13

La jeep, proseguendo a velocità costante e voltando di tanto in tanto, mise fra sé e la Divertimenti SpA diversi isolati di vuote strade mattutine. Phil si chiese se non potessero rintracciarli mediante gli occhi elettronici che, a quanto si diceva, sorvegliavano ogni incrocio, ma dimenticò quel dubbio prima che potesse diventare una preoccupazione. Lucky era raggomitolato nel suo grembo come un grosso krapfen verde. Si sentiva sopraffare dal sonno, desiderava scivolare dolcemente in un mondo privo di luci, di suoni e di gravità.

Ma prima di addormentarsi guardò Mitzie. Il suo viso aveva un’espressione dura e orgogliosa, quasi di scherno, benché due lacrime le colassero lungo le guance. Phil si sentì più irritato che sorpreso o impietosito. Nessuno, si disse, aveva il diritto di provare simili sentimenti in presenza di Lucky.

Decise che era giunto il momento di dirle gentilmente alcune verità: — Non dobbiamo vantarci tanto della nostra fuga. È Lucky che ha fatto tutto. Anche se tu sei stata davvero coraggiosa nell’evitare la jeep.

Mitzie non lo guardò, ma strinse le labbra.

— L’episodio della jeep è stato istruttivo — continuò Phil, girando ancora un po’ nella ferita il suo angelico coltello. — È servito a dimostrarti che razza di farabutti sono quei tre a cui ti eri unita. Ma ora — proseguì, temperando la giustizia con la clemenza — hai imparato che la tua romantica adorazione del male vale meno di niente di fronte al vero amore e alla comprensione. Vero, Mitzie?

Mitzie fermò la macchina. Phil si accorse vagamente che avevano parcheggiato in un vialetto senza uscita, dal fondo sconnesso, situato in una piazza fuori mano, con dei gradini maltenuti, chiusa intorno da alti edifici. Si appoggiò allo schienale, sorridendo assonnato fra sé, accarezzando con le dita la pelliccia morbida di Lucky. Aspettava con compiacimento i singhiozzi di Mitzie.

Invece sentì sbattere la portiera.

Si riscosse. Mitzie era in piedi vicino alla jeep, contro lo sfondo nebbioso dei giardinetti e dei grattacieli silenziosi. Improvvisamente si chinò verso di lui, appoggiandosi con le braccia rigide alla portiera. Respirò profondamente, sollevando i piccoli, teneri seni nelle loro semicoppe di raso nero.

Adesso deve succedere, si disse Phil. Adesso deve cedere, singhiozzando, al potere di Lucky.

— Ti odio, Phil — disse invece lei con furore. — Tu vorresti fare di me una rammollita. — Nuove lacrime le spuntarono agli angoli degli occhi, ma la sua espressione si fece sempre più fiera. — Carstairs, Llewellyn e Buck volevano uccidermi, è vero, ma almeno mi hanno offerto l’occasione di essere qualcosa. Mi hanno concesso la dignità di essere odiata. Non hanno cercato di affogarmi nella merda.

“Io voglio la gloria — continuò con voce che si sforzava di essere ferma. — Voglio la mia gloriale non mi interessa se per te è una gloria a buon mercato ed egoistica. È la sola cosa bella e affascinante in un mondo falso e codardo. Voglio sputare in faccia a questo mondo di pecore e voglio affrontarlo quando verrà a vendicarsi, come ho affrontato quella jeep.

— Sei stata molto coraggiosa, prima — disse Phil per prendere tempo, chiedendosi perché diavolo il potere di Lucky, che aveva vinto venti uomini in un colpo solo, fosse così inefficace contro una sola ragazza testarda.

— Risparmiami le adulazioni — disse lei sarcastica. — So benissimo quello che è capace di fare quella tua bestiolina da scuola di catechismo, e so come vorresti ridurmi. Io ho una sola cosa fatta di titanio in me, il resto è una poltiglia schifosa. Tu vorresti che quella cosa si spezzasse. No, peggio, vorresti che si rammollisse. Bene, io non lo permetterò. — Si raddrizzò e staccò le mani dalla portiera.

Improvvisamente Phil sentì un specie di sonnolenta preoccupazione. Accarezzò il pelo di Lucky, poi lo scosse un po’. — Svegliati — disse a disagio.

Lucky si limitò a fare le fusa. O forse russava.

— Addio per sempre, Phil — disse Mitzie, voltandosi.

— No, aspetta — gridò Phil, sporgendosi finalmente dal sedile. — Non andartene. — Scosse ancora una volta Lucky, quasi rudemente. — Svegliati — implorò. — Fermala.

Il piccolo dio giaceva fra le sue mani come uno straccio verde.

Phil posò Lucky sul sedile al suo fianco e fece per scendere dalla macchina. Ma improvvisamente un’ondata di profonda tristezza lo sommerse. Si rese conto che qualcosa di prezioso gli stava scivolando fra le dita, ma non era sicuro che fosse veramente prezioso, né che lui avesse il diritto di fermarlo. E poi il suo dio l’aveva piantato in asso, e si sentiva terribilmente assonnato.

Così guardò Mitzie che scivolava via da lui, irrevocabilmente come il tempo, e si limitò a riprendere in grembo Lucky. La osservò mentre si allontanava nella mattina nebbiosa, fra i cespugli, come una ninfa orgogliosa e adirata, con la testa alta e la schiena dritta, dritta come quei deliziosi e ridicoli seni con i quali lei insisteva ad affrontare il mondo intero.

Per un tempo che gli sembrò lunghissimo, rimase a guardare l’angolo vuoto e indistinto dietro cui era sparita. Era caduto preda di una specie di stordimento ipnotico, simile al sonno. Ogni tanto qualche pensiero attraversava la distesa opaca della sua mente, ma erano solo ombre fugaci. Una volta pensò che forse Lucky non aveva potuto trattenere Mitzie perché gli sforzi precedenti l’avevano esaurito; non ci si poteva aspettare che un piccolo dio emanasse tante onde d’oro senza risentirne almeno un po’.

Poi gli venne in mente che in quel preciso momento lui stesso doveva essere la posta di un’affannosa caccia da parte del Federal Bureau of Loyalty, dei giannizzeri della Divertimenti SpA, di Romadka e della sua allegra compagnia, forse anche dei buoni vecchi Carstairs, Llewellyn e Buck. Nonostante questo non aveva paura, né sentiva alcuna voglia di preparare un piano. L’angolo da cui era sparita Mitzie divenne più luminoso, ma restò vuoto.

Dalla massa a forma di krapfen che stava rannicchiata sul suo grembo uscirono quattro piedi. Lucky si stiracchiò, si diede una scrollatina, guardò Phil con i suoi occhietti vivaci e fece: Prrrrt-prt.

— Sei un bel tipo tu — si lamentò Phil di malumore, con gli occhi impastati di sonno. — Ti addormenti proprio quando ho più bisogno di te.

Lucky non si curò del rimprovero. Prrrt-prt, ripeté perentoriamente.

Una volta uscito dal suo stordimento, Phil si sentì ancora terribilmente assonnato. — Ho capito quello che vuoi — bofonchiò Phil. — Hai fame. Ti meriti un bel pranzo, dopo tutte le meraviglie che ci hai fatto vedere. Ma non ne ho di concentrato di mirtilli, qui. Ti darò qualcosa da mangiare… più… tardi.

Prrrt-prt! insisté Lucky col tono di un onesto lavoratore che si veda defraudato della paga.

Ma nessun appello poteva più raggiungere Phil. — ’notte — disse nella maniera più gentile possibile, e si addormentò.

Sognò cose, strane e sinistre, ma confuse. Sognò foreste dalle fronde oscure, con piccoli animali che squittivano. Gli squittii si fecero più forti e Phil fuggì dal proprio sogno, per trovarsi sulla jeep parcheggiata in un vialetto senza uscita di una piccola piazza.

Per un attimo gli parve di scorgere i fantasmi degli alberi dalle nere fronde, e di udire l’eco degli squittii, ma poi si accorse che erano solo i cespugli non potati della piazza, e i gridolini di un gruppo di scolarette.

Si rese conto confusamente che stavano tornando da scuola… no, dal dopo scuola, dal momento che le ombre degli edifici si stavano allungando nella piazza. Aveva dormito tutto il giorno, indisturbato.

Poi si rese conto che il suo grembo e il suo cuore erano freddi, e che Lucky se n’era andato.

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