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Attraverso le palpebre semichiuse, con le ciglia che sfocavano tutti i contorni, Phil osservava il cerchio spettrale, giallo pallido, della finestra. Era la sola luce che riuscisse a sopportare, quella dello specchio al sodio sopra la stratosfera. Pochi minuti prima aveva spento anche la televisione, tuttavia la voce sexy della ragazza continuava a sussurrare la sua canzone e lui indossava ancora il grosso guantone della sensoradio. Ma la pressione delle dita della cantante registrata da una mano idraulica e trasmessa nell’etere fino al suo guantone, cominciava a sembrargli quella di uno scheletro con le dita di gomma. Phil si strappò di dosso l’arnese, spense l’audio, accese una sigaretta e si ritrovò solo con il suo problema. Era davvero pazzo? Lucky era soltanto il sogno di uno psicopatico, o lui era stato in qualche modo raggirato? Ancora una volta, con angoscia, dovette arrendersi all’evidenza: soltanto lui si era accorto del gatto. E poi c’erano molti altri indizi di allucinazione; il colore assurdo, il cibo incredibile, la sua impressione che Lucky non fosse veramente un gatto; la sua assurda illusione di divina onnipotenza.

Ma questi stessi sentimenti erano anche la ragione per la quale Lucky doveva esistere. Dopo quanto era successo quel giorno, Phil non avrebbe più potuto sopportare la vita senza Lucky, senza quelle calde sensazioni intuitive che l’avevano galvanizzato nel pomeriggio e gli avevano fatto dimenticare il lavoro perso, la solitudine, la vigliaccheria, le frustrazioni. — Lucky — mormorò prima ancora di rendersene conto, e il suono querulo da malato della sua voce lo spaventò talmente che si frugò in tasca e tirò fuori il nastro che gli aveva dato Swish Jack Jones. Aspirò con forza dalla sigaretta, e al chiarore della brace lesse: Dr. Anton Romadka. Cima della Fortezza. Ore otto.

Nella sua mente apparve l’immagine della guglia nera e sottile della “Fortezza”, un lussuoso edificio adibito ad albergo e uffici. Pensò che gli ci volevano pochi minuti per arrivarci. Ma poi, di scatto, appallottolò il pezzo di nastro e se lo rimise in tasca. Cominciò a camminare su e giù per la stanza. Se fosse andato dal dottor Romadka sarebbe stato come ammettere che non credeva all’esistenza di Lucky.

Pensò alle pillole di sonnifero, ma temeva che non gliene fossero restate abbastanza. Prese un libro che aveva cominciato, ma trovò il suo stereotipato sadismo insopportabilmente noioso. Come ultima risorsa accese di nuovo la televisione, audio e video.

— … preda dell’Anticristo.

Quelle parole, insieme al viso scarno apparso sullo schermo, indicavano che il Presidente Robert T. Barnes stava facendo una nuova predica sulla Russia ai suoi Fratelli Americani.

— Ma ci sono peccatori anche da questa parte della trincea — continuò la grande figura patriarcale, piegandosi in avanti e inarcando le sopracciglia. — Peccatori in mezzo a noi, creature dedite alla lussuria. Troppo a lungo costoro si sono crogiolati nei piaceri più bassi. — Agitò un dito e si chinò ancora una volta verso lo schermo. — Io li ammonisco che la loro ora è giunta.

Phil fece per spegnere (quante volte Barnes aveva lanciato quelle futili, e, secondo alcuni, ebbre, minacce, quando tutti sapevano che la sua amministrazione era compromessa fino al collo con la Divertimenti SpA?), ma si fermò avvertendo nella voce del Presidente una nota diversa e anche un poco inquietante.

— Fratelli Americani — disse Barnes quasi in un sussurro, con un leggero ondeggiamento del corpo — delle forze misteriose sono all’opera, pensieri insani, spiriti dell’aria più alta come quelli che perseguitarono l’antica Babilonia. Qualcuno cerca di condizionare le nostre menti, è l’ora della prova finale…

La sua momentanea curiosità svanì e Phil spense l’apparecchio, ripiombando nell’oscurità e nel silenzio. Eppure la retorica del Presidente aveva influenzato il corso dei suoi pensieri. Smise di camminare e si rannicchiò sulla poltrona di schiuma incastrata fra la televisione e il letto.

“Devo essere pazzo” si disse con una rassegnata certezza che tuttavia non gli provocava nessun dolore, forse perché se ne stava seduto immobile. Tutto quello che aveva fatto quel pomeriggio non rispondeva al suo carattere, compresa la sua sopravvalutazione di quel gatto immaginario.

Sì, doveva essere matto.

Il quel momento il pallido cerchio della finestra venne intersecato da un cerchio più piccolo e molto più luminoso. Automaticamente si alzò e si avvicinò.

La ragazza dell’appartamento di fronte aveva acceso la luce. Si era levata il mantello e ora si aggirava nella stanza, come se cercasse qualcosa, mentre la coda di capelli neri le ondeggiava da una parte e dall’altra secondo i movimenti della testa. Era lontano meno di sette metri, e poteva vederla molto distintamente. Indossava un vestito grigio, all’ultima moda. Aveva un viso stretto, naso piccolo, bocca larga, occhi molto distanziati e, si accorse Phil per la prima volta, le orecchie erano prive di lobo e si appuntivano in alto in modo quasi faunesco. Come nelle altre rare occasioni in cui l’aveva vista, Phil provò un brivido di inquietudine.

La ragazza alzò le spalle, rinunciando alla sua ricerca, e si avvicinò alla finestra, guardando dritto verso Phil. Lui si ritrasse istintivamente, pur sapendo di essere invisibile. Lei afferrò una maniglia sullo stipite e mosse la mano per un quarto di giro, oscurando così gradualmente il vetro.

Poi, proprio mentre Phil stava per voltarsi, la finestra ricominciò a illuminarsi, fino a ritornare quasi completamente trasparente. Capì cosa doveva essere successo: la lastra interna di vetro polarizzato non era stata bloccata bene ed era silenziosamente ruotata di un’altra decina di centimetri. Qualche volta era successo anche alla sua.

La ragazza ora credeva di essere nascosta. Ma non lo era.

Si stirò e si tolse il soprabito. Phil si morse le labbra. Non voleva guardarla, ma qualunque cosa servisse a distrarlo dai suoi tristi pensieri era la benvenuta, e Phil sapeva bene che quella finestra poteva fornirgli distrazioni avvincenti, anche se inconcludenti.

La ragazza si slacciò lentamente la chiusura magnetica della camicetta e se la sfilò con un agile movimento delle spalle. Phil, preso dall’incanto dei suoi seni appuntiti, dimenticò tutte le paure. Al di sotto di essi, quasi come una coppa, indossava una specie di corpetto molto aderente, di velluto nero.

Si tolse la gonna. Il corpetto le terminava sulle cosce. C’era qualcosa di strano, ma forse era dovuto al leggero oscuramento della finestra. Sembrava quasi che fosse fatto di una specie di pelliccia.

Restando in equilibrio su una gamba si tolse una calza, e insieme alla calza anche una di quelle grottesche scarpe alte trenta centimetri.

Solo che… il cuore di Phil ebbe un balzo… sembrava essersi tolta molto di più della scarpa. Per la precisione, il piede.

Allora guardò meglio e vide che nel punto dove avrebbe dovuto trovarsi la caviglia, la gamba si curvava un poco all’indietro, poi ritornava bruscamente in avanti e si assottigliava per finire in un piccolo zoccolo nero.

Si tolse l’altra calza e la scarpa con il medesimo risultato. Phil si accorse che il piede si adattava a un buco ricavato nella scarpa, restando in tal modo nascosto.

Poi cominciò a danzare gioiosamente. Phil poteva sentire il ticchettio degli zoccoli. E lui che aveva creduto che ballasse il tip-tap! Poteva distinguere chiaramente i garretti con i loro ciuffetti di pelo, identici per colore e aspetto al “corpetto”.

Lei smise di ballare, prese un rasoio e cominciò a radersi con attenzione l’orlo del “corpetto”.

Phil cominciò a pensare a voce alta. Arrivò a dire: — Prima un gatto verde, poi… — e il momento dopo si era girato e cominciava a correre verso la porta.

I suoi ricordi da quel momento si fecero un po’ confusi. Per esempio, quando attraversò di corsa la strada due isolati dopo la Skyway Tower per poco non venne investito da una macchina nera, con una carrozzeria tipo primi novecento, che andava a bassa velocità. In essa sedevano Cookie, gli Akeley e Swish Jack Jones con una scatola appoggiata sulle ginocchia. In quel momento Phil non li riconobbe neppure.

L’unica cosa certa per lui era quella che stringeva fra le dita, nella tasca: il nastro spiegazzato col nome e l’indirizzo del dottor Romadka.

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