mano e lo attirò contro la parete di vetroplastica, fluttuando lentamente con lui nella grande stanza buia.

— Hai ragione tu — gli disse piano. — È inutile tormentarci. Dobbiamo solo aspettare.

— Val… non credere che io lo desiderassi. Non è così, te l’assicuro.

— Lo so — disse Val, dolcemente. — Lo so.

Scesero sul pavimento, e le calzature dalla suola di velcro li trattennero giù, facendoli aderire leggermente al tappeto.

— Visto che siamo qui — disse Valery, lasciandogli la mano e andando verso la scrivania e gli strumenti al centro della stanza, — ti faccio vedere quello che ho scoperto di nuovo sulle altre stelle.

Vuole cambiare discorso, pensò Larry. Cerca di evitare che pensiamo a Dan.

Val si sedette alla scrivania e sfiorò alcuni tasti sul pannello che aveva davanti. Sul videoschermo apparvero delle immagini.

Larry non vide altro che minuscoli puntini bianchi. Le stelle erano più grandi e più nitide, in certe immagini erano luminosissime. Ma i pianeti erano tutti informi macchioline di luce.

Alla ventesima immagine, Valery scosse la testa. — Per ora non ho niente di meglio. C’è da disperarsi. Nessun pianeta che abbia una vaga somiglianza con la Terra.

Larry la guardò. — E tutti questi…

— Sono in gran parte giganti gassosi, come Giove. O palle di roccia, come la Luna.

— Sei sicura?

Val si passò una mano nei capelli. — Be’, li sto ancora studiando, sto raccogliendo dati più precisi… ma ho poche speranze.

Larry si appoggiò all’orlo della scrivania. — E questo vale sia per Epsilon Indi sia per Epsilon Eridani?

— Sì. Comincio a temere che non ci sia un’alternativa a questo pianeta, Larry.

Per un momento Larry tacque, assorto. — E quando… quando riferirai al Consiglio sui tuoi studi?

— Quando avrò dati più precisi — rispose Valery. — Non ho mostrato a nessuno queste immagini… solo a te, per ora. Fra una settimana o due, potrò fare una relazione al Consiglio.

Larry annuì, senza dire niente.

Valery allungò una mano per spegnere il video. — Oddio! — Tirò indietro la mano come se il tasto scottasse. — Per poco non premevo il tasto di cancellazione. Pensa che disastro.

— Eh?

— Tutti i miei preziosi studi sarebbero stati cancellati dalla memoria dell’elaboratore. Mesi di lavoro. — Val premette il tasto giusto, spegnendo lo schermo. Poi guardò Larry e aggiunse: — Gli unici due posti dove sono reperibili i risultati dei miei studi sono la memoria della banca dei dati dell’elaboratore… e la mia testa.

Larry la guardò, annuì, e ancora una volta rimase in silenzio.

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