CAPITOLO TREDICESIMO

Una volta lontani dalla protezione della valle, il vento cominciò a tormentarli con forza maligna gelando le loro mani già provate dalla precedente scalata. A volte erano costretti ad addentrarsi nei boschi arrampicandosi pericolosamente su sentieri più adatti a capre che a esseri umani, resi scivolosi da neve e ghiaccio. Altre volte ad ostacolarli trovavano grovigli di vegetazione che li costringevano ad aggrapparsi per sorreggersi alle radici scorticate dal. vento di vecchi alberi, quasi fossero acrobati da circo.

Gil ed Ingold continuarono però imperterriti il loro cammino in quel mondo dove le uniche costanti erano il freddo, la pietra, il vento, ed il gorgoglio distante dell’acqua. Non avrebbero potuto fermarsi, neanche se l’avessero voluto: non c’era alcun luogo adatto ad una sosta prolungata. Senza i fili di luce magica che Ingold proiettava sui profili delle montagne, Gil era certa che non sarebbero mai riusciti a sopravvivere a quella scalata. Soltanto più tardi, ricordandola, provò un cupo senso di stupore per il solo fatto di avercela fatta…

Riuscirono a dormire in una profonda crepa su un pendio roccioso, stretti l’uno all’altra per riscaldarsi. Era il primo sonno vero che Gil riusciva a fare dopo oltre quarantotto ore. Nel mezzo della notte sentì il tempo che cambiava, e nei suoi sogni avvertì l’avvicinarsi della minaccia portata dalla neve.

La mattina il cammino si prospettò più semplice, non peggiore di un viaggio con qualche carico pesante sulle spalle. A mezzogiorno Ingold scovò la traccia di un sentiero che conduceva sulla parte occidentale a strapiombo e coperta di alberi della Rampart Range, da dove avrebbero potuto raggiungere nel pomeriggio la valle fredda e ventilata di Renweth.

Gil fissò il paesaggio socchiudendo gli occhi. Il vento freddo che spirava, le mozzava il respiro e creava forme simili a lunghe onde sull’erba incolore alta fino alle ginocchia.

«Cos’è quello?»

«È il Torrione di Dare.» Ingold sorrise incrociando le braccia per riscaldarsi, ma continuando lo stesso a tremare. «Cosa ti aspettavi?»

Gil non era più sicura di nulla. Pensava a qualcosa di più piccolo, di più medievale come struttura.

Certo non avrebbe mai immaginato di trovarsi davanti ad un monolito trapezoidale di pietra nera che si ergeva, quasi fosse stato generato dalle stesse viscere della montagna, su una grande collina situata ai piedi di quella lontana vetta dominata ancora dal buio.

La sua sommità superava la cima dei pini; un velo polveroso e sottile di neve fresca s’innalzava verso le nuvole. Non vi erano finestre sulle pareti, che si elevavano lisce e pulite quasi fossero fatte di un qualche genere di vetro.

«Chi diavolo l’ha costruito?», sussurrò Gil intimidita. «E quanto è grande?»

Soltanto ora riusciva a credere che in quella costruzione il genere umano sarebbe riuscito a sopravvivere al Buio. La forza dei Guerrieri poteva anche infrangere la pietra o il ferro, ma quella fortezza doveva essere certamente inespugnabile!

Con un senso di malcelata sorpresa, comprese che esisteva in quel mondo un rifugio dove potersi fermare.

«L’ha costruita il Dare di Renweth,» disse Ingold accanto a lei, «usando quanto rimaneva della tecnologia e del potere dei Regni Antichi. Un potere che va molto al di là di quanto siamo in grado di fare oggi. Diede riparo a coloro che erano sopravvissuti al primo attacco del Buio e, da quella costruzione, lui ed i suoi discendenti governarono questa valle, il Passo di Sarda, e tutti i territori che erano rimasti di un impero il cui ricordo era quasi del tutto svanito dalla memoria degli uomini. Per quanto riguarda la sua ampiezza,» guardò in lontananza contemplando il monolito scuro che dominava la distesa della valle, «non è molto grande. Può ospitare con qualche comodità circa ottomila persone, ma la valle può essere coltivata e dare così da vivere ad un numero doppio di individui. Non esistono documenti — se mai ce ne sono stati — di quanta gente sia riuscita ad ospitare in una sola volta.»

Mentre si avvicinavano tra l’erba bruna della valle, il Torrione sembrò diventare più grande nella luce chiara sotto il cielo grigio e nuvoloso. Gil si fermò ad osservare quel paesaggio: era una serie di campi montani dove crescevano pioppi, betulle e piante di cotone. Le foglie luccicavano spinte dal vento che spirava dalle vette delle montagne intorno. C’era una bellezza intensa e luminosa in quel luogo, primo e ultimo cuore del Regno, culla e tomba delle speranze di molti uomini.

Le ossa le dolevano, ed anche i muscoli allenati a maneggiare la spada le bruciavano per lo sforzo sostenuto durante quella faticosa arrampicata.

Non è male, pensò, come posto dove stare rinchiusa per qualche anno…

Tuttavia, quella prospettiva era guastata dalle chiacchiere che aveva udito da tempo. Il suo futuro era inevitabilmente quello di rimanere in un forte impenetrabile, insieme alle stesse persone, per molti anni a venire…

«Il Torrione è qui da molto tempo,» spiegò ancora Ingold non appena giunsero sulla strada che conduceva verso il Passo di Sarda, la stessa strada sulla quale, molte miglia più in giù, Alwir stava conducendo il suo popolo alla ricerca di una salvezza nascosta in una leggenda. «Tuttavia, i Segni Runici del Potere si trovano ancora sulle porte del Torrione, incisi dai Maghi che aiutarono ad erigerlo: là sulla sinistra c’è Yad, e Pern sulla destra, che sono i Segni dell’Autorità e della Legge. Soltanto un Mago può vederli, e si snodano come una traccia luminosa e argentea. Nonostante tutto questo tempo però, gli Incantesimi dei costruttori sono ancora efficaci…»

Gil distolse lo sguardo dalla massa rocciosa della montagna che si alzava, parete su parete, ed era ricoperta da gole nere e foreste d’alberi, nonché dalla sella poco profonda ma ben visibile del Passo di Sarda, per tornare all’ombra scura del Torrione. Lei non poteva vedere i caratteri runici: tutto ciò che riusciva a scorgere erano dei grandi pannelli di ferro legati con l’acciaio a pesanti perni, intatti da secoli.

Le grandi porte erano aperte. Nella loro ombra c’erano i membri della piccola guarnigione che Eldor vi aveva inviato per tenere sgombro il luogo e conservarlo come un eventuale rifugio, quando Ingold aveva, per la prima volta, suggerito la possibilità di un ritorno del Buio.

Il Capitano della guarnigione, una donna bionda, minuta e graziosa, con occhi umili e tranquilli, salutò Ingold con rispetto, e non sembrò sorpresa dalla notizia della caduta di Gae e dell’arrivo ormai imminente della colonna di profughi.

«Lo temevo», disse, guardando il Mago con la mano stretta intorno all’elsa della sua spada. «Non abbiamo avuto notizie da più di una settimana, ed i miei uomini hanno detto di aver visto i Guerrieri del Buio che svolazzavano sulla valle quasi ogni notte.» Increspò le labbra in un’espressione contrariata. «Mi fa solo piacere constatare che quanto tu dicevi si è avverato. Ricordo che a Gae la gente per strada ti derideva per i tuoi ammonimenti. Parlavano di te come di un allarmista eccentrico degno soltanto di essere preso in giro.»

Gil emise un grido di indignazione, ma Ingold sorrise.

«Lo ricordo», rispose. «Ho desiderato per tutta la vita di essere immortalato in una Ballata, ma i versi che avevo scritto erano così caustici che forse è meglio se ne perda il ricordo.»

«E,» aggiunse cinicamente il Capitano, «i suoi autori sono certamente morti!»

Ingold sospirò.

«Preferirei che fossero vivi per prendermi ancora in giro, per ogni giorno della mia vita… Trascorreremo la notte qui. Puoi darci da mangiare?»

Il Capitano annuì.

«Certo, abbiamo del bestiame…» Si girò indicando le palizzate di alcuni recinti sparsi oltre la collina dove un branco di cavalli e mezza dozzina di mucche da latte stavano abbeverandosi fissando i nuovi arrivati con occhi dolci e stupidi. «Abbiamo anche una distilleria nel bosco. Alcuni dei miei uomini riescono a fare dell’ottima birra — la Blue Ruin — dalla corteccia d’albero e dalle patate.»

Ingold rabbrividì.

«A volte capisco l’orrore di Alwir per i cosiddetti agi del vivere civile.»

Poi si avviò dietro la Capitana seguendola sugli scalini logori dell’entrata.

«Comunque,» aggiunse ancora la donna non appena gli altri soldati della guarnigione si furono riuniti dietro di loro, «abbiamo la legge del Torrione qui!»

Ingold annuì.

«Capisco.»

Entrarono, e Gil rimase senza parole. Dal di fuori la rocca aveva esercitato un certo potere intimidatorio, ma dentro era diroccata, spaventosa, buia, incredibilmente grande. I passi delle Guardie echeggiavano nella sala cupa e gigantesca come il rumore di un ruscello che si perde in lontananza. Le luci delle loro torce rimpicciolirono poco a poco sino a diventare tenui come le fiammelle di candela.

L’architettura interna era mostruosa: una mescolanza di superfici piane che nulla aveva in comune con la sobrietà gotica di Karst. Niente a che fare comùnque con il genere umano: la tecnologia che aveva creato quel posto era chiaramente al di là di qualsiasi cosa che appartenesse a questo mondo.

O al mio…, pensò Gil.

La ragazza rimase affascinata dall’enormità della sala centrale dove le fiamme ballonzolanti delle torce si riflettevano nell’oscurità immobile dei canali colmi d’acqua che solcavano il pavimento. Rabbrividì per il freddo, il vuoto e la vastità di quel luogo.

«Come fu costruito il Torrione?», sussurrò. La stanza amplificò la sua voce e portò le parole in ogni angolo. «Sarebbe stata una vergogna se i posteri non avessero potuto ammirare l’opera del suo architetto e dei Re che lo vollero costruire…»

«È vero», rispose Ingold e anche la sua voce echeggiò nelle volte invisibili del soffitto. «Ma la memoria non è una scelta… non sappiamo cosa la governi e come…»

Si mosse come un’ombra accanto a Gil seguendo la strada indicata dalle torce che la distanza rimpiccioliva. Guardandosi attorno, la ragazza si accorse — non appena giunse in un luogo più illuminato — che le pareti avevano una curiosa struttura a nido d’ape, con piccole porte buie che si susseguivano, ed erano unite, a volte da balconi di pietra, a volte da passerelle traballanti che striavano la parete come ragnatele di ragni ubriachi. Quelle piccole entrate scure davano accesso ad un’infinità di celle, scale e corridoi, la cui sinuosità oscura ricordava quella di un mostruoso labirinto.

«Per quanto riguarda come fu costruito, Lohiro di Quo, il Capo del Consiglio dei Maghi, ha fatto uno studio sulla tecnica di quel tempo grazie ad alcune registrazioni che sono giunte fino a noi. Stando a quelle carte, le pareti sono state erette per mezzo dalla Magia e di congegni meccanici. Gli uomini d’allora possedevano abilità superiori alle nostre. Noi non riusciremmo mai a creare una costruzione simile!»

Attraversarono uno stretto ponte che passava sopra uno dei tanti canali che portava l’acqua da una vasca all’altra per tutta la lunghezza della sala. Gil si fermò un attimo sul ponte senza balaustra a guardare l’acqua che scorreva rapida.

«Fu per questo che fece quello studio?», chiese dolcemente. «Perché sapeva che quella tecnica avrebbe potuto tornare ancora utile?»

Ingold scosse la testa.

«Oh no, è accaduto molto tempo fa. Come tutti i Maghi, Lohiro cerca di capire per se stesso, per sua soddisfazione. Qualche volta penso che la Magia sia soltanto una brama di conoscenza portata all’eccesso, un bisogno profondo di capire, comprendere le leggi che regolano il mondo, l’universo. Tutto il resto, l’illusione, la creazione di forme, l’abilità nel dominare le menti e le cose, il salvare, cambiare o distruggere, è del tutto casuale, e viene dopo il desiderio principale.»


«Il problema è questo», brontolò Ingold più tardi dopo aver consumato una magra cena in compagnia delle Guardie e dopo aver sistemato le loro poche cose in una cella accanto a quelle che ospitavano la guarnigione. «Posso cercare soltanto ciò che conosco. È del tutto inutile mettersi alla ricerca, in questo momento, di qualcosa che ignoriamo completamente!»

Poi guardò Gil, e gli sprazzi di luce emanati dal suo cristallo si diffusero come piccole stelle sul suo volto coperto di cicatrici.

Avevano acceso un piccolo fuoco per riscaldare la cella e Gil si accorse, con sorpresa, che non c’era fumo nella stanza.

Probabilmente, pensò la ragazza, questo luogo deve avere un eccezionale sistema di ventilazione… e il suo rispetto per gli antichi costruttori aumentò.

Ingold era tornato a fissare il cristallo. Gil, rinvigorita dal calore e, soprattutto, dal cibo, si era seduta in un angolo e affilava metodicamente il suo pugnale seguendo puntigliosamente le istruzioni impartitele dal Falcone di Ghiaccio.

In un primo momento, quando aveva incontrato Ingold, aveva pensato di conoscerlo da sempre; ora, mentre continuava l’opera di affilatura, era quasi impossibile pensare al fatto che non sapeva nulla di lui. Sollevò la lama per esaminarla alla luce e la saggiò con il pollice.

Era un mondo duro quello nel quale era stata precipitata, e che non perdonava gli errori. Ma, per quanta fatica avesse sopportato, per tutte le paure che aveva dovuto combattere, per tutto il peso e il dolore — si toccò soprappensiero la cicatrice sul braccio sinistro — c’erano però altrettante gioie. La stessa presenza di Ingold la rassicurava, e non le faceva avvertire assolutamente il distacco della sua terra e la sua condizione di esiliata.

Presto però lui sarebbe andato via. A lei sarebbero toccate lunghe settimane in quel luogo, mentre il Mago avrebbe continuato la sua ricerca solitaria tra le pianure di Quo, tentando di contattare i Maghi, la sua gente, l’unico gruppo di persone con le quali aveva un’intesa perfetta.

Cosa troverà lì? si chiese. E riuscirà mai a ritornare?

Lo farà!, si disse, osservando il profilo immobile del vecchio con gli occhi socchiusi nella luce magica del cristallo. È robusto come un vecchio stivale e scivoloso come un serpente. Tornerà sano e salvo e porterà con se gli altri Maghi…

La ragazza spostò un po’ la fibbia del mantello imbottito e se lo sistemò dietro le spalle doloranti. Dopo il viaggio della notte precedente, persino un falò sulla strada sarebbe stato il benvenuto: quella cella nella quale si poteva a malapena stare in piedi sembrava addirittura un angolo di Paradiso.

Il luogo, visto con occhi meno affaticati, sarebbe apparso squallido. L’oro caldo del fuoco splendeva e si rifletteva nelle crepe delle pareti mal intonacate; il pavimento era gibboso e pieno di fessure ed irregolarità. C’era una patina di macchie di fuliggine dappertutto: rivelava le centinaia di generazioni che si erano spartite quel rifugio, ed i millenni di incuria.

Questa cella sarebbe una vera e propria tortura per una famiglia, pensò Gil.

Le vennero spontanei alla mente l’immagine ed i suoni della casa natale di Rudy con tutti gli alterchi tra le sue donne… e sorrise pensando a quanti casi di fratricidio ci sarebbero stati negli anni a venire nel Torrione…

L’ombra del fuoco si agitò non appena Ingold si mosse per riporre il suo cristallo. Il Mago si sdraiò nell’angolo opposto della stanza avvolgendosi nel mantello quasi fosse una coperta. Gil si preparò a fare lo stesso chiedendogli, mentre si sdraiava:

«Sei riuscito a vedere il convoglio?»

«Si: si stanno organizzando per la notte con un doppio turno di sentinelle. Non vedo alcun segno del Buio. Il cristallo, tra l’altro, mi ha mostrato il Nido del Buio nella valle: è ancora chiuso.»

«È un buon segno, vero?» Gil si coprì con il mantello fissando le ombre sui muri creati dalle fiamme. La sua mente vagò seguendo i suoi pensieri circa il mondo racchiuso in quelle pareti e dalle spesse mura del Torrione. Oscurità, silenzio e segreti, segreti dimenticati perfino da Ingold, da Lohiro, Arcimago di tutti i Maghi del mondo. Quelle pareti spesse racchiudevano qualche segreto, ma questo era a sua volta rinchiuso nell’oscurità dei millenni…

Si girò su un fianco ed appoggiò la testa su un braccio.

«Sai,» disse a bassa voce, «questo luogo assomiglia molto a quello che hai descritto quando parlavi dei Nidi del Buio.»

Ingold aprì gli occhi.

«È molto simile», rispose.

«È per questo che siamo venuti qui? Per vivere come loro, per essere al sicuro dai loro attacchi?»

«Probabilmente…», assentì il Mago con voce assonnata. «Ma dovremo scoprire perché i Guerrieri del Buio vivono così. Tutto considerato però, qui siamo al sicuro, e ci rimarremo fino a che le porte staranno chiuse per la notte.» Si girò di nuovo. «Adesso dormi, Gil.»

Gil ammiccò fissando il fuoco che scoppiettava.

Se i Guerrieri del Buio riuscissero ad entrare nel Torrione, pensò, la nostra sicurezza si trasformerebbe in una trappola mortale. Tra quelle mura regnava un’oscurità eterna, simile alla notte al centro della Terra che nessun’alba poteva illuminare…

«Ingold…», sussurrò inquieta.

«Si?», rispose il Mago con la voce impastata dal sonno.

«Cos’è la Legge del Torrione di cui ha parlato il Capitano? Cosa aveva a che fare con la notte che avremmo trascorso qui?»

Ingold sospirò e girò la testa verso la ragazza mentre il fuoco morente creava strane ombre sul suo viso segnato.

«La legge del Torrione,» le disse, «impone come priorità fondamentale l’integrità della costruzione: al di sopra della vita, al di sopra dell’onore, al di sopra della sopravvivenza di qualunque persona cara. Tutto ciò che non richiede cure particolari, viene lasciato fuori delle porte. E quando queste sono chiuse — devono esserlo sempre — nessuno può entrare fino all’alba. Nei tempi antichi, la pena per l’apertura della porta durante la notte, cioè tra il tramonto e l’alba, era quella di essere incatenati ai due pilastri che sovrastavano la collina che fronteggia le porte dall’altro lato della valle, ed essere lasciati lì per una notte, in balia del Buio. Ora però dormi.»

Questa volta il Mago gettò un Incantesimo sulle sue parole, e la ragazza cadde addormentata all’improvviso: le parole di Ingold la seguirono nell’oscurità dei suoi sogni.


Il Buio era a caccia. Gil poteva sentirlo, riusciva a percepire i suoi spostamenti attraverso l’oscurità. Erano movimenti vaghi, indecifrabili, compiuti in quegli abissi insondabili che non venivano mai sfiorati dalla luce.

Intontita, ancora immersa nella nebbia grigia del sonno, Gil cercò di ricordare dove fosse… Il Torrione… il Torrione di Dare… Vide figure contorte e fluttuanti aggirarsi per i corridoi scuri e convergere sulla loro preda. Poteva sentire come quel male invisibile ed in agguato, fiutasse il pulsare caldo del sangue e percepisse attraverso le tenebre il bagliore emanato dalla sua preda, il centro di quel desiderio avido e odioso…

Non era la segretezza del Torrione a opprimerla, quanto il freddo, il vento, il rumore sordo dell’acqua tra i pilastri di pietra, il tocco gelido dell’aria al di sopra dei ruscelli. Un potere sconosciuto corrodeva la pietra mentre delle menti, altrettanto avide, osservavano una fila lunga quattro miglia di persone addormentate, ed intanto sorridevano, se sorriso quello si poteva chiamare, con una gioia senza suono.

Spalancò gli occhi, ed il viso le si imperlò di sudore al ricordo di quella vibrazione. Sussurrò: «Ingold…» quasi timorosa di parlare a voce più alta per paura che qualcosa potesse sentirla.

Il Mago era già sveglio. I suoi capelli erano arruffati dal sonno, ma gli occhi erano vigili come se stesse ascoltando qualcosa di estremamente distante. Una luce magica gli pendeva sul capo; il fuoco nella cella si era spento da molto tempo.

«Cosa c’è?», le chiese gentilmente. «Cosa hai sognato?»

Gil inalò un lungo sospiro alla ricerca di quelle sensazioni che l’avevano colpita così improvvisamente.

«Il Buio…»

«Lo so», le rispose Ingold. «Anch’io l’ho sentito. Cosa? E dove?»

La ragazza si alzò a sedere stringendosi il mantello sulle spalle alla ricerca di un po’ di calore.

«Non so dove fosse», disse con più calma. «C’era dell’acqua che scorreva, e pietra, pietra intagliata: sembravano pilastri. Strappavano pezzi di pietra dai pilastri e li gettavano nell’acqua e… e… ridevano. Essi sanno dov’è Tir!», aggiunse quindi con voce bassa e incalzante.

Il Mago le si avvicinò e le mise un braccio intorno alle spalle per confortarla, anche se il momento peggiore era passato.

«Anch’io lo so,» disse. «È con sua madre, a mezza giornata di cammino, sotto il ponte di pietra che attraversa la gola del Fiume della Freccia.»


Da qualche parte al di sopra dell’oscurità, il cielo avrebbe potuto essere più luminoso, con il chiarore del giorno che si annunciava. Ma, se così fosse stato, Rudy se ne sarebbe accorto. Il canyon attraverso il quale passava la strada era simile ad un tunnel buio e ventilato. L’odore del vento era forte, sapeva di terra, ed il suono era come quello del mare quando fischiava tra i picchi in alto, sopra la strada.

Rudy attraversò il campo che si andava svegliando. Si muoveva senza sosta, in preda ad un disagio inconscio, intrufolandosi tra gruppetti di gente ammucchiati intorno ai loro falò mattutini. Ritornò poi, quasi senza rendersene conto, verso i carri dai quali era uscito poco prima che suonasse il segnale della sveglia. Erano stati accesi dappertutto i fuochi, e quelle fiamme gettavano su tutto il campo un bagliore morbido che si rifletteva nell’aria bluastra del mattino.

Alde era sveglia e stava dando un po’ di pane inzuppato nel latte a Tir; la donna e il bambino se ne stavano al riparo dall’aria gelida dell’alba nel retro del carro. Dall’altro lato del falò, un gruppo di Guardie della Casa di Bes stava divorando una magra razione in silenzio. Più lontano, un’altra donna — una serva della Casa — stava dando ordini a due bambini, mentre ne nutriva un altro più piccolo di Tir; suo marito stava invece preparando il foraggio per i buoi senza dire una parola, immerso in un silenzio carico di amarezza.

In alto, gli stendardi si inclinavano come canne sotto le sferzate del vento. Rudy sorrise ad Alde appoggiandosi alle stanghe che sorreggevano il tetto del carro.

«Quello che mi meraviglia di più di questo viaggio è vedere il gran numero di bambini che sono sopravvissuti. Li vedi sparsi per tutto il campo. Guarda quello laggiù: è talmente piccolo, che il primo soffio del vento d’inverno potrebbe trascinarlo via con sé.»

«È una bambina,» rispose con calma Alde, guardando la bambina che giocava da sola rincorrendo qualcosa sotto i carri.

La madre della piccola la vide e la chiamò accanto al fuoco con uno strillo: la bambina, con la sublime indifferenza di chi ha imparato da poco a camminare, si allontanò da quella zona pericolosa stringendo tra le braccine un grande fascio di paglia.

Rudy si allungò ed accarezzò i capelli vellutati di Tir.

Crescerà così pensò. Costretto a correre nei labirinti oscuri del Torrione di Dare… Imparerà dalle Guardie a maneggiare la spada… Era strano pensare al futuro e vedere Alde e Tir trascorrere i loro anni in quella fortezza che nessuno aveva mai visto… Se ce la faremo a raggiungerla…

Rudy rabbrividì, questa volta però non per il freddo.

«Non è un fatto poi così strano», continuò Alde con la sua voce sottile e timida. «Se hai notato, sono le donne e i bambini quelli che vanno avanti. Se un carro si rompe, l’uomo si siede da una parte e comincia a lamentarsi e a disperarsi. La donna inizierà a spingere… facci caso qualche volta.»

«Si?», rispose Rudy, credendo che la giovane Regina volesse punzecchiarlo.

Lei gli lanciò un’occhiata divertita.

«Sul serio Rudy», disse. «Le donne sono più forti. Devono esserlo, per proteggere i bambini.»

Rudy ricordò la galleria di Karst, e lo svolazzare del vestito bianco di una ragazza che correva nella sala nell’oscurità.

«Humm…», mugugnò sgarbatamente, e lei sorrise.

Altri bambini si raggrupparono intorno al fuoco. Erano gli orfani del campo che seguivano sempre l’esile ragazza che avevano eletto tacitamente loro bambinaia e che portava il più piccolo di loro in braccio. Guardando quel gruppetto, Rudy si ricordò di quando aveva incontrato Alde e Medda quel giorno, sulla terrazza della villa a Karst.

Un nuovo pensiero gli attraversò la mente e si accigliò improvvisamente.

«Alde?»

Lei alzò gli occhi versandosi il latte sulle dita.

«Come fanno i Guerrieri del Buio a sapere chi è Tir?»

Le sopracciglia della donna si aggrottarono mentre cercava una risposta.

«Non lo so», rispose. «Lo sanno?»

«Si. Lo hanno seguito a Karst e prima di allora le cercavano a Gae. C’erano molti bambini nella villa a Karst; per quanto potevano saperne, avrebbe potuto essere uno qualunque di loro. Ma andarono dritti verso la sua stanza.»

Alde scosse la testa confusa, e i capelli le scivolarono sulle spalle.

«Bektis!», gridò, vedendo la figura del Mago di Corte che attraversava il campo.

L’uomo si avvicinò e le rivolse un inchino lezioso.

«La mia Signora comanda?»

Quelle due settimane di marcia dovevano essere state terribili per il Mago: come Alwir, era estremamente legato alla forma ed all’eleganza, ed anche adesso il suo abito grigio non aveva una piega di troppo.

Rudy si intromise.

«Come fanno i Guerrieri del Buio a sapere dove si trova Tir? Non hanno occhi, e non possono certo distinguerlo dagli altri bambini. Perché sanno che seguono lui e non un altro?»

Il Mago esitò. Sembrava stesse dedicando al problema una profonda attenzione, ma Rudy pensò che stesse solamente nascondendo il suo imbarazzo per essere stato messo in difficoltà.

«I Guerrieri del Buio possiedono conoscenze al di là della comprensione umana,» disse infine.

È in difficoltà, pensò Rudy.

«Forse meglio di me avrebbe potuto risponderti il mio Signore Ingold, se non avesse deciso ancora una volta di scomparire. Le origini delle nostre conoscenze del Buio…»

Rudy lo interruppe bruscamente.

«Se ho ben capito, i Guerrieri inseguono qualsiasi bambino che sia in una culla dorata, o sanno veramente chi è Tir? Se Alde andasse a piedi con il bambino in braccio come qualsiasi altra donna del campo, non sarebbe più al sicuro che dentro il suo ricco carro?»

Bektis guardò stolidamente in avanti quasi stesse rimirandosi il naso. Quello straniero sporco e lacero aveva dato veramente prova di essere un Mago nato o era soltanto un presuntuoso?

«Forse», rispose altezzosamente. «Se al momento fossimo sotto la minaccia diretta del Buio. È stato notato che non si sono più fatti vivi da quando abbiamo raggiunto luoghi più alti…»

«Oh, andiamo! Hai visto benissimo quanto è servito essere in alto a Karst!»

«…e…», il Mago sembrò quasi stridere come un topo, con un tono di voce isterico, «ho visto nel cristallo magico l’unico covo del Buio conosciuto tra queste montagne, e ti assicuro che è chiuso, come è sempre stato per secoli! Naturalmente la mia Signora può fare ciò che vuole ma, per ragioni di conforto e di salute, e in più per questioni di rango e prestigio, dubito che il mio Signore Alwir le permetterà di camminare seguendo il convoglio come una popolana qualsiasi.»

Detto questo, il vecchio girò sui tacchi e si avviò verso il suo carro con il mantello di pelliccia che gli svolazzava dietro le spalle come un nuvolone.

Minalde si sedette in silenzio continuando a cullare il suo bambino sul petto come per proteggerlo da un invisibile pericolo. In lontananza gli giungevano i rumori del campo che si stava preparando ad un’altra giornata di marcia: si udiva il ragliare dei muli, il cigolìo delle armature, e il sibilo dei fuochi che venivano spenti. Più vicino si udirono voci rabbiose: da una parte quella controllata e tagliente come una sferzata di Alwir, dall’altra, il sibilare velenoso e secco del Vescovo Govannin.

Alde sospirò.

«Stanno ancora discutendo.» Baciò la fronte di Tir e poi controllò i suoi pannolini per avvolgerlo in uno strato caldo di coperte. Il mattino minacciava di essere molto freddo. «Dicono che dovremo raggiungere il Torrione stanotte», continuò, sussurrando per evitare che qualcun altro potesse udirla all’infuori dell’uomo in piedi accanto a lei. «Qualche volta ho avuto l’impressione di essere in viaggio da sempre e che non ci fosse un luogo dove giungere… Forse Bektis ha ragione.»

Rudy appoggiò un gomito su un palo.

«Lo pensi veramente?»

Lei non rispose. Più in là si udì uno sferragliare di catene ed il vociare delle Guardie che stavano bardando i buoi.

«Raggiungeremo il Torrione di giorno o dovremo camminare fin dopo il tramonto?»

Rudy guardò distrattamente le nuvole.

«Dopo il tramonto, credo», rispose lentamente.


Ingold si appoggiò esausto ad un macigno con i gomiti contro le ginocchia. La sua voce risuonò stanca e affaticata.

«Ho paura che non ce la faremo questa volta, mia cara.»

Gil nelle ultime ore era stata consapevole della poca importanza che aveva tutto il resto rispetto alla figura magra e scattante che le camminava davanti. Ingold sembrava instancabile, ma adesso anche lui dovette fermarsi. La ragazza annuì, tergendosi il sudore dalla fronte.

La piccola cavità delle rocce dove avevano trovato rifugio non offriva protezione contro il freddo che aumentava, ma almeno offriva un po’ di riparo contro l’imperversare del vento. Avevano lottato contro quell’aria gelida per tutta la giornata ed ora si trovavano lì con i mantelli laceri, e la pelle del volto che bruciava per le sferzate di quel respiro delle montagne che soffiava con la violenza selvaggia di un branco di lupi. Come se non bastasse, Gil poteva sentire l’addensarsi sopra di loro di una tempesta che si avvicinava proveniente dai ghiacciai delle vette più alte. I primi fiocchi di neve farinosa li raggiunsero anche dentro il loro riparo improvvisato.

Era pomeriggio inoltrato. Non aveva alcuna speranza di raggiungere la Gola della Freccia prima del convoglio. Non avrebbero quindi potuto avvisare la gente se i Guerrieri del Buio avevano già raggiunto il ponte.

Dopo qualche istante si riprese un poco e riuscì a liberare la borraccia che teneva legata alla cintura. Svitò il tappo e bevve un sorso di quel liquido che aveva il sapore di una limonata amara.

«Il Capitano del Torrione mi ha dato questo,» disse, passandola a Ingold.

Il Mago bevve.

«Sapevo che c’era una ragione fondamentale nello schema cosmico che giustificava la tua presenza in questo posto,» disse, e sorrise con la barba coperta di cristalli di ghiaccio. «Ora sono due le volte che mi hai salvato la vita.»

Tra le rocce sopra le loro teste il sibilo del vento era diventato ancora più forte. Pareva un urlo freddo e acuto, ed una raffica di vento penetrò nel rifugio. Gil si avvicinò al Mago.

«Quanto siamo lontani dalla Gola della Freccia?»

«Due o tre miglia. Potremmo anche vederla se la strada non fosse tortuosa. La cosa che mi preoccupa di più è che non li abbiamo ancora incontrati. Se avessero attraversato il ponte sani e salvi, sarebbero già qui.»

«La tempesta può aver rallentato la marcia del convoglio.»

«Probabilmente. Ma non sarà un grande problema fino al tramonto. Se si fermano ora, sarà un vero suicidio!»

«Non puoi fare niente per questa neve?», chiese improvvisamente la ragazza. «Non sei stato tu a dirmi che i Maghi hanno la capacità di chiamare o allontanare le tempeste?»

Ingold annuì.

«Lo possiamo fare», rispose. «Se vogliamo.»

Gil notò che aveva sostituito i vecchi guanti con degli spessi guantoni. Erano anche loro vecchi e logori, ma si vedeva chiaramente che erano di fattura elaborata, ed era ovvio che erano stati fatti per lui, su misura, da qualcuno che teneva molto alla sua sorte.

«Possiamo mandare tempeste dappertutto, o chiamarle quando ne abbiamo bisogno… tranne le tempeste di neve delle pianure che giungono senza preavviso e questa, in fondo,» indicò le raffiche turbinanti di neve, «somiglia più ad una brezza primaverile… Credo di aver detto a Rudy una volta, e forse l’ho detto anche a te, che i Guerrieri del Buio non amano attaccare durante le tempeste. Così, non facendo niente per la tempesta, scelgo il male minore.»

Si alzò e si avvolse il mantello più stretto intorno al collo, alzando il cappuccio per proteggersi il viso. Stava aiutando Gil a camminare, quando udirono il rumore sordo degli zoccoli sulla strada, ed il tintinnio delle briglie che echeggiava tra le crepe dei macigni e l’erba secca che fino a un attimo prima aveva attutito il passo sonoro della truppa.

Oltre le rocce Gil scorse la massa confusa dei profughi. In testa riconobbe un uomo alto e coperto di cicatrici che avanzava a cavallo con la testa china per la stanchezza. Scambiò un’occhiata veloce con Ingold, poi il Mago corse tra le rocce, verso la strada, gridando:

«Tirkenson! Tomec Tirkenson!»

L’uomo alzò il capo e si drizzò in sella alzando una mano per fermare i soldati.

Gil seguì Ingold sulla strada, affrettandosi. Il Capo di Gettlesand li sovrastava in quel crepuscolo plumbeo, e sembrava un capo brigante, grosso e scarno, alla testa dei suoi banditi. Guardando lungo la strada, Gil si accorse che quelli che lo seguivano, un gruppo di famiglie, una mandria enorme di mucche e pecore, ed una banda di figuri tozzi e laceri, erano appena un sesto del convoglio principale.

«Ingold!», li salutò Tirkenson. La sua voce era simile ad una lastra di pietra in una buca piena di ghiaia e non stonava affatto con il suo aspetto. «Ci stavamo chiedendo se saremmo riusciti a incontrarvi. Gil-Shalos…», la salutò abbassando il capo.

«Dove hai lasciato il resto del convoglio?»

Tirkenson grugnì rabbiosamente, ed i suoi occhi castani e luminosi si strinsero per la stizza.

«Dall’altra parte del ponte,» brontolò. «Si stanno preparando per accamparsi, quegli sciocchi!»

«Preparano il campo?», gridò Ingold sbigottito. «È una pazzia!»

«E chi ha detto che quella gente sia sana di mente?», grugnì Tomec. «Ho detto loro di lasciare i carri e le mercanzie. Potrebbero sempre tornare indietro a riprenderli…»

La voce di Ingold tornò calma.

«Cosa è successo?»

«Un inferno, Ingold.» Tirkenson si passò stancamente una mano tra i capelli e sul viso. «Cosa non è successo, dovevi chiedermi. Il ponte è crollato. I piloni principali: hanno ceduto sotto il peso dei carri di Alwir, ed hanno portato tutto con loro.»

«E la Regina?»

«No!», rispose l’uomo aggrottando le sopracciglia al pensiero. «Era a piedi e, per qualche ragione, si trovava alla testa del convoglio. Camminava con il Principe imbracato dietro le spalle come qualsiasi altra donna. Non so perché. Ma so che, se fosse stato su uno di quei carri, non si sarebbe salvata. Così Alwir ha iniziato le operazioni di salvataggio tirando su tutto quello che poteva dalla gola, e adesso sta costruendo dei pontoni da sistemare sul fiume. Il Vescovo poi ha detto che non abbandonerà i suoi carri, ed ora li stanno smontando per trasportarli a pezzi. La gente se ne sta divisa da una parte e dall’altra del fiume e continua a litigare sulla roba e gli animali che bisogna traghettare. Insomma hanno deciso di non muoversi durante la notte!»

«Ho cercato di dirgli che sarebbero morti per il freddo», continuò Tomec. «È questa è una cosa sicura come il ghiaccio del Nord. Ma quel Mago prediletto da Alwir, quell’idiota di Bektis, disse che poteva allontanare la tempesta e, dopo qualche istante, cominciarono a litigare anche Alwir e il Vescovo. Così nessuno si è più mosso.»

Tomec Tirkenson gesticolò disgustato e si appoggiò alla parte posteriore della stella.

Ingold e Gil si scambiarono un’occhiata veloce.

«Allora li hai lasciati?»

«Oh, diamine!», esclamò l’uomo. «Forse avrei dovuto rimanere. Ma Alwir tentò di requisire il carro grande del Vescovo, quello che trasportava le registrazioni della Chiesa, e sono certo di non aver mai assistito ad un simile alterco in vita mia. Govannin cercò di scomunicare Alwir, e il Cancelliere ha minacciato di metterla in catene. Sai quanto tenesse a quelle carte, Ingold. La gente si è schierata da una parte o dell’altra, e gli uomini di Alwir ed i Monaci Rossi erano sul punto di tirar fuori le spade. Ho gridato che erano dei pazzi: il campo non poteva essere diviso per questioni simili, soprattutto con una tempesta in arrivo, i Razziatori ed il Buio tutto intorno. Ma nessuno mi ha dato ascolto, ed allora ne ho avuto abbastanza. Ho preso la mia gente e tutti quelli che volevano venire con me, e me ne sono andato via. Forse non è stata la cosa migliore da fare, ma certamente sarebbe stato peggio trascorrere un’altra notte all’aperto. Ho immaginato che avremmo potuto raggiungere il Torrione prima di mezzanotte.»

Ingold guardò il cielo quasi riuscisse a superare il manto di nubi e potesse consultare un sole invisibile per scoprire che ora fosse. Le nuvole ora erano diventate di un marrone sporco, giallognolo, e l’odore della neve era inequivocabile.

«Penso che tu abbia fatto bene,» disse. «Ora andremo giù e cercherò di parlar loro per farli muovere. Dovrai lottare contro il tempo per raggiungere la valle ma, se puoi, convincili a tenere le porte aperte, e fai accendere dei falò su entrambi i lati. Metti tutti gli uomini disponibili a sorvegliarli. Con un po’ di fortuna, arriverai là stanotte!»

«Ne avrai più bisogno tu di fortuna», borbottò il Capo di Gettlesand. «Comunque ci rivedremo al Torrione.»

Quindi alzò di nuovo la mano, ed il suo gruppo si rimise in marcia come una grande bestia ferita che si trascini allo stremo delle forze. Tirkenson allentò le redini e si allontanò da Gil e Ingold incoraggiando il suo cavallo stanco. Si fermò un attimo e guardò indietro verso i due che rimanevano sulla strada battuta dal vento.

«Un’altra cosa», aggiunse. «Solo perché tu lo sappia. Guardati dal Vescovo: va dicendo in giro che tu e Bektis siete legati al Diavolo… anche Alwir, ma non ha importanza… La sua parola ha un certo peso sul convoglio… Sai, dice che i Maghi barattano la loro anima per il Potere, e la gente ha paura. Vedono l’incapacità di Alwir di reagire, ma nessun potere di questo mondo potrebbe difendersi in queste condizioni. Così, se moriranno, almeno saranno convinti di farlo nel giusto, sacrificandosi per ciò in cui credono… Anche se la gente impaurita non riesce mai a combinare molto…»

«Neanche i Maghi, Tomec. Neanche i Maghi.» Ingold sorrise all’indirizzo del Comandante. «Grazie per il tuo avvertimento. Fai buon viaggio e che il cammino non ti sia faticoso.»

L’uomo si girò e se ne andò imprecando contro il suo cavallo e incitandolo a muoversi. Gil guardò gli speroni di Tomec e vide come erano affilati. Ma i fianchi del cavallo apparivano assolutamente integri. Capì in quell’istante che l’augurio rivolto da Ingold all’uomo e alla sua gente conteneva degli Incantesimi per allontanare gli incidenti, per far fronte alle circostanze avverse, e per aiutare il Capo di Gettlesand e quelli che erano sotto la sua protezione…

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