Mentre la porta dell’ascensore si chiudeva alle sue spalle, e iniziava la faticosa salita dal ventottesimo al ventinovesimo piano, Phil si stava già rammaricando di non aver accettato l’invito di Phoebe Filmer a bere qualcosa nella sua stanza. Quando lei gli si era avvicinata nell’ingresso, per ringraziarlo di come l’aveva salvata al Tan Jet, l’idea di stare in compagnia di un essere umano gli era sembrata insopportabile. Ma ora che soltanto il vuoto echeggiante di una rampa di scale lo separava dalla solitudine della sua stanza, si accorse all’improvviso che la cosa di cui più aveva bisogno era proprio la compagnia.
E pensare che solo il giorno prima era uscito dalla sua stanza pieno di energie, pronto ad affrontare ogni avventura. Ne aveva avute tante di avventure, ed era stato preso a schiaffi dalla vita in modo tale che si sentiva ancora tutto frastornato. Certe volte, durante quelle incredibili ventiquattro ore, gli era sembrato che la sua intera personalità stesse cambiando, che si stesse trasformando nell’intrepido ma sensibile avventuriero e amante che aveva sempre sognato di essere.
Invece eccolo lì, che si trascinava stancamente verso la sua stanza, dopo essersi comportato un’ennesima volta come un codardo e aver detto “No” quando invece soltanto dieci secondi dopo avrebbe desiderato con tutto il cuore di aver detto “Sì”. Anzi, a giudicare dalla velocità con cui stava ricadendo nelle sue vecchie abitudini, c’era da aspettarsi che passasse il resto della serata a spiare Phoebe Filmer dalla finestra oscurata.
Certo, poteva scusarsi dicendo che non c’era alcuna ragione per pensare tanto a una ragazza di ordinaria bellezza, quando aveva appena incontrato una donna così perversamente desiderabile come Mitzie Romadka e aveva visto un incanto come Dora Pannes, per non parlare di personaggi grotteschi ma interessanti come Juno Jones e Mary Akeley. Ma queste erano tutte scuse, e lui lo sapeva. Phoebe Filmer era più alla sua portata, benché sempre non abbastanza per lui.
Oppure poteva dirsi, ancora una volta, che se soltanto Lucky fosse stato al suo fianco, sarebbe tornato ad essere coraggioso e intraprendente. Ma neppure questo era vero. La realtà era che tutto stava diventando più grande di lui. Voleva il gatto verde, certo, ma lo voleva come un animaletto domestico, come una mascotte, un portafortuna, qualcosa che gli dormisse ai piedi del letto. Non un mostro misterioso, un mutante che lo coinvolgeva con lottatori, fanatici religiosi, psicoanalisti dal grilletto facile, ragazze con gli artigli, banditi, scienziati di fama mondiale, telepati, centrali del vizio, assalti dell’FBL, criminali nazionali e internazionali, e un sacco di altre cose che erano decisamente troppo grandi per Phil Gish.
Disse la parola in codice che faceva aprire la sua porta, entrò e stava per chiudere, quando si accorse di non essere solo.
A carponi sul pavimento, apparentemente per guardare sotto il letto, ma ora con il viso rivolto nella sua direzione, c’era la ragazza dai capelli neri e dall’aspetto faunesco della finestra di fronte. Si sentì gelare il sangue. Con la mano stringeva la maniglia della porta non ancora chiusa, pronto a spalancarla e a scappare.
Lei si alzò lentamente, sorridendo. — Salve — disse con voce calda, in un accento straniero che Phil non riuscì a identificare. — Ho perso una cosa… penso che forse è nascosta qui. — Si lisciò il vestito nero a disegni grigi che le aveva visto togliersi la sera prima. Poi si passò una mano fra i capelli e lungo la coda di cavallo.
— Cosa? — chiese Phil con voce rauca, stringendo ancora la maniglia. Ogni volta che la guardava negli occhi, non poteva fare a meno di abbassare immediatamente lo sguardo alle scarpe alte venti centimetri che portava ai piedi.
— Sì — rispose lei — un… come si chiama… un micio. — Poi, dopo una pausa: — Vi comportate come se conosceste me. — Il suo sorriso si allargò e fece un gesto di rimprovero col dito. — Avete spiato da finestra, cattivello?
Phil inghiottì senza riuscire a dire una parola, tuttavia quell’osservazione gli fece apparire la ragazza molto più umana. Le allucinazioni non fanno arrossire.
— Non importa — lo rassicurò. — Finestre di fronte… Perché no? Stessa cosa… Finestre di fronte, un poco aperte… Forse mio micio saltato di qua. Allora sono passata per vedere.
— Siete passata? — chiese Phil nervosamente, guardandole ancora una volta le gambe.
— Certo — disse lei sorridendo, e indicò la finestra. — Venite a vedere.
Con notevole riluttanza, Phil abbandonò la maniglia e si avvicinò cautamente alla finestra aperta. Fra i due davanzali era posata una scala pieghevole dall’aria piuttosto fragile, fatta di un metallo grigio.
Phil si voltò a guardarla. — Era un gatto verde? — chiese bruscamente.
Il viso di lei si illuminò. — Allora saltato qui.
Phil annuì. — Inoltre — proseguì rapidamente — credo di aver incontrato vostro fratello oggi, un giornalista di nome Dion da Silva, inviato del giornale La Prensa.
Lei annuì felice. — È vero — disse. — Io sono Dytie da Silva.
— Phil Gish. Dytie, avete detto?
— Esatto. Abbreviazione di Afrodite, dea di amore. Piace? Per favore, dove sono mio fratello e gatto, ora?
— Non ne ho la più pallida idea — disse Phil tristemente.
Lei alzò le spalle come se si aspettasse quella risposta. — Niente strano. Noi un po’ matti. Ci perdiamo sempre.
— Così voi verreste dall’Argentina? — chiese Phil in tono poco convinto. L’accento della ragazza non gli pareva spagnolo, ma d’altra parte la sua conoscenza in fatto di accenti era piuttosto scarsa.
— Certo — rispose lei tranquillamente, come se stesse pensando a qualcos’altro. — Un paese lontano lontano.
— Ditemi, signorina da Silva, il vostro gatto è dotato di poteri particolari?
Lei aggrottò le sopracciglia. — Poteri particolari? — ripeté lentamente, sillaba per sillaba. — Non capire.
— Voglio dire — spiegò Phil pazientemente — può rendere la gente intorno a lui felice?
La sua fronte si distese. — Certo. Micetti carini rendono la gente felice. Piacciono a voi animali, Phil?
Ancora una volta non poté fare a meno di guardarle le gambe. Ma, tutto sommato, cominciava a sentirsi più sicuro.
— Signorina da Silva — disse — avrei molte altre domande da farvi, ma sfortunatamente non conosco lo spagnolo e non credo che voi comprendiate l’inglese così bene da poter rispondere alle mie domande. Ma forse, se vi dicessi semplicemente quello che mi è successo, potreste aiutarmi. Almeno lo spero. Sedetevi, signorina; è una storia molto lunga.
— Buona idea — disse lei, sprofondandosi nel letto. — Ma ti prego, Phil, chiama me Dytie.
Ha un’abilità particolare nel farmi sentire a mio agio, pensò Phil mentre si sedeva nella poltrona di fronte al letto. — Ecco, Dytie, tutto è cominciato quando… — Andò avanti per un’ora, raccontandole dettagliatamente tutto quello che gli era capitato da quando si era svegliato e aveva visto Lucky seduto sul davanzale della finestra. Non le disse però di averla osservata alla finestra la sera prima, il che rese necessario abbreviare anche il resoconto della sua seduta con Romadka. Dytie lo interruppe spesso per chiedergli chiarimenti, alcuni su cose assolutamente ovvie, come per esempio cos’era uno spillone, e cosa il Federal Bureau of Loyalty, e cosa cercavano di farsi i lottatori maschi e femmine quand’erano sul ring. Sorvolava invece su cose che lui si aspettava la stupissero, benché non fosse sicuro se lo faceva perché realmente capiva, o perché non voleva capire. Gli ortho non la interessarono per niente, moltissimo invece i paralizzatori. Le imprese di Lucky non parvero soprenderla gran che. I suoi commenti erano di solito di questo tenore: — Quel gatto. Quant’è stupido. Anche fortunato. Hai scelto bene nome, Phil.
Quando le disse della Fondazione Humberford e di suo fratello, lei rotolò sulla pancia e cominciò ad ascoltare con grande attenzione. Ma quando raccontò esitando dell’improvvisa infatuazione di Dion per Dora Pannes, lei ridacchiò con aria rassegnata. — Sempre lo stesso. Dà caccia a ogni cosa con due gambe e ghiandole mammarie. Tranne quando incinto, naturalmente.
— Cosa?
— Cosa ho detto? Devo aver sbagliato parola — si scusò rapidamente Dytie.
Invece si interessò moltissimo di Morton Opperly, e insistette perché Phil le dicesse tutto sul famoso scienziato.
— Lui uomo intelligente — osservò con convinzione. — Molto piacere incontrarlo.
— Cercherò di fartelo conoscere — disse Phil, e raccontò di come il gatto verde era stato catturato da Dora Pannes.
Dytie scosse la testa con gravità. — Certa gente ha cuore molto duro — disse. — Loro non piacere i mici.
Phil finì rapidamente la storia col falso gatto verde che l’aveva graffiato nel vicolo.
Dytie si alzò e gli toccò affettuosamente le mani. — Povero Phil — disse, e aggiunse: — Allora sappiamo chi ha gatto, ma non dove.
— Esatto — disse Phil. — E non sarà facile scoprirlo, perché Billig si sta nascondendo dall’FBL. — Si alzò in fretta, cercando di non fare capire che desiderava mettere una qualche distanza fra loro due. Le dita di Dytie erano morbide e gentili, ma c’era qualcosa nel suo tocco e nella sua vicinanza che lo faceva rabbrividire. Probabilmente era il suo odore, che senza essere penetrante e neppure sgradevole, era però del tutto sconosciuto. Lei lo guardò con aria intenta, ma non cercò di seguirlo. Lui si spostò dall’altra parte della stanza.
— Bene, Dytie, questa è la mia storia — disse un po’ affannosamente. — E ora vorrei farti qualche domanda. Cos’ha di speciale il tuo gatto, tanto che la Divertimenti SpA spera di poterlo usare per corrompere il governo? È un mutante con poteri telepatici, in grado di controllare le emozioni? È una regressione, o è stato allevato artificialmente? O è forse un trionfo inaspettato dei genetisti sovietici, basato su principi che i nostri scienziati non accettano? Accidenti, non sarà davvero un dio egizio, come crede Sacheverell? Tocca a te rispondere, Dytie.
Ma lei si limitò a sorridere. — Scusami, Phil. Ma questa tua storia molto lunga. Torno subito.
Phil si aspettava che lei uscisse dalla finestra, e si stava chiedendo cosa avrebbe dovuto fare. Invece la ragazza andò in bagno e chiuse la porta. Phil si mise a passeggiare su e giù per la stanza, cercando di scaricare la tensione, armeggiando qua e là. Accese la televisione, e la guardò senza capire una parola di quello che l’annunciatore sportivo raccontava sulle imprese, le follie e le frivolezze delle stelle della lotta libera. A un certo punto, durante uno dei suoi giri per la stanza, urtò violentemente l’apparecchio. Dovette rompersi qualcosa perché l’audio si ridusse a un mormorio incomprensibile, e Phil si ritrovò ancora una volta solo con le sue preoccupazioni. Tanto solo, che quando udì un lieve rumore alle sue spalle sobbalzò.
La porta d’ingresso si era aperta. Mitzie Romadka era in piedi nel corridoio. Sembrava molto giovane e molto stanca, in maglione e calzoni blu scoloriti. Una ciocca dei suoi lunghi capelli neri le ricadeva sulla guancia. Fissò su Phil uno sguardo infelice, di sfida.
— Ieri notte ti ho detto: «Addio per sempre», ed è così — cominciò bruscamente. — Perciò non metterti delle idee strane in testa. Sono venuta solo per avvertirti di una cosa. — La voce le si spezzò. — Oh, accidenti, è tutto così confuso. — Si morse le labbra, facendosi forza. — Non è solo perché Carstairs, Llewellyn e Buck mi odiano, o perché tu hai cercato di umiliarmi, di rammollirmi. Quando sono tornata a casa, attraverso lo scivolo di servizio, stamattina presto, ho sentito mio padre che parlava con altri due uomini. Ho scoperto che è un agente sovietico, e che il suo incarico è ora quello di catturare il gatto verde, non importa quanti uomini debba uccidere. E lui pensa che sia tu ad averlo.
Phil la guardò, e fu come se tutte quelle ore non fossero trascorse, come se si trovasse ancora in quella piccola piazza, all’alba, mentre Mitzie stava per lasciarlo, e tutta la tensione che aveva accumulato si incanalò in una nuova, più certa direzione.
— Cara — disse dolcemente e con cautela, come se un rumore improvviso potesse farla svanire — cara Mitzie, io non volevo umiliarti.
— Oh? — disse lei, accomodandosi la ciocca di capelli.
Le si avvicinò piano piano. — Ero solo preoccupato e geloso, di te e dei tuoi amici.
— Stai attento a quello che dici, Phil — mormorò lei minacciosamente. — Cerca di essere onesto.
— Va bene. Ho cercato di umiliarti. Con tutte le mie forze. Ero pieno di quella vanità e di quella presunzione che vengono dall’aver capito troppo. Non sapevo che la tua sfida e la tua gloria hanno un posto nel mondo. Mitzie, ti amo.
L’abbracciò e lei non svanì. La sensazione del suo corpo era completamente diversa da quella che aveva immaginato. Era un corpo esile e terribilmente stanco.
Poi sollevò il mento dalla sua spalla, e Phil venne violentemente respinto a un paio di metri di distanza.
Mitzie stava guardando dietro di lui. Notò con sollievo che non aveva né pistola, né pugnale, né artigli, né cose del genere.
Si voltò. Dytie da Silva, appoggiata allo stipite del bagno, li stava guardando con espressione interrogativa. — Ciao — li salutò allegramente, poi rivolta a Phil: — È tua ragazza?
Mitzie impallidì. — Quante cerchi di fartene insieme? — disse sprezzante, rivolta a Phil.
— Non preoccupare te — disse Dytie tranquillamente. — Lui molto timido all’inizio.
— Oh! — esclamò Mitzie, battendo sul pavimento con tutti e due i piedi contemporaneamente.
In quel momento l’audio della tv riprese a funzionare. — … si sapeva da tempo che lei e suo marito non dividevano più lo stesso letto. Ma per un’ironia della sorte i suoi fans hanno dovuto attendere quello che presumibilmente, dopo la proibizione dei combattimenti, è stato il suo ultimo incontro prima di poter vedere il suo nuovo amore.
Al centro dello schermo c’era Phil, con un’aria spaesata e un sorriso ebete sul volto. Juno gli teneva un braccio attorno alle spalle, e stava gridando: — … anch’io ho diritto alla mia vita amorosa! E non permettetevi di offenderla!
— Oh! — urlò Mitzie, e col palmo della mano diede un sonoro ceffone sulla guancia sinistra di Phil, poi corse fuori della porta sbattendosela alle spalle. Phil restò per qualche secondo di pietra. Poi spense la TV e si asciugò le lacrime dall’occhio sinistro.
— Perché non insegui? — chiese Dytie premurosamente. — Non preoccupare, Phil, lei ritorna. Lei ama te davvero, ancora più. È orgogliosa che tu sei tanto virile, che hai molte ragazze.
— Per favore — grugnì Phil alzando una mano. — Quello era un addio per sempre.
— Non è mai per sempre. Lei ritorna.
E proprio in quell’istante si udì un timido bussare alla porta. Phil aprì, chiedendosi se doveva schiaffeggiarla subito o aspettare. Il dottor Anton Romadka gli puntò in faccia una pistola paralizzante ed entrò.
Il piccolo psicoanalista aveva un’aria elegantemente professionale nel suo abito fuori moda, camicia bianca e cravatta, prediletto da molti medici. Portava persino un gilè, abbottonato sul suo stomaco paffuto. La guancia sinistra era liscia come la sua testa calva: evidentemente aveva coperto i graffi con della finta pelle. Aveva un’espressione di paterna benevolenza, ma tenne sempre la pistola puntata su Phil, lanciando di tanto in tanto delle occhiate a Dytie.
— Phil — disse — non intendo negare le affermazioni che mia figlia ha appena fatto sul mio conto, perché se solo ci pensi un istante, questo ci renderà alleati e compagni. Chi meglio di te può sapere, caro Phil, quanto mostruosamente psicotica sia diventata la civiltà americana? Tu stesso hai sperimentato sulla tua persona ciò che essa può fare al cervello, al corpo e agli organi del senso. E chi meglio di te potrebbe apprezzare l’equilibrio di una Repubblica dei Lavoratori, in cui ogni psicosi, grazie alla ferma guida della scienza marxista, è impossibile, perché ogni irrazionalismo, ogni illusione (comprese le folli invenzioni del capitalismo decadente e della sua pseudo scienza) è inconcepibile.
Phil si accorse di avere gli occhi sbarrati e di annuire. Si riscosse. La voce benevola di Romadka era singolarmente ipnotica.
— Naturalmente avrei dovuto capire tutto questo ieri sera, Phil, e fare appello alla tua ragione — continuò Romadka, senza mai spostare di un millimetro il paralizzatore dal collo di Phil. — Ma avevo fretta e non riuscivo a controllare le mie emozioni. Nemmeno i nostri agenti riescono ad essere del tutto immuni dalle perversioni americane, quando sono costretti a vivere in questo paese. Ho fatto molti errori, e in particolare quello di non prendere subito in considerazione la mia sfortunata figliola; anche se sono contento che sia venuta ad avvertirti, perché in questo modo ho potuto rintracciarti. Cosa che a sua volta permetterà a te, Phil, e alla tua deliziosa compagna, di godere della sana sicurezza offerta dai Sovietici.
Il piccolo psichiatra sorrise e si appoggiò cautamente al bracciolo della poltrona. La sua voce assunse un tono confidenziale. — E adesso, figlioli miei — continuò con un cenno del capo, rivolto questa volta anche a Dytie — vi dirò come potete rendere un grande servizio a questa nazione immune dalla pazzia, e guadagnarvi la sua eterna benevolenza quando raggiungerete le sue realistiche spiagge. Il capitalismo psicotico, di fronte alla prospettiva di una completa sconfitta nella prossima guerra, ha deciso di usare contro la Repubblica dei Lavoratori un’ultima sporca arma: la sua follia collettiva e le sue allucinazioni catalizzate e scatenate in un bombardamento elettronico e chimico sul tessuto nervoso collettivo sovietico. Finora questo veleno capitalistico contro l’Unione Pan-Sovietica ha assunto la forma di un’illusione riguardante gatti verdi. Non fraintendetemi: questi gatti verdi sono reali. Anzi, io sono fermamente convinto che si tratti di comuni gatti nei quali sono stati inseriti chirurgicamente dei piccoli trasmettitori elettronici e che sono in grado di spruzzare intorno degli ormoni, come le puzzole. Anche se i gatti verdi non sono probabilmente l’elemento più importante in questo assalto contro la psiche sovietica, essi ne sono la testa di ponte. Sfortunatamente non siamo ancora riusciti a mettere le mani su una di queste creature, in modo da poter confermare le nostre deduzioni e da prendere le opportune contromisure. È assolutamente indispensabile che lo facciamo.
— Ma c’è un solo gatto verde — obiettò Phil — e si crede che stia attaccando l’America. Non è vero, naturalmente.
— Certo che non è vero, figlio mio — continuò con voce grave. — Io ti sto esponendo dei fatti basati sul marxismo. Quelle storie che hai sentito sono soltanto delle invenzioni messe in giro dal governo capitalista per nascondere ai propri schiavi e ai propri pseudoscienziati l’enormità dei suoi crimini. La verità è che un gatto verde è scappato dai loro laboratori. Già una volta mi hai portato a quel gatto, Phil. Puoi farlo ancora.
— No, non posso — disse Phil con calma.
— Tu puoi, Phil — ripeté Romadka.
— Ma l’avevate già preso una volta — obiettò Phil — e ve lo siete lasciato sfuggire.
Per la prima volta un’ombra di impazienza oscurò la benevolenza del dottore. — Ho già detto che ho commesso degli errori ieri notte. Qualcuno è riuscito a puntarmi contro un ipno-raggio, probabilmente anche uno spray drogato. Per un certo tempo non sono stato responsabile delle mie azioni. Sono riuscito solo a sfuggire all’incursione dell’FBL. Ma non succederà un’altra volta. — Il suo tono divenne spiccio. — Avanti, Phil, vieni con me, e porta anche la tua amica. Non c’è più tempo per le discussioni.
— Ma… — cominciò Phil.
Dytie da Silva si piazzò di fronte a Romadka. — Io non venire — disse. — Perché dovere? Tu sembri matto. Nazione immune dalla pazzia? Irrazionalismo impossibile? Scienza assoluta? Tutte scemenze!
Di fronte a quello sfogo l’analista si limitò a sollevare le sopracciglia. — Stavo giusto per parlare di voi, signorina. Cosa fate qui, tanto pef cominciare?
— Sono venuta dalla finestra di fronte — disse Dytie, indicando col dito.
Romadka la studiò pensosamente, come se stesse controllando qualcosa nei suoi ricordi. Improvvisamente sorrise. — La descrizione corrisponde — disse. — Voi siete la giovane donna che il signor Gish ha osservato ieri sera mentre si spogliava, e che è stata la fonte di un’interessante allucinazione.
— Phil, non avevi detto a me — disse Dytie guardandolo con occhi brillanti.
— Oh no, non l’ha fatto — disse il dottor Romadka ironico.
— Perché no? — chiese lei. — Non importa a me. Se a lui piace, okay.
Romadka la guardò con disprezzo. — Una tipica esibizionista, vero. E anche ninfomane.
Dytie si mise le mani sui fianchi. — Senti, io non sono buona dire parole lunghe. Ma tua diagnosi sbagliata. Non è ninfomania, è satinasi. Faccio vedere. — E cominciò immediatamente a togliersi una calza. Phil la guardò con un misto di fascino e di orrore.
Romadka si alzò irritato. — Non mi è mai capitato… — cominciò. — Se credete che facendo appello ai miei istinti sessuali…
In quel momento Dytie si tolse la scarpa, il falso piede, e sollevò il delicato zoccolo nero e il garretto sottile, coperto di pelo, per farglielo vedere. — Ecco qua, immune dalle illusioni — disse accalorandosi. — Guarda bene. Satinasi!
Le ginocchia del dottor Romadka cominciarono a tremare. La sua faccia era diventata grigiastra e gli occhi gli stavano uscendo dalle orbite.
Senza preavviso Dytie si alzò, girò su se stessa e lasciò partire un calcio molto accurato. Il paralizzatore schizzò via dalla mano tremante del dottore e andò a finire contro il muro. Romadka ritirò la mano di scatto, come se lo zoccolo fosse quello del diavolo in persona, e uscì precipitosamente dalla stanza. Il rumore dei suoi passi veloci e irregolari svanì lentamente. Phil poteva immaginarsi benissimo come si sentiva il dottore. Ci mancava poco che non si mettesse a correre anche lui.
Dytie, ridendo di cuore, saltellò fino alla porta, la richiuse e prese la pistola di Romadka.
— Questo paralizzatore? — chiese.
Phil si inumidì le labbra, afferrandosi al bordo del tavolo per sostenersi. Sapeva che la sua faccia doveva avere lo stesso colore di quella di Romadka. — Dytie — riuscì finalmente a dire, battendo i denti — tu vieni da un paese molto più lontano dell’Argentina.
Lei sorrise con aria di scusa. — Giusto, Phil. Ho storia molto più lunga che tua da raccontare.
Phil fece un cenno tremante con la testa — Ma prima, se non ti dispiace. — Non riuscì a proseguire, e indicò la scarpa, il piede e la calza che giacevano a terra.
— Certo, Phil, capisco. — Li prese e sì sedette sul bordo del letto per rimetterseli. Phil seguì i suoi movimenti con un senso di disagio, ma quando lei fu sul punto di infilare lo zoccolo nella cavità del falso piede indietreggiò distogliendo lo sguardo.
Nel frattempo lei stava dicendo in tono pratico: — Tu non detto all’uomo immune da illusioni, ma hai idea dov’è micio?
— No — rispose Phil nervosamente — ma so dove potrei scoprirlo.
— In questa città?
— Sì.
— Porti me là, Phil?
— Immagino di sì.
— Tu anche vuoi trovare micio, Phil?
— Sì. Credo di sì.
— Bene. Puoi guardare ora.
Si fece forza e le lanciò un’occhiata, poi tirò un sospiro di sollievo. Le gambe erano tornate ad essere quelle di una qualsiasi ragazza. Illudersi, decise, talvolta è indispensabile.
— E adesso — disse — puoi rispondere a quelle mie domande.
Proprio in quel momento qualcuno bussò alla porta.
— Questa volta è tua ragazza — disse Dytie ottimista.
Ma Phil non intendeva correre altri rischi. Aprì lo spioncino unidirezionale e si trovò a guardare dritto in faccia Dave Greeley.
— È l’FBL — sussurrò a Dytie, che balzò in piedi. Durante il suo racconto gli aveva fatto numerose domande sul Federal Bureau of Loyalty, alle quali lui aveva risposto dettagliatamente. E doveva essere giunta a delle conclusioni ben precise. — Dobbiamo filare, Phil. No tempo per domande risposte ora. — Saltò agilmente sul davanzale e poi sulla scala.
Non era lunga come la trave degli Akeley, ma era dieci volte più alta, e Phil non era ubriaco. Se non avesse camminato su quella trave, e se non fosse sceso dallo scivolo di servizio del dottor Romadka, non avrebbe mai osato avventurarvisi. Il cuore gli batteva all’impazzata quando raggiunse la stanza di Dytie. Si voltò con la mezza intenzione di togliere la scala, ma dalla sua stanza venne il rumore di qualcosa che si rompeva. Dytie lo prese per un braccio.
— Niente tempo ora — disse, e lo spinse nel corridoio. Pochi secondi dopo entravano nell’ascensore. — Ehi, ma quello è il bottone di salita — l’avvertì lui.
— Lo so, Phil — disse lei in tono rassicurante.
Uscendo sul tetto, Phil provò per un attimo una stupenda sensazione di libertà. Lo specchio al sodio non era ancora tramontato, e tutto intorno a lui era luminoso, anche se le regioni più basse del cielo erano buie e piene di stelle.
Poi vide una mezza dozzina di elicotteri che si stavano abbassando verso di loro come moscerini. Dytie lo stava trascinando verso un angolo vuoto del tetto. Provò una certa irritazione per quel suo inutile affannarsi. Una voce potente dal cielo ordinò loro di fermarsi.
Dytie si fermò quasi sull’orlo del tetto, tastò con la mano nel vuoto, si sollevò di mezzo metro nell’aria e tastò ancora.
Si udì il rumore di un elicottero che atterrava alle loro spalle.
Dytie aprì nell’aria una piccola porta nera come l’inchiostro, ed entrò. Si voltò, il suo viso simile a una pallida maschera nel rettangolo nero. — Vieni, Phil — lo incitò e allungò un braccio fuori dal rettangolo verso di lui.
Phil guardò quel ritratto allucinante incorniciato d’aria. Al di sotto, poteva distinguere chiaramente i muri della casa di fronte e il nastro della strada cinquanta piani sotto.
Dietro di lui si udirono delle grida, e un altro ordine rimbombò dal cielo.
Phil afferrò il polso di Dytie. Annaspando con l’altra mano afferrò un piolo invisibile, poi anche il piede trovò un appoggio. Si arrampicò nel vuoto e rotolò attraverso la porta nera in una nera cavità, su un pavimento curvo. Voltandosi vide un rettangolo di cielo con tre stelle. Il rettangolo si strinse e svanì. Il buio divenne assoluto.
Poi cominciò a cadere.