Phil Gish si svegliò di ottimo umore, come se tutta la sua vita precedente fosse appartenuta ad altre due persone (poveri disgraziati!).
Di solito balzava fuori dal letto come una molla e infilava in un baleno mutande e calze, mentre cercava freneticamente il barattolo della crema da barba. Ma questa volta riuscì a dominare i suoi impulsi nervosi e a tenere gli occhi chiusi. Voleva gustare fino in fondo questa sensazione che si sentiva dentro, del tutto sconosciuta e così intensa da non poterla spartire neppure con gli annunci pubblicitari che coprivano le pareti del suo piccolo appartamento di scapolo.
Era semplicemente meraviglioso, decise dopo un po’. Straordinariamente, assurdamente meraviglioso!
Era come se quello non fosse più il mondo in cui da cinquant’anni scoppiavano improvvise, l’una dopo l’altra, guerre calde e fredde; in cui il Federal Bureau of Loyalty e la Divertimenti SpA governavano gli USA in nome di quel contadino ubriacone e bigotto del Presidente Robert T. Barnes, e in cui (secondo Radioluna Rossa, il satellite d’informazioni del Cremlino) si stava prendendo in considerazione un nuovo piano per lo scambio dei discendenti dei prigionieri fatti nella guerra di Corea, mezzo secolo prima. Come se lui, Phil Gish, non fosse un povero diavolo che quella mattina, alle otto, aveva preso quattro pillole di sonnifero nella speranza di dimenticare, almeno per un po’, di avere perso di nuovo il posto perché c’era un robot che faceva il suo lavoro cinque volte più rapidamente e due volte più accuratamente di lui; cosa che lo aveva fatto andare in bestia, con l’unico risultato di ottenere il freddo consiglio di rivolgersi a uno psichiatra.
Fece un profondo e voluttuoso respiro. Anche l’aria aveva un sapore diverso, come se contenesse qualche meraviglioso composto che allontanava le preoccupazioni.
Aprì gli occhi e si osservò il petto pallido, e i due peli solitari, beffarde memorie di un glorioso passato scimmiesco. Ma questa volta il termine che gli venne in mente non fu “magro”, ma “snello”. Decise che tutto sommato il suo corpo gli piaceva; solido, ben fatto, anche se non proprio muscoloso. Sbadigliò, si stirò, si grattò vicino ai due peli e si guardò intorno. Il gatto verde era seduto sul davanzale della grande finestra rotonda e gli sorrideva.
— Ehi, sto sognando?
Il suono stesso della sua voce un po’ rauca, come sempre al mattino, rispose alla sua domanda.
“Non sarò mica ammattito sul serio?” Questa seconda domanda, espressa senza parole, venne subito accantonata. Si sentiva troppo bene per preoccuparsi. Se questa era pazzia, allora evviva la paranoia!
E poi, ci potevano essere innumerevoli spiegazioni naturali per il colore un po’ insolito del gatto. Solamente il giorno prima aveva visto una giovane signora che portava a spasso due barboncini rosa. Uno sprazzo di quello che poteva nascondere sotto il soprabito, un topless forse, lo aveva spinto a passarle vicino, e così aveva sentito che diceva al suo accompagnatore: «Non sono tinti, sciocco, sono mutanti!»
Inoltre, non c’erano forse degli animali verdi, come il bradipo? Però gli pareva di ricordare che la tinta del bradipo fosse dovuta a un fungo o a una muffa, mentre certamente non c’era alcuna traccia di muffa sulla pelliccia lucida dell’animale dall’aria benevola che sedeva sul davanzale.
— Ciao Lucky — disse sottovoce. Fin dal primo istante aveva deciso che doveva esserci un nesso fra il gatto e il suo nuovo incredibile stato di benessere. Se doveva iniziare una nuova èra nella sua vita, non ci sarebbe stato male un simbolo: un simbolo verde come la primavera. Almeno così gli sembrava.
— Vieni, Lucky — chiamò, senza alzare la testa dal morbido cuscino. — Vieni, micio — ripeté sentendosi un po’ sciocco.
Ma non ci fu bisogno di pregarlo di più. Il gatto saltò subito giù dal davanzale e trotterellò verso di lui, la pancia ondeggiante, come un piccolo cavallo grasso dai morbidi zoccoli. Phil sentì che la sua calma interiore cresceva in modo quasi sconvolgente. Il gatto sparì dietro il bordo del letto. Poi apparve il musetto verde, due piccole zampine verdi gli si posarono accanto, e due occhi color rame lo scrutarono.
— Come va, amico? — chiese Phil. — Felice di fare la tua conoscenza. Sei proprio un bel tipo, sai? Da dove arrivi?
Il musetto fece segno verso l’alto.
— Dal piano di sopra? — chiese Phil, e subito rise fra sé per aver interpretato il movimento come una risposta. — Perché non stai un po’ con me? Mi piace il tuo musetto e il tuo colore. Anch’io ogni tanto avrei voglia di essere verde. Tanto per cambiare.
Il muso del gatto era strano e curiosamente attraente: grandi orecchie, la fronte alta, il nasino quasi nascosto fra il pelo, e i baffi appena accennati, la bocca atteggiata in una smorfia imbronciata. Per un attimo Phil ebbe la sensazione che Lucky sarebbe potuto apparire molto diverso, molto meno simile a un gatto, se preso alla sprovvista. Era di un verde intenso, quasi verderame, solo più brillante.
Si chiese di che sesso potesse essere. Il grasso della pancia suggeriva che si trattasse di una femmina, eppure, per qualche ragione, Phil era sicuro che fosse un maschio.
Poi Lucky sorrise di nuovo, e Phil non ci pensò più. Allungò cautamente una mano, ma la ritrasse di scatto quando una zampina si mosse fulmineamente verso di essa. Poi, vergognandosi, rifece il gesto e la zampina gli toccò un dito. Phil, in risposta, l’accarezzò. Non avvertì la minima traccia di artigli. Dovevano essere tutti ritirati all’interno delle loro morbide guaine.
— Ora siamo amici — disse Phil con voce un po’ rauca. Il gatto saltò sul letto senza paura. Gli occhi di rame si fecero più vicini… una guancia pelosa si strofinò contro quella dell’uomo in un breve gesto d’amicizia. Phil si sentì gli occhi umidi per le lacrime.
“Che vita priva di affetti dev’essere la mia” pensò “se un gatto può farmi piangere”. Eppure era proprio così. La sua vita era sempre stata una delusione. I suoi genitori, dapprima, gli erano sembrati affettuosi e meravigliosi, ma poi aveva cominciato ad accorgersi delle loro grigie incertezze, della loro noia. Per un certo periodo la scuola era stata piena di straordinarie promesse, gli si erano aperte prospettive di conoscenza e di idealistica fratellanza; ma troppe di quelle prospettive erano chiuse da cartelli che dicevano: proibito o sovversivo, o da un ancora più insopportabile silenzio calcolato. Così come era successo all’uomo, che si era ripromesso di andare sui pianeti. Ma non l’aveva fatto. C’erano stati persino degli amici, un tempo, e un amore. Ma anche queste cose si erano rivelate un fallimento. E poi la serie interminabile di posti perduti a causa dei robot, a cominciare dai robot postini che individuavano la destinazione delle lettere leggendo gli indirizzi con una cellula fotoelettrica. L’unica cosa che i robot non sapevano fare, a quanto pareva, era quella di imboscarsi: un’attività nella quale Phil poteva vantarsi di non avere rivali automatizzati.
Sì, era stata una vita veramente vuota e priva di scopo la sua, si disse Phil, chiedendosi nello stesso tempo come mai neppure quella considerazione riuscisse a offuscare la sua presente felicità.
Si riscosse da quei pensieri e vide che il gatto stava passeggiando sul letto, ispezionando il suo corpo nudo.
— Ehi, va bene che siamo amici, ma non ti sembra di esagerare? Rispetta la mia intimità! — Ridendo scese dal letto e prima di uscire dal cono di calore proiettato dal soffitto, indossò una leggera vestaglia. Rabbrividì. Si mise a canticchiare un paio di strofe di Baciami a zero G e accennò un passo di danza, cosa che fece scattare il gatto alla rincorsa dei suoi piedi.
— Da dove arrivi, Lucky? — ripeté Phil, e mentre si dirigeva verso la finestra, il suo sguardo cadde sul tubetto semivuoto dei sonniferi. Per un attimo fu assalito da un dubbio inquietante: forse un’eccessiva quantità di pillole aveva fatto scattare dentro di lui una molla che aveva alterato il suo equilibrio? Dopo tutto, quel gatto non era normale (e neppure le allucinazioni), e il suo folle, inesplicabile senso di esaltazione era troppo simile alle fantasie di divina perfezione tipiche dei paranoici.
Poi raggiunse la finestra e il suo umore subì un ulteriore cambiamento, che gli fece dimenticare tutti i suoi timori.
La finestra si apriva a strapiombo su una strada angusta dominata dalla facciata esterna del gigantesco hotel riadattato in cui abitava Phil. Sporgendosi dal davanzale, a rischio dell’osso del collo, poteva sbirciare al di là della strada e scorgere l’angolo ricoperto di scritte pubblicitarie del Centro di Lotta della Divertimenti SpA con il suo eliporto sul tetto. L’hotel era stato costruito come residenza di lusso per i nuovi ricchi della guerra degli anni Settanta, ma durante la grande crisi di alloggi del decennio successivo le sue vaste stanze erano state suddivise in tante cellule dormitorio. L’edificio tuttavia conservava ancora alcuni segni dei suoi giorni di gloria: le ampie finestre rotonde munite di doppi vetri polarizzati, di cui quello interno poteva essere ruotato in modo da ottenere la perfetta trasparenza oppure la completa oscurità, con tutte le gradazioni intermedie. Ma c’era un altro lusso fuori dal comune: le finestre erano vere finestre e si potevano aprire. A causa del riscaldamento radiante dei letti e dei guasti del sistema di condizionamento dell’aria, quest’ultima possibilità era sfruttata più spesso di quanto ci si sarebbe potuto aspettare, anche se i vetri erano tenuti chiusi per la maggior parte delle ore diurne.
A Phil l’interminabile parete grigia sotto la sua finestra, con quelle file di orribili oblò quasi tutti oscurati, era sempre sembrata la vista più opprimente del mondo: un simbolo di come lui stesso fosse escluso dalla vita e dalla gente.
Ma ora, mentre si sporgeva solo un poco, sfiorando con la testa il bordo circolare, scoprì di potere attraversare quel muro col pensiero, quasi che esso fosse composto di un qualche materiale che conduceva le emozioni, come un filo di rame conduce l’elettricità. Gli pareva non di vedere o pensare attraverso il muro, ma di sentire la trama molteplice di calde, pietose, ammirevoli, ridicole vite umane racchiuse in quei cubicoli: quelle felici per due quinti, e quelle tristi per nove decimi. Le vite di coloro che nutrivano paure e frustrazioni perché bisogna pur nutrire qualcosa, e le vite di quelli che facevano delle proprie paure e frustrazioni una pietosa armatura: il vecchio che sceglieva preoccupato fra le magre tessere alimentari guadagnate in tre guerre comunisto-capitaliste; il ragazzino che giocava all’astronauta e faceva finta che la finestra oscurata fosse il portello di un incrociatore spaziale da fumetti; le tre segretarie disoccupate (una delle quali stava camminando su e giù); i due amanti il cui incontro era turbato dalla paura del Federal Bureau of Morality; l’uomo grasso che si godeva le carezze di una ragazza attraverso la sensoradio e pensava a un tempo lontano; la vecchia signora piena di paure per i germi bellici e le ceneri radioattive che spolverava, spolverava, spolverava…
La sua nuova personalità era dotata di una straordinaria immaginazione, concluse Phil sorridendo.
Una vecchia mano sbucò da una finestra tre piani più sotto e scosse qualcosa, o forse niente, da uno straccio.
Si trattava di una coincidenza, senza dubbio, oppure gli era capitato una volta di osservare la donna, e poi se n’era dimenticato. Tuttavia Phil decise di interpretare quell’evento come un’incoraggiante conferma delle sue nuove facoltà. Poi il sorriso gli svanì dalle labbra, mentre pensava alla parete e a quello che c’era dietro di essa.
A quella finestra aveva tascorso un’infinità di ore noiosamente eccitanti a spiare le attività di tutte le giovani donne i cui cubicoli si trovavano anche lontanamente nel suo campo visivo. Tutte, tranne la nuova ragazza dai capelli neri, legati a coda di cavallo, che abitava proprio il cubicolo di fronte al suo, e che di tanto in tanto aveva sentito esercitarsi al tip-tap. La sua finestra era un po’ troppo vicina, e poi, malgrado fosse piuttosto bella, si sentiva vagamente intimorito da lei. C’era qualcosa di inquietante in quella ragazza, di ferino, e in ogni caso i suoi vetri erano sempre oscurati con cura. Anche in quel momento infatti la finestra era buia, anche se leggermente aperta.
Ma tutte le altre ragazze erano state oggetto del suo instancabile quanto sterile interesse. A cominciare da quella carina, biondo-verde che abitava in basso a sinistra, la signorina Phoebe Filmer (era perfino riuscito, con insolita determinazione, a scoprire il suo nome): aveva dedicato una buona parte del suo tempo libero a quella eccitante civetta. E infatti eccola lì, proprio in quel momento, che si aggirava con addosso una vestaglietta molto corta, ispezionando vari capi di biancheria intima. Era una situazione estremamente promettente, che normalmente avrebbe inchiodato il povero Phil per una ventina di minuti o anche più. Ma ora scoprì di poter distogliere lo sguardo senza timore di perdere qualcosa. Buon Dio, se voleva vedere di più, in tutti i sensi, della signorina Phoebe Filmer, non doveva far altro che cercare di conoscerla.
— Prrrt! — Una palla morbida e pelosa si posò sulla sua mano e guardando in basso vide il musetto verde di Lucky incorniciato fra il suo pollice e l’indice.
— Cosa c’è, micio?
Lucky piegò la testa in modo da sfregare la fronte e l’orecchio contro la sua mano e posò le zampe anteriori sul bordo della finestra. Subito Phil circondò con il braccio il petto del gatto. Non voleva che Lucky raggiungesse il davanzale esterno. Anzi, si rese conto, improvvisamente, che non voleva che Lucky lo lasciasse; ma qualcosa gli diceva che non sarebbe stato in grado di fermarlo, se il gatto avesse veramente voluto andarsene.
Con una certa vergognosa soddisfazione gli venne in mente che tutti gli animali domestici erano rigorosamente vietati nella Skyway Tower (i gatti e i cani erano diventati piuttosto rari dai tempi della guerra batteriologica, quando erano stati decimati come possibili portatori di germi), per cui il proprietario, apertamente, non avrebbe potuto far nulla per reclamarlo indietro.
Ma Lucky non pareva avesse alcuna intenzione di andarsene. Saltò sul pavimento e guardò Phil con aria affamata.
— Prrrt!
— Vuoi qualcosa da mangiare, vero?
— Prrrt-prt!
Phil fece mentalmente un inventario delle provviste e la sua scelta cadde, senza sapere il perché, sul concentrato di mirtilli. Sembrava del tutto inadatto per un gatto, eppure qualcosa gli diceva che per Lucky sarebbe andato benissimo.
Fu presto fatto. Immerse nell’acqua una tavoletta rosso scura, dura come il marmo, che immediatamente si gonfiò fino ad assumere le dimensioni di una palla da golf color rubino. Poi, seguendo un altro impulso improvviso, ci versò sopra il contenuto sciropposo di una capsula di vitamine.
Quest’ultimo ingrediente aveva un odore piuttosto rancido, e posando a terra lo strano miscuglio Phil cominciò a nutrire qualche dubbio. Lucky invece l’esaminò con evidenti segni di approvazione, miagolando avidamente. Ma non si mise a mangiare, rimase a guardare l’uomo. A Phil venne in mente che i gatti sono molto gelosi della loro intimità, e forse Lucky voleva mangiare da solo.
— Bene, amico, io vado a farmi la doccia. E ti prometto di non spiare.
Nel bagno, regolò i rubinetti in modo da avere un getto alternativamente tiepido e molto caldo. Ma, senza ragione, la doccia si mise a somministrargli scrosci di acqua gelida e bollente. Balzò da sotto il getto con un urlo. Tuttavia l’incidente non cambiò affatto il suo buon umore. Mentre si asciugava da solo (non gli piaceva il getto d’aria calda, e i robot asciugatori lo mettevano a disagio) cantò:
Com’è bello volare a zero-G!
Balla con me nell’aria, a zero-G.
Il soffitto non c’è più, il pavimento non c’è più:
stringimi, amami, tesoro, a testa in giù!
Quando uscì dal bagno si sentiva come un imperatore. Era deciso a ispezionare quel mondo che era suo, quel mondo che era di chiunque avesse il coraggio di chiederlo. Mentre si infilava maglia, calzoni, scarpe e giacca, spiegò al gatto, ormai sazio, i suoi nuovi sentimenti.
— Vedi, amico, la situazione è questa: sono sempre stato per tre quarti morto. Ma ora è finita. Sono stufo di sentirmi spaventato, messo da parte, annoiato. Basta con questi stupidi lavori di riempire schede, controllare quadranti o tagliare nastri, con la paura che inventino da un momento all’altro un nuovo robot. Adesso esco e mi guardo un po’ attorno, parlo con la gente, cerco di rendermi conto di come vanno le cose. Avrò delle avventure, mi sentirò finalmente vivo! Non c’è male come programma, vero? E sai chi è il responsabile di tutto questo, amico? Tu.
Lucky sembrò diventare quasi fluorescente per la soddisfazione e arruffò la sua verde pelliccia.
Phil si chiese che ore fossero. Il suo orologio da polso si era fermato il giorno prima, quella baracca, dopo solo cinque mesi che aveva cambiato le batterie. Sporse la testa dalla finestra e i suoi occhi corsero verso l’alto, lungo la facciata vertiginosa del palazzo, fin dove gli oblò non erano che piccoli puntini e appariva una stretta striscia di cielo blu. Soltanto l’ultima finestra sul lato est era illuminata di giallo dalla vera luce solare, mentre il falso sole, lo specchio di sodio che orbitava attorno alla Terra per rischiarare di notte la città, gettava la sua luce dieci piani più in basso.
Prese Lucky in braccio, senza neppure considerare la possibilità di lasciarlo a casa, e senza preoccuparsi dell’attenzione che poteva attrarre. Ma il gatto verde saltò immediatamente a terra e si diresse verso la porta d’ingresso, guardandolo come per dire: “Sono disposto a seguirti in ogni avventura, ma non ho bisogno di una balia”.
Fianco a fianco raggiunsero le scale e scesero al ventottesimo piano (l’ascensore, sovraccarico di lavoro, si fermava solo ai piani pari). E qui Phil si imbatté proprio nella signorina Phoebe Filmer, con la sua vestaglia frusciante, che a quanto pareva si stava dirigendo verso lo snack bar situato su quel piano.
— Salve, signorina Filmer — si sorprese a dire. — È da molto tempo che vi ammiro.
— Davvero? — disse lei guardandolo di sottecchi. — Come fate a sapere come mi chiamo?
— Ho chiesto al robot portiere chi fosse la deliziosa ragazza del 28-303a.
Lei fece una risatina maliziosa.
— Non si può parlare coi robot portieri; potete solo schiacciare bottoni. E non danno i nomi degli inquilini, a meno che non abbiate un’autorizzazione governativa — commentò con una punta di disprezzo.
— Io ci so fare coi robot — spiegò Phil. — Me li faccio amici con qualche chiacchiera.
— Bravo — osservò la signorina Filmer, voltando la testa e passandosi le dita fra i capelli biondo-verde.
— A proposito, vi piace il mio gatto verde? — chiese Phil.
— Un gatto verde! — esclamò eccitata la signorina Filmer. Guardò in basso e rialzò immediatamente lo sguardo con aria scettica. — E dov’è?
Anche Phil guardò in basso. Lucky era sparito. Gli sembrò di avere improvvisamente un blocco di ghiaccio nello stomaco. — Scusatemi — disse. — Spero di vedervi ancora.
Partì di corsa verso la rientranza dove si trovava l’ascensore. Lucky era davanti alla porta.
— Accidenti, amico — gli disse Phil — mi hai fatto prendere un colpo.