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La luce dell’indicatore salì velocemente fino all’ultimo pulsante, l’ascensore si arrestò con un soffio, e Phil uscì dalla porta scorrevole in un piccolo ingresso, coperto da un folto tappeto simile a un prato grigio. Da una delle pareti, una voce femminile, piena di fascino, mormorò: — Buona sera. Avete un appuntamento?

— Uh — fece Phil, piuttosto sorpreso per il solo fatto di riuscire a parlare.

— Avete un appuntamento? — ripeté la parete. — Rispondete con un sì o con un no, prego.

— Sì — disse Phil.

— Volete dirmi il vostro nome?

— Phil Gish. — Non appena ebbe pronunciato quelle parole, gli venne il dubbio che forse doveva nominare Jack Jones, ma la parete, dopo un breve ronzio soffocato, disse: — Piacere, signor Gish. Accomodatevi, prego.

Nella parete apparve una surrealistica porta a forma di pera. Phil entrò. Un braccio sinuoso, liscio e lucente come un serpente, spuntò di fianco a lui e indicò una sedia, col gesto elegante di una hostess che abbia studiato danza.

— Volete accomodarvi? — suggerì la parete. — Il dottor Romadka arriverà fra pochi istanti.

Phil inghiottì. Aveva la sensazione che se si fosse azzardato a superare la zona che gli era stata indicata, il braccio lo avrebbe fermato senza complimenti. Anche se probabilmente avrebbe accompagnato il gesto con un gentile “Vogliate scusarmi”, o magari un “Fai il bravo, Phil”.

Decise di ubbidire e di sedersi. La parete disse: — Grazie. — Allora tornò ad alzarsi. La parete disse: — Desiderate? — con una lieve nota d’impazienza. Si risedette. — Grazie — ripeté la parete.

La stanza era buia, ovattata e silenziosa. Evidentemente la maggior parte dei pazienti del dottor Romadka facevano sogni lussuosi. L’inevitabile scrivania era a forma di S, come un divano per innamorati. In giro non c’erano avvisi pubblicitari: un sicuro segno di ricchezza. Su una parte spiccava un grande disegno rotondo, forse copiato da qualche originale greco, che inquietò un poco Phil con la sua allusione a ninfe e satiri. Distolse rapidamente lo sguardo e diede un’occhiata circolare alla stanza; al di là di un arco si scorgeva l’inizio di una scala. Concluse che il dottor Romadka doveva possedere anche un attico.

Improvvisamente udì delle voci adirate, di un uomo e di una ragazza. Quest’ultima gettò un grido acuto, pieno di odio. Poi, da qualche parte, una porta sbatté violentemente, e poco dopo un uomo scese dalle scale senza muovere i piedi. Phil ne dedusse che doveva trattarsi di una scala mobile.

Il dottor Romadka era obeso, calvo e sorridente. Sulla guancia aveva quattro graffi profondi, recentissimi, che lui ignorava del tutto, aspettandosi evidentemente altrettanto da Phil. Gli fece cenno di accomodarsi. Si sedettero e si guardarono attraverso il piano ricurvo e lucido della scrivania.

Lo psichiatra sorrise. — Bene, signor Gish? Jack Jones mi ha fatto il vostro nome, e dal momento che sono Sacheverell e Mary a pagare, per me va bene lo stesso. Oh, Sacheverell e Mary sono il signore e la signora Akeley, gli amici di Jack Jones. Credevo che lo sapeste. Tra parentesi, siete in ritardo di un’ora.

Una goccia di sangue cadde sulla camicia, allargandosi.

Phil rabbrividì, poi riuscì finalmente a parlare. — Ero occupato a impazzire.

Lo psichiatra annuì. — Sembrate un po’ sconvolto.

— Un po’?

— Insomma… — fece l’altro, stringendosi nelle spalle come per scusarsi della sua insufficiente capacità descrittiva. Poi continuò: — Non dovete essere sorpreso di impazzire, come dite voi, signor Gish… posso chiamarvi Phil? Di questi tempi è la regola, piuttosto che l’eccezione, anche se il fatto che voi lo ammettiate è abbastanza fuori del comune. Da più di un secolo gli americani stanno vivendo in una specie di pazzia collettiva, di schizofrenia di massa, paragonabile soltanto alla mania olandese per i tulipani, alla caccia alle streghe, al ballo di San Vito, al trotzkismo e alle crociate. Fino al 1950 la nostra avrebbe potuto essere chiamata la Febbre dell’Automobile, ma ora anche la più fervida immaginazione non saprebbe trovare una definizione… Sto scrivendo un libro controcorrente su questo argomento. Non che l’attuale pazzia collettiva sia qualcosa di misterioso o straordinario. Quali altri risultati ci si potevano aspettare da una società, come quella americana, che da un lato sopravvaluta la sicurezza, la censura, un immaginario idealismo messianico e il sacrificio in guerra, e dall’altro manifesta un’insaziabile avidità per il possesso, la competizione spietata e aggressiva, il sadismo maschilista, il disprezzo per i genitori e lo Stato, e una sessualità assurdamente sovrastimolata?

La voce del dottore si fece più alta e stridente, mentre gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite, come se la sua indignazione nascesse anche da qualcosa di personale. Ma subito dopo ritornò alla sua posa cortese, professionale.

— Ora, Phil, esaminiamo come questa società malata vi ha contagiato. Forse vi sorprenderà, ma non useremo nessuna di quelle tecniche moderne, come l’elettrosonno, la cerebrofotografia o la terapia situazionale con un’amante-robot bionda. Noi faremo semplicemente quello che avrebbero fatto i nostri trisavoli: parleremo. Ci metteremo a nostro agio. Questa scrivania è stata costruita in modo che possiamo stare vicini, senza però essere obbligati a guardarci negli occhi. Volete fumare? Benissimo! Fate pure! Ora cominciamo dal principio. Parlatemi della vostra vita.

Phil inghiottì. — Mi scusi, dottor Romadka, ma preferirei farlo dopo. Ora vorrei raccontarvi della mia esperienza, voglio dire, delle allucinazioni che ho appena avuto e che mi hanno convinto di essere impazzito, e poi desidero che mi diciate qualcosa in proposito, cioè, che le interpretiate, le psicoanalizziate o qualcosa del genere.

L’altro alzò le spalle, tutto contento. — È un inizio che vale come un altro. Dite pure.

Phil gli raccontò quello che aveva visto attraverso la finestra semioscurata. Dovette ammettere, pieno di vergogna e sotto il pungolo esperto dell’analista, di avere usato spesso la finestra come punto di osservazione. Quando poi si trattò di raccontare l’allucinazione vera e propria, si accorse che il ricordo lo faceva ancora tremare di paura, ma alla fine riuscì a dire tutto.

Il dottor Romadka sembrava estasiato, come se gli avessero mostrato un prezioso capolavoro artistico. — Meraviglioso! — commentò. — Raramente ho incontrato un simbolo così perfetto degli oscuri istinti sessuali della nostra società. Un satiro, o meglio una satiressa, pronta a dispensare amore e insieme a calpestare selvaggiamente. Mary ne sarebbe affascinata, ne sono sicuro, e insisterebbe per farne una delle sue bambole. — Sospirò, poi si riscosse dal suo rapimento estetico. — Naturalmente, Phil, non posso aspettarmi ora come ora che siate interessato al lato artistico della vostra attività inconscia. Voi volete sapere le cause, le origini. Ditemi, avete mai visto un cavallo?

— Una volta, al circo — ammise Phil.

— La mitologia greca rientra nei vostri interessi?

— Che io sappia no.

— Vi ricordate di aver visto lo spettacolo televisivo La puledra o la sexycommedia musicale La cavalla in amore, oppure l’antico film Fantasia?

Phil scosse la testa. L’analista annuì con aria pensosa. — Avete detto che il pelo le ricopriva tutto il busto, a partire da sotto i seni? E che le gambe erano dritte e terminavano con degli zoccoli?

— Non esattamente — lo corresse Phil, e descrisse i ciuffetti di pelo sulle caviglie e i garretti sottili come polsi.

— Ma a parte queste particolarità era esattamente identica a una ragazza normale? Escluse le orecchie da fauno?

— No — rispose Phil aggrottando le sopracciglia, dopo averci pensato un attimo. — Aveva delle cosce molto grosse, robuste, come se fossero fatte per galoppare su grandi distanze. E aveva le braccia piuttosto lunghe, anche se in quel momento non lo avevo notato. La parte superiore del corpo era piegata un poco in avanti, non so se rendo l’idea, ed era bilanciata da un sedere notevole, anche se non proprio grosso.

— Magnifico! — esclamò l’analista. — Non solo avete fornito alla vostra allucinazione delle perfette gambe da cavallo, ma avete anche compiuto gli adattamenti anatomici necessari a un bipede. — Sorrise fra sé, come perso nell’ammirazione della potenza creativa dell’inconscio.

— Ma tutto questo cosa significa per il mio stato mentale? — chiese Phil. Se non fosse stato per la preoccupazione, l’atteggiamento del dottore lo avrebbe fortemente irritato. — Cosa c’è in me che non va?

Il dottor Romadka si riscosse dai suoi sogni ad occhi aperti con un sorriso di scusa. — Cosa c’è nell’America che non va? — chiese amaramente. — È ancora troppo presto per arrivare a delle conclusioni, Phil; o meglio: per aiutarvi a raggiungere le vostre conclusioni. Naturalmente la proiezione visuale creata dal vostro inconscio presenta alcuni riferimenti interessanti.

— Quali? — chiese Phil. — Forse non sono stato abbastanza chiaro, ma io sono molto preoccupato per quanto è successo. Non riesco a togliermelo dalla mente.

Il dottor Romadka sorrise, e alzò le spalle. — Forse un tentativo d’interpretazione potrebbe darvi sollievo. Ma dovete ricordare che è un’analisi improvvisata e che potrebbe anche essere sbagliata. Vediamo. I primi elementi che emergono sono la paura di esperienze sessuali a cui cercate di attribuire un aspetto terrificante; lo sforzo di autoeffeminarvi mediante l’invenzione di un oggetto sessuale selvaggio, dotato di zoccoli; il tentativo di unire il sesso con una bestia che calpesta, che infligge dolore (forse un’autopunizione per la vostra attività di voyeur). Tutto ciò si adegua perfettamente alla mitologia classica delle ninfe e dei loro compagni naturali, i satiri dagli zoccoli caprini. Per non parlare dei centauri, che come saprete erano spesso maestri degli uomini. — L’analista aggrottò le sopracciglia. — È possibile che sia stata la proiezione visiva del desiderio di ricevere ammaestramenti amorosi. Ma immagino che, come sempre, i significati più nascosti siano quelli più importanti. Mi permettete di azzardare una supposizione su di voi?

Phil annuì.

— Siete un impiegato in perenne lotta con i robot?

— Sì — disse Phil esterrefatto.

— Una deduzione piuttosto elementare — disse l’analista modestamente, ma con uno scintillio compiaciuto negli occhi. — In questo caso dobbiamo sospettare la presenza di un altro elemento mitologico. Conoscete la storia di Pandora? C’è un particolare interessante in essa. Pandora, mandata dagli dèi sulla terra per portare all’umanità un vaso colmo di tutti i mali, non era una ragazza qualunque. No, era una fanciulla di metallo, forgiata da Efeso su ordine di Zeus. In altre parole, un automa, un robot, che porta, in questo caso, i mali della Seconda Rivoluzione Industriale, vale a dire l’introduzione dei calcolatori elettronici e dei sensori.

— Ma Pandora aveva gli zoccoli? — chiese Phil un po’ dubbioso.

Il dottor Romadka respinse l’obiezione con un gesto della mano. — Probabilmente il vostro inconscio ha unito anche la leggenda araba del cavallo meccanico. L’inconscio è molto artistico in queste cose, caro Phil. Se solo sapeste quanto è fantasioso e creativo non vi porreste certe domande.

— Ma tutto questo cosa c’entra col sesso? — chiese Phil.

L’analista si strinse nelle spalle. — Forse niente. Una proiezione visuale, come un sogno, può significare moltissime cose insieme. Vi ho avvertito che questa era un’analisi improvvisata. L’abbiamo sviluppata fin dove era possibile.

— Sentite — disse Phil dopo un po’, con una certa esitazione — le cose che avete detto sono molto interessanti, e alcune di esse mi hanno veramente colpito. Ma… spero che non abbiate obiezioni… c’è un’altra cosa che mi preoccupa.

— Dite pure.

Phil divenne ancora più diffidente. Alla fine parlò con uno sforzo. — Dottore, c’è qualche possibilità che quello che ho visto possa essere reale? Una minima possibilità?

L’analista rise amabilmente. — Neanche una — disse con assoluta certezza. — Cosa vi preoccupa, Phil? Credete che gli dèi greci e le loro creature possano essersi materializzate in qualche modo?

— Qualcosa del genere, immagino — disse Phil senza convinzione.

Il dottor Romadka si chinò verso di lui, appoggiando un gomito sulla scrivania. — Se aveste solo una pallida idea delle cose che la gente mi racconta da questa scrivania, dei normali nevrotici, voglio dire, non sareste così impressionato per la vostra esperienza. C’è una donna, per esempio, che vede sempre dei ragni lunari negli angoli. Un uomo invece scorge continuamente una ragazza vestita di una pelliccia di visone aderente che le copre anche la faccia. E un altro che si sveglia sempre nel mezzo della notte perfettamente convinto di essere a letto con… No, questo non dovrei dirvelo.

— Ma io sono sicuro di averla vista — insistette Phil. — Non era un’ombra, o un’immagine vaga.

Il dottor Romadka sorrise. — Quanta gente ha visto i dischi volanti, Phil? Inclusi astronomi e scienziati nucleari. Quanti hanno visto dei soldati russi, o dei missili russi che facevano capolino alla finestra della loro camera da letto? Quanti sostenevano di avere visto Roosevelt, e di aver parlato con lui, il giorno della Grande Paura durante la Seconda Guerra Atomica? E poi, Phil, le ombre c’erano: avete detto che la finestra polarizzante non era al massimo della trasparenza. Inoltre avevate preso troppe pillole di sonnifero, l’avete ammesso voi stesso, e a volte fanno degli strani scherzi. E per quanto riguarda gli zoccoli, non avete mai pensato che i tacchi alti sono come dei piccoli, crudeli zoccoli? Chiunque abbia visto delle donne mentre lottano può confermarvelo. E la pettinatura della ragazza, il suo vestito simile al manto di un cavallo pezzato, il rumore del tip-tap che avevate sentito… Non vi rendete conto che il vostro inconscio avrebbe potuto mescolare tutte queste cose, e migliaia di altre, in un’immagine che, nelle vostre condizioni di tensione, eravate prontissimo ad accettare?

— Penso che sia così — ammise Phil, abbastanza sollevato. Ma non per molto.

— C’è un’altra cosa — disse raddrizzandosi di scatto. — La cosa che ho supposto di vedere questo pomeriggio. Ed era anche molto più reale della satiressa. Ci sono stato insieme per un’ora. L’ho anche toccato.

— E cos’era? — chiese gentilmente l’analista, abbozzando un sorriso condiscendente.

— Un gatto verde — disse Phil.

Visto che l’analista non rispondeva, Phil lo guardò. Ma il dottor Romadka lo stava semplicemente fissando. I quattro graffi con il sangue raggrumato spiccavano sul suo volto impallidito.

— Un gatto verde, ho detto — ripeté Phil.

— Un gatto verde? — La voce dell’analista sembrava venire da lontano.

— Sì.

— Ummm — osservò l’analista, sprofondando ulteriormente nella poltrona, come se cercasse di raggiungere qualcosa con il piede.

Un campanello emise una nota musicale. L’analista afferrò il telefono. Il suo viso assunse immediatamente un’espressione irata. Parlò con pause piene di significato, durante le quali si accigliava. — Sì… No. Non posso. Assolutamente non posso, vi dico… Non potete farlo, sareste arrestata… Molto bene, allora, ma solo per cinque minuti, avete capito? Vi aspetto.

Riappese il telefono e si rivolse a Phil con un’espressione disperata, che la sua calvizie e i grandi occhi rendevano comica. — È una circostanza molto imbarazzante — disse. — Una mia ex-paziente insiste per vedermi subito, minaccia di fare una scenata all’ingresso se non la ricevo. E lo farebbe. Abbiamo avuto delle discussioni piuttosto violente prima che interrompesse le sedute. Non ho altra scelta che vederla. So come calmarla almeno per il momento, giusto per farla tornare a casa.

— È meglio che vada — disse Phil alzandosi.

— Assolutamente no — protestò il dottor Romadka — Voglio approfondire il vostro caso questa sera stessa. L’ultimo particolare a cui avete accennato ha aperto delle prospettive nuove! No, aspettate cinque minuti nella stanza accanto, dieci al massimo, finché non mi sarò liberato di lei.

— Credo che sia meglio che me ne vada — disse Phil. — Se non vi spiace.

— È impossibile — esclamò l’analista prendendolo fermamente per un braccio. — È gelosissima di tutti gli altri miei pazienti e senza dubbio vi salterebbe addosso nell’istante stesso in cui usciste dall’ascensore. Ve l’ho detto che porta una pistola a spruzzo laminata in oro, piena di acido solforico? È uno dei suoi trucchi. L’unica altra via d’uscita è il montacarichi, ma non è certo fatto per essere usato dagli uomini. No — continuò accompagnando Phil fino a una porta sotto l’arco, ma senza entrare lui stesso — aspettatemi qui per cinque minuti. Ci sono un sacco di cose da leggere, da guardare, da ascoltare… Non è che avrete molto tempo, comunque. Fidatevi di me, Phil. È tutto sotto controllo.

La porta si chiuse. Una rapida occhiata in giro gli mostrò scaffali pieni di libri e di libronastri, un divano, un tavolo in mezzo alla stanza e uno specchio sul soffitto. Poi si ricordò di aver lasciato le sigarette sulla scrivania. Premette il bottone di apertura della porta. Non successe niente. Lo premette di nuovo.

Il dottor Romadka non poteva essersi allontanato più di cinque passi. Cominciò a battere i pugni sulla parete.

— Dottor Romadka — chiamò. — Dottor Romadka!

Le luci si spensero.

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