CAPITOLO NONO

Nonostante la continua presenza dei membri delle varie compagnie militari che montavano la guardia nella città per tutta la notte, non si udiva alcun rumore tra i vicoli e le strade, eccettuato quello pesante dello scrosciare della pioggia.

Dopo aver terminato di cenare — una magra razione di farinata e di formaggio — Gil si unì alle Guardie che dovevano compiere il primo turno nella Sala Municipale. I profughi si erano accalcati al riparo di quel grande spazio semivuoto e, quando la ragazza entrò, si chinarono al suo passaggio come facevano per tutte le altre Guardie.

Rudy si accorse del cambiamento avvenuto nella sua compagna d’avventure quando più tardi entrò nell’oscurità fumosa della sala: rimase confuso, soprattutto perché la sua esperienza con le donne era, sebbene vasta, avvenuta in un ambiente dove poche erano le ragazze come Gil.

«Dicono che fai di tutto per evitare di andare in prima linea» le disse scherzando, mentre le si avvicinava.

Gil sorrise.

«Siamo tutti in prima linea», rispose con calma, «e, se devo andare là fuori, almeno ci andrò con un’arma in mano.»

«Hai visto in che modo si addestrano?»

La voce di Rudy tremò un poco.

«Ne vale la pena per imparare qualcosa…»

Entrambi sapevano che non era quello il motivo che aveva spinto Gil ad accettare l’offerta di Gnift di entrare in quel Corpo scelto, ma a tutti e due sfuggivano le vere ragioni che l’avevano condotta a quel gesto.

Durante la prima parte della serata, la grande sala mostrò qualche segno di vita, senza però giungere agli scontri ed alle liti della sera precedente. Il massacro a Karst aveva piegato i bollenti spiriti dei sopravvissuti, ed ora erano tutti contenti di aver trovato quel rifugio perché non c’era più alcun luogo verso il quale fuggire o dove nascondersi.

Rudy rimase sorpreso dal vedere quanta gente ancora affollasse la sala. Alcuni addirittura li riconobbe: c’era l’uomo grasso con il rastrello e la coppia di anziane prostitute con le quali aveva scambiato qualche battuta la notte prima, nei boschi. Più in là, poté scorgere anche la nidiata di bambini imbaccuccati che sembravano aver assunto come loro custode una ragazza addormentata…

I dispersi che si erano nascosti nei boschi per tutto il giorno ora cominciavano ad affluire nella sala a piccoli gruppi; prima uno o due per volta, poi pian piano più numerosi, insieme a quelli che, separati dalle loro famiglie, si erano rifugiati in altri edifici della città. Seduto nel posto di Gil, accanto all’ingresso, vide entrare nella sala uomini stanchi e laceri, sia vecchi che giovani, e tutti si muovevano lentamente tra i piccoli gruppetti che si erano formati spontaneamente, trascinandosi dietro i loro miseri averi alla ricerca di qualche viso noto.

Furono molte le lacrime: qualche volta, ma raramente, accadeva che qualcuno incontrasse la persona cercata, ed allora vi erano ancora lacrime, domande ansiose, e risposte troppo spesso sconsolanti.

Ancora più spesso chi stava cercando si allontanava frettolosamente. Un uomo robusto, sulla quarantina, coperto dai resti di una veste un tempo sicuramente splendida, cercò affannosamente per tutta la sala per più di due ore, poi cadde a sedere, stremato, su una pila di utensili rotti e di stracci accanto alla porta, e lì rimase a piangere come se il suo cuore si fosse spezzato.

Rudy rimase colpito da quelle scene, e sentì pian piano il suo cuore diventare freddo ma, all’improvviso, dalle ombre della grande scala uscì la Guardia dai capelli grigi, Seya, con il volto tirato e truce.

«Qualcuno di voi sa dove potrebbe essere Ingold?», chiese a mezza bocca. «C’è un uomo malato, ed abbiamo bisogno del suo aiuto.»

«Dovrebbe essere ancora nella posteria», rispose Gil.

«Andrò io a cercarlo», disse Rudy.

Il ragazzo si allontanò attraverso la piazza principale alla luce di una torcia che illuminava a sprazzi le lucide pozzanghere create dalla pioggia. La vecchia fontana faticava a smaltire quell’eccesso d’acqua e già traboccava con un getto scuro da un lato. Il vento freddo sferzò le gambe di Rudy sotto l’orlo del mantello svolazzante ed ormai fradicio.

Neppure i Guerrieri del Buio, pensò, oserebbero uscire con un tempo simile…

Un riflesso dorato lo condusse verso il cancello del posto di guardia. Qualcuno che era riuscito a rifugiarsi nelle vecchie stalle stava suonando uno strumento a corda e cantava:

«Il mio amore è come un mattino di primavera

Un falcone veloce quando prende il volo.

Ed io, una colomba, volerò dietro di lui,

per percorrere le vie del cielo estivo…»

Era una semplice canzone d’amore, piena di parole di speranza e ricche di un loro particolare calore, ma il tono era gonfio di malinconia e di una rabbia dolorosa. La voce del cantante venne pian piano sommersa dallo scroscio della pioggia…

Rudy entrò nel rugginoso cancello e cercò a tastoni la via che conduceva all’infida scala, guidato soltanto dalla debole luce che proveniva dal basso.

Trovò Ingold seduto da solo nella sua stanza. Una sfera luminosa, dotata di una incandescenza scura e bluastra, gli pendeva sul capo mettendo in risalto gli angoli delle sopracciglia ed il naso, e gli appiattiva gli zigomi aguzzi. Davanti a lui, il cristallo giaceva sul davanzale della finestra, ed i suoi riflessi colorati lo circondavano di un anello fiammeggiante.

Silenzio e pace regnavano nella stanza. Per un attimo Rudy esitò: non voleva disturbare la meditazione di Ingold. Osservando gli occhi del Mago, capì che in quel momento stava guardando nelle profondità del cuore del cristallo, un’immagine che per lui era luminosa e chiara come una fiamma limpida. Il giovane comprese che la sua intrusione avrebbe frantumato il silenzio profondo che rendeva possibile quella concentrazione. Così attese, e quell’assenza di rumore filtrò fino al suo cuore pervadendolo di una pace simile a quella insondabile del sonno.

Dopo un po’, Ingold alzò la testa.

«Volevi me?»

La luce sopra di lui divenne più intensa, illuminando con un alone argenteo i suoi capelli arruffati e la barba. L’alone quindi si ingrandì fino ad illuminare le forme oscure dei sacchi e dei barilotti, i giunchi, e la segatura che ricopriva il pavimento, raggiungendo la ragnatela di crepe sul soffitto e spegnendo le ombre che sparirono come misteriosi segni magici.

Rudy annuì, rimpiangendo quell’istante di tranquillità.

«C’è un malato giù nella sala», disse a voce bassa. «Credo che sia grave, visto che mi hanno mandato a cercarti.»

Ingold sospirò e si alzò scuotendo il suo mantello.

«Lo temevo», disse.

Prese il cristallo, se lo infilò in tasca, poi si avvolse ben bene nel mantello, si alzò il cappuccio sulla testa, e si avviò verso la porta con la luce che lo seguiva.

«Ingold?»

Il Mago si fermò, alzando le sopracciglia con fare interrogativo.

Rudy esitò, quasi considerasse sciocca la domanda che stava per fare, ma non riuscì a trattenersi.

«Come fai a farlo?», chiese. Indicò l’esile bagliore che circondava la figura del Mago. «Come riesci a creare questa luce?»

Il vecchio alzò la mano con il palmo aperto; lentamente, il bagliore luminoso aumentò.

«Tu sai cos’è, e la fai venire,» rispose con la sua solita voce bassa, chiara e graffiante. Il chiarore nella sua mano si intensificò diventando sempre più forte, fino al punto che Rudy dovette socchiudere gli occhi per continuare ad osservarla.

«Basta che tu ne conosca il vero nome e l’essenza», continuò il Mago. «Chiamarla poi è facile. È come raccogliere un fiore che cresca sull’altro lato di una staccionata.»

Contro l’accecante luminosità bianca si spostava un mare di ombre; Rudy osservò le dita di Ingold stringersi lentamente intorno a quella sorgente invisibile. Per un istante il raggio trapassò le sue falangi, poi si affievolì e scomparve.

Tornò il bagliore diffuso di prima che deviò verso la tromba delle scale precedendoli ad illuminare loro il cammino.

«Non c’è competizione tra voi a Quo?», chiese Rudy, accingendosi a scendere.

«È come hai detto: nessuna competizione!», rispose Ingold sorridendo.

Rudy, osservando il vecchio Mago, ricordò che era stato proprio quell’uomo a spiegargli il complesso ed affascinante meccanismo delle lingue, e lo rivide ancora mentre affrontava il Buio nelle Volte armato soltanto della luminosa fiamma del suo potere.

«Gli altri Maghi sono tutti come te?», chiese ancora.

Ingold sorrise di nuovo, ed il suo volto assomigliò a quello di un bambino cresciuto.

«No, grazie a Dio no. I Maghi appartengono ad una razza del tutto particolare, con determinante caratteristiche individuali. Siamo ottimi bardi e guerrieri, ma difficilmente ci assomigliamo.»

«E Lohiro, com’è?»

Rudy non riusciva ad immaginare l’uomo che Ingold chiamava Capo. Si chiese come mai quel vecchio dissidente e rissoso potesse andare d’accordo con colui che stava al di sopra di tutti gli altri Maghi di quel mondo.

«È una buona domanda», ammise Ingold senza smettere di sorridere per la curiosità fanciullesca di Rudy. «Chiunque lo abbia conosciuto ne ha riportato un’impressione diversa. Qualcuno dice che è come un drago per il suo coraggio, la sua astuzia, la sua audacia, e la sua capacità di valutare gli avvenimenti… e come un drago appare a quelli che incontra, fatto di luce e di fuoco. Spero che un giorno tu possa avere l’opportunità di valutarlo da te.»

I due si fermarono sulla soglia. Alle loro spalle c’era il rifugio delle Guardie seminascosto dalle violente folate di pioggia; davanti a loro, la fossetta di scolo della strada rumoreggiava per la corrente che vi si era formata, simile a quella della gora di un mulino. Il terreno della piazza era diventato una massa ribollente di fanghiglia.

«Ti piace quell’uomo?», chiese Rudy all’improvviso.

«Gli affiderei la mia stessa vita!», rispose Ingold con decisione. «E sono affezionato a lui quasi fosse mio padre…»

Dopo queste ultime parole, Ingold si girò e scomparve nelle ombre cupe della strada; Rudy lo vide allontanarsi — una figura curva e stanca — e si rese conto che lo Stregone gli aveva, forse per la prima volta, dato una risposta sincera sui suoi sentimenti personali.

La pioggia luccicò ancora un attimo sul cappuccio dello Stregone prima che svanisse del tutto, quando passò sotto una finestra illuminata in fondo alla strada. La luce era fioca, forse si trattava del debole bagliore di una candela o di una piccola lampada. Lo sguardo di Rudy si puntò su quei vetri e scorse una sagoma muoversi dietro le finestre.

Conosceva quella casa…

Dopo un momento d’esitazione si fece coraggio.

Che diavolo! Perché no?, pensò.

Si mosse dal riparo del cancello e corse lungo la via, buia sotto la pioggia.

Alde alzò il viso spaventata, udendo il picchiettare sulla porta aperta della camera. Poi lo riconobbe, ed i suoi occhi viola si illuminarono di piacere.

«Ciao.»

«Salve…», rispose impacciato Rudy, entrando nella stanza e cercando di evitare il disordine che vi regnava. Letto, sedie e pavimento erano cosparsi di vestiti, libri ed oggetti vari. Su un paio di pettini rilucevano due grandi rubini rosso scuro e, accanto a loro, vi era un paio di guanti bianchi. Minalde aveva indosso la veste bianca che portava il giorno del suo incontro con Rudy. Evidentemente doveva essere uno dei suoi abiti preferiti, come un vecchio paio di comodi jeans. I suoi capelli neri, sciolti, le scendevano in lunghe onde scure sulle spalle esili.

«Sono venuto a vedere se avevi bisogno di aiuto per sistemare le tue cose.»

«È molto gentile da parte tua,» sorrise Minalde, «ma non ho bisogno di aiuto: piuttosto mi servirebbe un cervello di riserva per riuscire a mettere ordine in questo caos…»

Gesticolò eloquentemente verso la confusione che la circondava.

Ci fu un calpestio di scarpe dai tacchi pesanti alle sue spalle, e la donna bassa e massiccia che Rudy aveva incontrato sulla terrazza — Cristo, era soltanto ieri? pensò — entrò nella stanza tutta agitata, trascinandosi dietro un cesto ed una pila di sacchi vuoti stretti sotto le braccia. Il donnone gli rivolse uno sguardo di sprezzante indifferenza, e non si degnò di rivolgergli la parola. Ad Alde però disse:

«Questo è tutto quello che ho potuto trovare, Maestà, e possa essere maledetta se non riuscirò a stipare tutto in un carro. Tutto, compreso il baule del mio Signore Alwir!»

«Bene Medda.» Alde sorrise, raccogliendo i sacchi. «È già un miracolo che tu sia riuscita a trovare questa roba. Grazie.»

La donna più anziana sembrò tranquillizzarsi.

«Questa casa è veramente simile ad un mattatoio, e per questo non sono riuscita a fare di più. Soltanto non so come farà sua Maestà, obbligata a viaggiare in un carro con i soli vestiti che ha indosso e niente altro… Come riusciremo a raggiungere Renweth vive, non lo so proprio!»

«Ce la faremo!», rispose la ragazza. «Alwir ci guiderà.»

Senza una parola né un’altra occhiata a Rudy, Medda si allontanò verso l’angolo della stanza dove iniziò a piegare coperte e lenzuola chiudendole in uno dei sacchi. Alde intanto era tornata al suo bagaglio e prese in mano, per riporlo, un grande mantello di velluto rosso con qualche vistosa bruciatura che Rudy riconobbe come quello indossato quel pomeriggio da Alwir.

«La maggior parte di questa roba è di Alwir», disse la ragazza rivolgendosi a Rudy e scuotendo il capo a causa del gran mucchio di mantelli, uniformi e vestiti che ricopriva il letto. «Mi ha chiesto di aiutarlo a riordinare le sue cose, ma è difficile scegliere cosa prendere o cosa lasciare.»

Messo via il mantello, afferrò una trapunta di seta ricamata con delle stelle dai colori cangianti. Rudy, abituato ad aiutare sua madre, si precipitò in suo soccorso e ne ricevette un sorriso come ringraziamento.

«Fare il mio bagaglio è stato facile», le disse. «Tutto quello che possiedo è un cucchiaio ed una coperta. Tu però, per essere una Regina, stai portando via veramente poche cose.»

Alde sorrise di nuovo, ed agitò la testa per allontanare qualche ciocca ribelle dagli occhi.

«Hai visto il carro che mi è stato destinato? È grande quasi quanto quel letto. Di solito non sono così ingombrante: dovunque vada, sembra sempre che debba portare con me carri e carri di cose, libri, mantelli, vestiti, giochi… ma la mia cameriera…», la voce le si spezzò quasi fosse inciampata durante una corsa. Terminò la frase tremando e con un filo di voce, «… di solito porta molto più di me…» Poi, con una delicatezza forzata, continuò: «Nei viaggi più lunghi ho portato con me la mobilia, la biancheria da letto, il servizio da tavola e le finestre…»

«Finestre?»

«Certo!» Alde lo guardò con autentica sorpresa; nel fervore del discorso aveva completamente dimenticato, così come era avvenuto al Falcone di Ghiaccio quando parlava con Gil, di avere di fronte uno straniero venuto addirittura da un altro mondo. «Hai idea di quanto costi un vetro? Anche noi, pur appartenendo alla classe nobile, dobbiamo portarci dietro le nostre finestre quando viaggiamo. Non possiamo certo permetterci di avere delle finestre in ogni casa…» Sorrise vedendo che Rudy adesso aveva capito. Poi, un po’ più mestamente, continuò: «Immagino che però non ne avremo bisogno nel Torrione di Dare…»

«Com’è?», chiese Rudy. «Voglio dire, il Torrione di Dare.»

Lei scosse la testa.

«Veramente non lo so. Non ci sono mai stata. Gli antichi Re hanno abbandonato Renweth molto tempo fa… fino a che… Eldor…», di nuovo l’esitazione di poco prima la colpì e sembrò quasi che faticasse a pronunciare quel nome, «fino a che il Re non vi tornò qualche anno fa per lasciarvi una nuova guarnigione. Penso che nessun altro Re di Darwath vi abbia messo piede da generazioni. Ma lui lo ricordava… così come lo ricordava mio nonno.»

«Tuo nonno?»

«Oh, si. Il nostro Casato, il Casato di Bes, discende dai Dare di Renweth… una discendenza collaterale. Di tanto in tanto, le memorie affiorano anche nella mente della mia gente e, qualche volta, risalgono a centinaia di anni fa. Mio nonno parlava sempre dell’oscurità che regnava nel Torrione, del fumo e dell’odore… Diceva che ricordava dei passaggi labirintici appena illuminati da lampade a olio, e vecchie scale malferme ed improvvisate che salivano e scendevano in quella oscurità. Ricordava se stesso — forse Dare o qualche altro antenato — che camminava attraverso quei corridoi senza sapere se fosse estate o inverno, giorno o notte: c’era sempre quell’onnipresente luminosità delle lampada. Quando ne parlava», continuò Alde e le sue mani si immobilizzarono, bianche e diafane contro i colori della veste che indossava, «riuscivo quasi a vederlo, tanto mi sentivo vicina a lui. Riuscivo a vedere quelle scale che si alzavano sopra la mia. testa come instabili impalcature, e quell’incostante bagliore sulla pietra… Sentivo quell’odore umido e tenebroso come di vecchie coperte ammuffite e di abiti sporchi, e percepivo la tetra oscurità che ci circondava. Sarà stato duro vivere per tanto tempo alla luce delle torce.»

«Tanto tempo… è un periodo troppo lungo… un’eternità!», disse Rudy, e Minalde volse il viso da un’altra parte.

Continuarono ancora a parlare del Torrione, del Palazzo di Gae, e delle tante cose che avevano riempito la vita della Regina di Darwath. Il fuoco ardeva nel braciere aperto e riscaldava la stanza, mentre le fiamme creavano un gioco di luci ambrate sul mucchio di carboni ardenti; tra gli alberi piegati aleggiava un lieve sentore di canfora e di sacchetti profumati di limone.

«Temo che troppe di queste cose dovranno essere abbandonate», sospirò Alde. «Abbiamo soltanto tre carri, ed uno deve essere usato per i documenti e gli archivi del Regno.» Si sedette sul pavimento facendo scorrere tra le mani i libri di un’alta pila che si trovava accanto a lei. La luce del fuoco brillò sui loro bordi irregolari e diffuse un bagliore dorato, simile ad un’abbronzatura, sulla pelle liscia del suo mento e della gola. «Avrei voluti prenderli tutti, ma alcuni sono terribilmente frivoli. I libri sono pesanti per cui, quelli che dovremmo portare con noi, riguarderanno solo argomenti seri ed importanti, come filosofia e teologia… Questi saranno i soli libri sui quali potremo contare per molti anni nel Torrione.»

Al di là della sua voce gentile, Rudy ebbe l’impressione di riascoltare l’eco di un’altra voce, quella di Gil che diceva:

«Vi rendete conto di quanti capolavori dell’antica letteratura sono sopravvissuti? Tutto perché qualche monaco cristiano non pensava che fossero tanto importanti da dover essere conservati!

Aveva dimenticato il contesto nel quale aveva sentito quelle parole, ma le ricordò ugualmente ed azzardò un’osservazione.

«Molto probabilmente saranno parecchie le persone alle quali interessa la filosofia e la teologia…»

E Dio sa che non vorrei essere rinchiuso per anni senza avere altro da leggere che la Bibbia!, pensò.

«È vero», disse Alde soppesando i libri che teneva in mano, quasi stesse paragonando il piacere ed i sentimenti ai geometrici cavilli scolastici. Poi girò la testa e la sua chioma scura sfiorò il ginocchio di Rudy che si era seduto sul bordo del letto alle sue spalle. «Medda?», chiamò.

La robusta cameriera, che fino a quel momento era rimasta a lavorare chiusa nella sua silenziosa disapprovazione per la sconveniente presenza di Rudy, si avvicinò con quel suo fare impercettibilmente svenevole.

«Si, mia Signora?»

«Potresti andare nel ripostiglio a vedere se riesci a trovare un altro baule? Uno piccolo?»

La donna si inchinò.

«Certo, mia Signora.»

Il rumore dei suoi passi pesanti echeggiò a lungo nella stanza anche dopo che se ne fu andata.

Rudy pensò tra sé:

Un punto a favore di Gil e dell’antica luce!

Alde gli sorrise tra lo sfavillio degli orli dorati.

«Non ti accetta: non può farlo. È troppo presa dal fatto che io sia la Regina. È stata la mia nutrice fin da quando ero piccola, ed ha accumulato molta esperienza nel suo ruolo. Non è così quando siamo sole… non farti impressionare da lei.»

Rudy le sorrise a sua volta.

«Lo so. La prima volta che vi vidi insieme, pensai che tu fossi una giovane cameriera, dato il modo con cui lei ti dava degli ordini.»

Le belle sopracciglie nere si alzarono, ed una luce divertita brillò nei suoi occhi.

«Se tu avessi saputo fin da allora che io ero la Regina di Darwath, mi avresti parlato?»

«Beh… voglio dire…», Rudy esitò. «Veramente non lo so. Se qualcuno mi avesse detto: «Guarda quella è la Regina…», forse non ti avrei neppure guardata.» Il giovane scosse le spalle. «Nel mio paese non esistono Re e Regine.»

«Davvero?» Alde aggrottò le ciglia, confusa da quella novità, impensabile per lei. «Chi vi governa allora? E la tua gente, chi ama ed onora? E poi, ancora: chi difende l’onore del tuo popolo?»

La domanda risultò incomprensibile per Rudy; la maggior parte del tempo trascorso a scuola lo aveva passato a cercare di evitare le lezioni, ed aveva soltanto una pallida idea di come funzionasse il sistema politico degli Stati Uniti. Cercò però di farne un quadro approssimativo per Minalde, raccogliendo quel poco che ricordava, e la Regina lo ascoltò con espressione attenta, le mani strette intorno alle ginocchia accostate.

«Non penso che riuscirei a sopportarlo,» disse alla fine della spiegazione di Rudy. «Non tanto perché sono la Regina, quanto perché sembra tutto così distante, impersonale!» Appoggiò la testa alla spalliera del letto, vicino al ginocchio di Rudy. Il bagliore ambrato del fuoco la faceva sembrare giovanissima, anche se accentuava i segni della fatica e della stanchezza sui suoi fragili lineamenti. «Io però non sono più una Regina», aggiunse con tono triste. «Oh, si, vengo ancora onorata, tutti si inchinano davanti a me… E tutto questo nel nome mio ed in quello di Tir… ma è tutto finito, non è rimasto nulla…»

La sua voce si interruppe di colpo quasi stesse lottando contro qualche violenta emozione.

Rudy scorse il brillìo di una lacrima nei suoi profondi occhi viola.


«È accaduto tutto così in fretta. Non è l’onore, Rudy, che cerco, né l’avere servi pronti ad ogni mia necessità… È la gente! Non mi interessa che ci sia qualcuno che mi prepara i bagagli: c’è sempre stato qualcuno che lo faceva per me. Ma quei servi, la gente del Palazzo, mi sono stati vicini per anni. Alcuni di loro appartengono alla nostra Casa fin dalla mia infanzia… sono stati con me fin da quando sono nata. La gente ama le Guardie che sorvegliano le mie stanze; io non le conosco bene, ma fanno parte della mia vita, una parte alla quale non ho mai pensato seriamente ma, adesso che costoro sono morti, mi accorgo di quanto mi pesi la loro assenza!»

La sua voce vacillò, poi ritornò più dura.

«Sai, c’era un vecchio schiavo doic che lavava i pavimenti nella sala del Palazzo. Probabilmente lo aveva fatto per tutta la vita e non doveva avere più di vent’anni, un’età molto avanzata per loro. Anche lui mi conosceva: borbottava e mi sorrideva quando mi vedeva passare. Nell’ultima battaglia nella Sala del Trono a Gae, afferrò una torcia e si gettò contro i Guerrieri del Buio, agitandola come gli uomini agitano le loro spade… L’ho visto morire. E con lui ho visto morire tante persone che conoscevo…»

Una lacrima scese lungo la curva della sua guancia, e i suoi occhi si alzarono ad incontrare quelli del giovane, cercando conforto e riparo contro la paura e la rabbia che la stavano invadendo.

«Non è l’essere Regina o non esserlo più!», continuò, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. «È conservare qualcosa di tutta una vita. Tir è tutto ciò che mi è rimasto, ma nell’ultimo combattimento ho dovuto lasciare anche lui. Io e la mia cameriera lo rinchiudemmo in una stanzetta dietro il trono… in quel momento c’era bisogno di ogni braccio e, anche se nessuno di noi l’aveva maneggiata prima, di ogni spada. Era come un incubo, qualche sorta di pazzo sogno… fuoco e oscurità. Penso di aver perso in quegli istanti parte della mia ragione. Credevo di morire e non mi interessava, ma ero spaventata dal fatto di aver abbandonato Tir e dal fatto che, forse, quegli esseri se ne sarebbero impadroniti…»

La giovane Regina pronunciò quelle parole immersa in una sorta di disperazione stupita.

«L’ho lasciato solo… e io… io dissi a Ingold che lo avrei ucciso se non avesse portato via Tir, anche se voleva rimanere e combattere con noi fino alla fine. Con la spada che avevo in pugno… l’avrei ucciso con quella!»

Per un istante i suoi occhi si persero, e sembrò non vedere nulla del riflesso dorato del caminetto, quanto piuttosto una scena troppe volte rivista.

Rudy disse gentilmente:

«Probabilmente non ti credette.» Fu ricompensato da un piccolo sorriso di derisione e dal ritorno alla realtà di quegli occhi ossessionati. «E comunque non credo che saresti riuscita a fargli del male…»

«No, hai ragione…» Alde sorrise ancora, tremante, come fanno le persone quando ricordano qualche passione disperata il cui ricordo sia stato stemperato dal tempo. «Ma non puoi capire come sia stato imbarazzante incontrarlo dopo.»

La memoria di quei sentimenti e della gaffe compiuta dalla Regina, come Ingold aveva detto, furono sufficienti a spezzare il cerchio di orrore di quel momento ed a far svanire quel ricordo funesto.

Fuori aveva quasi smesso di piovere, e il persistente picchiettio dell’acqua era diminuito fino a diventare un leggero fruscio sugli spessi vetri della finestra. Il bagliore dei carboni nel braciere si era trasformato in un chiarore diffuso come quello dell’ultima luce del tramonto.

Minalde si alzò ed attraversò l’oscurità della stanza per accendere un candeliere d’argento sulla tavola.

«Questo è accaduto perché non riuscivo a sopportare il fatto», continuò a voce bassa, quasi stesse parlando di un’altra persona, «che mio figlio potesse morire. Fino al momento in cui Ingold non venne da me qualche notte fa, cioè fino al momento in cui mi riportò Tir, io non sapevo nemmeno se fosse sopravvissuto. Tutto il resto, i Guerrieri del Buio che si scaraventano contro di noi, il loro contatto, i loro artigli simili a lame affilate, il viso del Falcone di Ghiaccio che si china su di me per raccogliermi dal pavimento delle Volte, mi sembra soltanto un sogno, qualcosa di irreale… Quello che ha contato per me in tutto questo tempo è stato che avevo abbandonato il mio bambino, l’unica persona, l’unica cosa che rimaneva, al di là di qualsiasi altra, nella mia vita…»

Le sue mani e la sua voce iniziarono di nuovo a tremare; Rudy si alzò e le si avvicinò nell’alone delle candele, prendendole le mani per fermarle.

Quel contatto bastò a calmarla, e sorrise, guardando lontano, oltre il viso del ragazzo.

«Alwir mi ha detto che sono stata in delirio per lo spavento,» disse dolcemente. «Sono felice però di non ricordare nulla del viaggio da Gae fino qui. Mi dicono che la città è stata distrutta… meglio così, perché potrò ricordarla in tutto il suo splendore!»

Alde fissò di nuovo Rudy e sulle sue labbra ricomparve quel dolce sorriso ironico.

«Quasi tutto quello che vedi qui appartiene ad Alwir: c’è ben poco di mio e, soprattutto, non ci sono le cose che avrei portato con me se avessi lasciato Gae ancora nel pieno della mia carica…»

«Non devi preoccupartene.»

«La scorsa notte, però,» continuò quasi senza prendere fiato, «penso che ti avrei ucciso se avessi cercato di ostacolarmi mentre stavo andando a prendere Tir: non volevo lasciarlo ancora! Ti sarò per sempre grata per il tuo aiuto, per essere sceso con me nelle Volte e per averci protetti tutti e due… anche se credo che avrei avuto il coraggio di scendere nei sotterranei da sola.»

«Continuo a pensare che saresti stata una pazza a farlo!», disse Rudy dolcemente.

Lei sorrise.

«Non ti ho mai detto di non esserlo.»

La pioggia era cessata completamente. Accanto a loro il nitido bagliore delle candele si diffondeva tranquillo, e la luce sembrò diventare più intensa in quel silenzio profondo ed immobile. Per qualche attimo furono circondati da una pace assoluta, ed essa donò loro un momento, curioso e isolato, di felicità, in quel mondo nel quale dominavano la confusione e la paura.

Rudy divenne consapevole, più di quanto lo fosse stato in ogni altro momento della sua vita, delle dita di Alde intrecciate delicatamente con le sue. Gli giunse il profumo dei suoi capelli, un misto di erba ed alloro, che si andò a confondere con quello di cera delle candele e con il cedro e la lavanda delle suppellettili e degli abiti.

Quasi fossero stati rinchiusi in un istante eterno, staccato dal tempo, erano soli ed in pace, l’uno con gli occhi fissi in quelli dell’altro, in una cornice morbida di ombre.

Guardandola, Rudy seppe — così come lo seppe Alde — cosa stava per accadere. Quella consapevolezza lo colpì come un fulmine, ma senza che ne fosse realmente sorpreso… Era una cosa che sapeva da sempre…

Rimasero così a lungo, impietriti da quell’improvvisa consapevolezza. Il solo rumore nella stanza era quello del loro respiro affrettato.

Poi si aprì una porta da qualche parte, e lasciò entrare un soffio d’aria gelida che fece piegare la fiamma delle candele portando con se l’eco lontana della voce di Alwir:

«… i ponies intorno al cortile. Ci vorrà tutta la notte per caricarli… le vostre cose andranno nel terzo carro.»

A quella voce si aggiunse anche quella di Bektis, incomprensibile, che rispondeva e quella più querula di Medda, accompagnata dall’improvviso tintinnio delle cinture con le spade e di maglie di ferro.

Alde si scostò come per andarsene, e Rudy la trattenne. I loro sguardi si incontrarono di nuovo, confusi, cercando ognuno una risposta a quel momento di profonda intimità che si era creato fra di loro. Il loro legame era cambiato, ed ora non era più possibile negare ciò che era avvenuto.

Nel viso di lei Rudy vide riflettersi il desiderio e la paura per questo sentimento appena trovato e, accanto a questo, lo stupore che stava provando per un espressione di affetto che non avrebbe mai creduto di poter dimostrare.

Il volto della giovane Regina si imporporò improvvisamente: ritrasse le mani e si allontanò, balbettando.

«Io… io non posso…»

«Alde…», la voce di Rudy era dolce e, udendola, la ragazza si fermò, con il respiro affannoso e irregolare quasi avesse corso a lungo. «Ci vedremo sulla strada domani.»

Lei sussurrò: «Va bene…», e distolse lo sguardo. Un attimo dopo, Rudy sentì l’eco dei suoi passi che si allontanavano dalla stanza.

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