«Stai calmo. Sgombra la tua mente. Non guardare altro che le fiamme.»
La dolcezza ipnotica della voce di Ingold riempì la mente di Rudy mentre fissava le fiamme del falò delle Guardie.
Il giovane cercò di allontanare i pensieri che si accalcavano alla soglia della sua mente, la fatica, il bisogno di dormire, e, non ultimo, il ricordo delle sagome che aveva creduto di scorgere in lontananza, forse Razziatori Bianchi…
Si concentrò, con un grande sforzo di volontà, sul fuoco; tentò di non vedere altro che quel groviglio di ramoscelli nel quale baluginava il rosseggiare della fiamma e da cui proveniva un forte calore.
Afferrò con forza maggiore la matassa della sua mente: più si sforzava di allontanare i pensieri molesti, più questi tornavano ad affollarsi nella sua testa.
«Rilassati», disse Ingold dolcemente. «Non preoccuparti di ciò che avverrà. Fissa il fuoco e respira profondamente.»
Il Mago si girò un attimo per mormorare qualcosa ad una donna di mezza età che era apparsa ai margini dell’accampamento delle Guardie con un bambino malato in braccio.
Rudy intanto cercò di obbedire ciecamente alle ultime istruzioni del suo mentore. La luce fredda e scura del giorno stava di nuovo svanendo dal cielo. Era l’ottavo giorno da quando erano partiti abbandonando Karst.
Non appena furono distribuite le scarne razioni, scoppiarono alterchi tra la gente riunita sulla strada.
In lontananza si udiva il picchiettio delle spade di legno delle Guardie che si esercitavano, e la voce stridula e sarcastica di Gnift che copriva di insulti i suoi esausti allievi.
Ancora più lontano sentì levarsi la dolce voce di Alde che cantava, ed i piccoli gridolini di gioia di Tir che si univa come poteva alla voce della madre.
Fu invaso da un sentimento mai provato prima: era un groviglio disperato di desiderio, di sollievo, di affetto, che lo distrasse dal suo problema principale.
Alzò gli occhi. Ingold era invecchiato e guardava attento nella bocca spalancata del bambino malato. Poi esaminò con cura gli occhi e le orecchie. La madre aveva lo sguardo corrucciato e scostante che era possibile scorgere sul viso di molti dei profughi. Distolse lo sguardo cercando di non pensare che del suo bambino si stava occupando ora un vecchio Mago scomunicato, ma i suoi occhi tornarono ansiosi sul piccolo esprimendo un profondo timore.
Molti dei medici del Regno non erano Maghi, e ci si poteva fidare di loro. Adesso però solo pochi di essi erano sopravvissuti alla venuta del Buio. Quei pochi che rimanevano e che si muovevano verso Sud con il convoglio, avevano troppo da fare in quanto erano occupati da mille malattie, dagli assideramenti, dalla fatica e dalla fame. La gente non era più così pedante da non rivolgersi a un Mago come faceva una volta, in caso di bisogno.
Ingold si alzò e disse poche parole alla donna, continuando ad accarezzare i capelli neri ed arruffati del ragazzo. Non appena la madre si fu allontanata, si girò verso Rudy ed alzò le sopracciglia con fare interrogativo.
Rudy scosse le spalle senza sapere cosa dire.
«Cosa devo cercare?», chiese.
Ingold socchiuse gli occhi.
«Niente. Devi soltanto guardare il fuoco e vedere quali forme può assumere.»
«Ho guardato», rispose Rudy con il tono della voce leggermente più alto. «E tutto ciò che sono riuscito a vedere, è stato il fuoco e niente altro!»
«Cosa ti aspettavi di vedere?», chiese ancora Ingold di rimando.
«Uh… cioè…» Rudy era consapevole di non aver scorto qualcosa che altrimenti avrebbe dovuto afferrare subito, ma non sapeva esattamente di cosa si trattasse. «Ogni notte ti fermi davanti ad un falò e fissi le fiamme. Sono certo che non stai soltanto guardando la legna che brucia.»
«No,» disse il Mago. «E, quando sarai anche tu un uomo di Potere con cinquant’anni di esperienza, vedrai anche più di me. Intanto devi riuscire ad avvicinarti alle cose nella loro essenzialità. Solamente quando ci sarai riuscito, esse potranno parlarti e vivere con te…»
«Delle volte non riesco a capire…», disse Rudy più tardi rivolgendosi ad Alde mentre la ragazza si allontanava dal carro per sedersi al caldo, vicino a lui, sotto il mantello. «Credo che dovrei capire tutto, ma non ci riesco. Non riesco neanche a capire più le mie sensazioni… mi sento come se fossi stato lanciato in un oceano e stessi tentando di nuotare… solo che quel mare è talmente profondo… tanto che neanch’io riesco a capire dove possa arrivare…» Scosse la testa. «È pazzesco! Meno di un mese fa…»
Rudy tacque di colpo. Si scoprì incapace di spiegare alla giovane Regina, cresciuta tra Re e Maghi, che soltanto poco tempo prima avrebbe riso in faccia a chiunque gli avesse parlato o avesse affermato di possedere quel Potere.
Alde gli si avvicinò, e il suo alito era una nebbia bianca che si condensava leggera nell’aria gelida. La strada in quel punto si snodava attraverso profondi canyon, e la fila dei falò era a pochi passi da loro due e dal convoglio assopito. Intorno a loro si alzavano le ripide pareti delle montagne, e le vette, invisibili, erano nascoste allo sguardo da enormi contrafforti di granito scuro ricoperti da folte pinete. Per tutto il giorno Rudy era riuscito a intravedere le cime più alte del Rampart Range delle Grandi Montagne Nevose che scalfivano le nuvole come denti seghettati. Quello che lo colpiva maggiormente era il senso di mistero che avvolgeva quelle montagne oscure che dominavano il sentiero sinuoso nascondendo ciò che vi era dietro.
La voce di Alde risuonò morbida e confortante.
«Sia che quell’acqua fosse profonda un milione di miglia o solo pochi piedi, tutto quello che puoi fare è soltanto mantenerti a galla. Per essere uno straniero, riesci a comportarti molto bene.»
E gli avvolse un braccio intorno alle spalle.
Rudy sorrise e ricambiò l’abbraccio.
«Per essere uno straniero mi sto comportando in modo fantastico», rispose. Allungò un braccio e si mise a fissare un vecchio tatuaggio. Alde, incuriosita, si mise anche lei ad osservarlo.
«A cosa serve?», chiese.
Rudy ridacchiò.
«A niente. Solo a pensare, a ricordare. Una ragazza che conoscevo mi prendeva sempre in giro per quel tatuaggio… È il mio nome su una bandiera che attraversa una fiamma… Diceva che me l’ero fatto fare in modo che non potessi mai scordare chi fossi, anche nel caso che me ne fossi dimenticato.»
«E hai veramente bisogno di ricordartene?»
Il giovane fissò la profonda notte amara e straniera che li circondava, poi i suoi occhi si alzarono ad incontrare le stelle, grandi e luminose. In lontananza i lupi ululavano, mentre intorno si diffondevano i profumi delle rade erbe di montagna: arbusti, pini, ma anche roccia calda e acqua…
La lunga elsa della sua spada, abbandonata accanto alla sua mano destra, rifletté la luminosità opaca della luce del fuoco, e così facevano anche le pesanti trecce della donna al suo fianco. Poteva quasi udire il battito del suo cuore come quello di un uccellino stretto tra le dita…
Ricordò per un attimo, quasi fosse il personaggio di qualche vecchia favola, il ragazzo californiano con la sua giacca sgargiante che dipingeva furgoni in uno sgangherato garage. L’unica cosa che avevano in comune, ora, era proprio quel tatuaggio…
«Si», disse piano. «Si, qualche volta.»
«Capisco cosa provi», mormorò Alde. «E qualche volta penso che dovrei ricordarmene più spesso.»
«Ti riferisci», chiese Rudy, «al fatto di essere Regina di questa gente?»
Alde tacque, e il giovane temette di averla ferita con quella domanda. Guardando il suo volto profilato contro la cortina di fiamme, vide invece nei suoi occhi accendersi una luce sognante di nostalgia, memorie la cui bellezza allontanava il dolore.
«Era molto bello», disse la giovane. «Ricordo… delle danze, e la sala illuminata da migliaia di candele… il modo con cui quelle fiammelle brillavano insieme al movimento dei vestiti delle dame. C’era poi il profumo delle notti calde, delle piante di limone e delle spezie… Risalivo il fiume sulla Barca Reale, e le cascate del Palazzo erano circondate dalla luce come in uno scrigno d’oro che emergeva dall’oscurità… Allora aveva una casa, i miei giardini, la libertà di fare ciò che volevo…»
Appoggiò la testa sulla spalla di Rudy e le sue trecce soffici come raso rilucevano come ebano.
«Forse sarebbe stato lo stesso… chiunque avessi sposato,» continuò dolcemente. «Forse non tanto per il fatto di essere Regina, quanto perché sarei stata veramente me stessa.»
La sua voce divenne languida.
«Sono veramente una persona felice. Sai? Tutto ciò che voglio è prendere la vita come viene, starmene tranquilla con piccole cose, piccole gioie. Non sono una testarda, un diavolo assetato di sangue…»
«Oh… Si che lo sei!», la canzonò Rudy stringendola a sé. La ragazza alzò lo sguardo fissandolo corrucciata. «Ti amo comunque. Forse ti amo proprio per questo. Non lo so. A volte penso che sia inutile cercare il perché di queste cose… Ti amo e basta!»
Minalde si strinse con maggior forza a lui e spinse il volto contro il petto di Rudy nascondendovelo. Dopo qualche istante, il giovane capì che lei stava piangendo.
«Hei…», esclamò, e l’afferrò per le spalle scuotendola leggermente. «Lo sai che non puoi piangere mentre sei di guardia.» Il mantello scivolò appena, e Rudy le accarezzò la testa e le trecce con un gesto caldo e tranquillizzante. «Cosa c’è, Alde?»
«Niente…», sussurrò lei, ed iniziò ad asciugarsi gli occhi con il dorso della mano. «Nessuno però mi aveva mai detto quello che mi hai detto tu… Mi dispiace. Non farò più la ragazzina…»
Cercò a tentoni il mantello che era caduto, con il volto ancora gonfio per il pianto.
Rudy le afferrò il mento e la costrinse a rialzarsi, poi le baciò teneramente la bocca. Le sue labbra avevano ancora il sapore salato delle lacrime.
«Non posso crederci…», mormorò.
Alde aspirò rumorosamente con il naso e si asciugò gli occhi con la manica in un gesto istintivo ed indifeso.
«È vero.»
Rudy mormorò a bassa voce:
«E cosa mi dici di Eldor?»
Gli occhi della ragazza si riempirono ancora di lacrime sulle quali andò a rifrangersi la luce del fuoco, leggera e brillante. Per un attimo poté soltanto guardarlo senza riuscire ad aprire bocca.
«Mi dispiace,» disse Rudy. Gli avvenimenti si erano succeduti con tanta velocità in quei pochi giorni, che tendeva a scordare da quanto poco tempo la Regina fosse stata scacciata dalla sua città.
Lei sospirò e si rilassò, quasi sì fosse liberata di una tensione tenuta nascosta troppo a lungo.
«No, non preoccuparti», disse. «Ho amato Eldor. E l’ho amato da quando ero bambina. Aveva una personalità che riusciva a trascinare con sé tutti, un potere quasi magico a cui si univa una feroce vitalità, quasi una luce interiore. Lo notavi persino nelle cose più semplici: riusciva a dare loro un significato che nessun altro avrebbe potuto rivelare od afferrare. Divenne Re quando io avevo dieci anni…»
A questo punto chinò il capo, quasi si costringesse ad affrontare ricordi troppo pesanti da sopportare.
Senza dire niente, Rudy la strinse ancora tra le braccia e le pose il mantello sulla spalle per ripararla dall’aria fredda della notte. Tra le montagne scure che circondavano la strada, i lupi ululavano ancora. Era un coro stridulo e violento: la voce del branco lanciato in caccia, distante e debole nell’oscurità.
«Ricordo che ero sul balcone della mia casa a Gae il giorno della sua incoronazione.»
Il mormorio della sua voce era appena più alto del fruscio dei pini accanto alla strada e dello schioppettio dei ciocchi di legno. Stava evidentemente rivivendo un suo personalissimo sogno…
«Era stato in esilio… sai: non godeva molto del favore di suo padre. Era un giorno caldo d’estate, e le grida che l’acclamavano erano così forti che si riusciva a sentire appena la musica della processione. Sembrava un Dio, un cavaliere splendente uscito da una favola, un Principe Reale capace di comandare alla luce ed all’oscurità… Poi venne a casa mia per discutere con Alwir o forse per andare a caccia con lui, ed io ne ero così intimorita che a malapena riuscii a rivolgergli qualche parola. Penso che, se me lo avesse chiesto, in quel momento mi sarei uccisa per lui.»
A Rudy sembrò di vedere quella ragazzina magra e timida con gli occhi blu scuro e le trecce nere, vestita con gli abiti rossi di una figlia della Casa di Bes che si nascondeva dietro le tende del salone per guardare suo fratello, alto e affabile, in compagnia di quel Re misterioso e circondato di luce, che si stavano avvicinando. Fu appena consapevole di quanto stava esclamando ad alta voce.
«Ti sei innamorata di lui quel giorno!»
«Oh», rispose Alde con un sorrisino di scherno dipinto all’angolo della bocca. «Ero sempre innamorata in quei giorni. Per sei mesi presi una terribile cotta per Janus di Weg. Ma quella volta fu diverso. Si, l’ho sempre amato. Quando Alwir predispose le cose per il matrimonio, compresi però che… che amare qualcuno alla follia non sempre significa essere ricambiati.»
Rudy ripeté a mezza bocca:
«Mi dispiace…»
Voleva dirlo, ma capì che il fantasma del Re morto sarebbe stato per sempre suo rivale. Lei lo aveva amato tanto, e lui riusciva a capire quanto fosse stato terribile per quella ragazza vivere con quella ferita… un amore così forte non ricambiato…
Strinse in silenzio la sua mano e lo ringraziò.
«Era così distante», disse dopo qualche istante quando riuscì a riprendere il controllo della voce. «Così freddo! Dopo che fummo sposati, lo vidi assai di rado. Non perché mi odiasse. Ne sono certa. Soltanto che, per tre settimane, credo che avesse dimenticato di avere una moglie. Ritornando con il pensiero a quei giorni, ritengo che avrei dovuto accorgermi subito di quanto quel suo splendore fosse impersonale, uguale per tutti… Ma ormai era troppo tardi… era comunque troppo tardi.» Alde alzò le spalle e quel gesto fu accompagnato da un netto tremolio della sua voce mentre tornava ad asciugarsi gli occhi. «La cosa peggiore di tutte è che, nonostante tutto, lo amo ancora!»
Non si attendeva una risposta. Cercava soltanto la vicinanza di Rudy, di un altro essere umano che le desse un po’ di calore, la sicurezza di non essere ancora una vòlta abbandonata.
Mentre la stringeva, il ragazzo si accorse che lei stava lottando ferocemente con se stessa per controllare i singhiozzi tentando di spingere nel profondo della memoria quella rabbia e quel dolore.
«Così è stato Alwir ad organizzare il tuo matrimonio?», chiese Rudy.
«Oh, si!», rispose lei. Questa volta la sua voce era esile, ma perfettamente chiara. «Alwir sapeva che io l’amavo. Ma non penso che sia stato questo il motivo della sua scelta. Voleva che la Casa di Bes si unisse alla Casa Reale. Così suo nipote sarebbe certamente stato Alto Re! Non penso che mi avrebbe forzato a farlo se ci fosse stata qualcun’altra. Ma non c’era… Alwir è fatto così… è un calcolatore. Era certo di diventare Cancelliere dopo il matrimonio. Le sue azioni celano sempre qualche motivo recondito…»
Povero amore. Cosa mi stai raccontando?, pensò Rudy.
«Ma in tutto ciò», continuò Alde, «è stato molto, molto buono con me. Sotto quella sua mania di eleganza splendida ed appariscente,» affermò la ragazza sorridendo, «cela un cuore ed anche amore.»
Amore, si, ma per che cosa? Rudy aveva compreso che nel caso di Alwir non esistevano cose come ‘l’amore per gli altri’…
Seduta accanto al suo falò, Gil scorse Alde che si alzava, si avvolgeva nel suo mantello di soffice pelliccia nera e si allontanava lungo il sentiero pietroso che conduceva alla sagoma scura del carro. Si sentiva in apprensione perché ormai la notte nascondeva sempre qualche traccia del Male, e cominciò a chiedersi come quella sciocca ragazza potesse abbandonare così il suo bambino, anche se le Guardie continuavano sempre a vigilare, per andare ad amoreggiare nel buio con Rudy Solis.
Gil non era mai stata veramente innamorata, e i suoi sentimenti verso chi lo era si dividevano tra la simpatia, la curiosità e, occasionalmente, una larvata forma di desiderio che però si sforzava di non ammettere neanche con se stessa.
Normalmente non le sarebbe importato nulla se Rudy e la Regina vedova si fossero tenuti per la mano, se fossero stati insieme a parlare o, peggio, se si fossero abbandonati alle orge… Quella notte però era diverso. Quella notte Gil sentiva la presenza del Buio. Intorno aleggiava quel senso di malignità attenta, di mostruosa e feroce intelligenza che aveva già riconosciuto durante la discesa infernale nei labirinti delle Volte di Gae. La sensazione era così oppressiva che, a dispetto del fuoco alle sue spalle, si girava di continuo come a controllare che non ci fosse nessuno dietro di lei.
A mezzanotte, uno dei soldati di Alwir le diede il cambio. Era un giovane grande e robusto con un’uniforme rossa macchiata e stinta. Anche Rudy fu sostituito e, a prendere il suo posto, venne uno dei Monaci Rossi. Gil vide il giovane californiano avviarsi verso il campo. Poi Rudy tornò sui suoi passi e si infilò tra le ombre dei carri scivolando nel retro di uno di quelli che portavano lo stemma della Casa di Dare.
Gil sospirò e tornò accanto al falò delle Guardie. Continuò però a fiutare come un cane il sentore, la traccia di qualche presenza maligna portata dal vento. Rimase a guardare la notte al di là del bagliore ambrato delle fiamme, e le sembrò che una mano pesasse su di lei fredda e terribile, simile all’incombere vicino e minaccioso della morte.
La maggior parte delle Guardie era già addormentata quando Gil raggiunse il campo. Gli uomini e le donne, avvoltolati nelle loro coperte, si erano persi nel sonno profondo e veloce dovuto alla stanchezza fisica. Solo uno vegliava, seduto accanto ad un mucchio di braci, solido come una roccia. Dava quasi l’impressione di essere lì dall’inizio del tempo. Lei l’aveva visto così, notte dopo notte, quando non era in perlustrazione ai margini del campo, e non riuscì a ricordare quando quell’uomo avesse dormito l’ultima volta.
Gil si accovacciò accanto a lui, in silenzio.
«Cosa vedi?»
Il Mago alzò gli occhi dalla fiamma e la luce si perse tra le rughe profonde del suo viso mentre le sorrideva.
«Niente di importante.»
Le sue dita si muovevano leggere esaminando l’aria e la quiete minacciosa di quella notte.
«Niente da spiegare… almeno credo…»
«Lo stai sentendo anche tu, vero?», chiese con calma Gil, e Ingold annuì.
«Dovremmo raggiungere il Torrione in meno di tre giorni,» disse.
«La notte scorsa l’ho sentito confuso e lontano. Stanotte invece è vicino: troppo vicino, anche se nessuno ci ha ancora portato notizie del Buio.»
Gil strinse le mani intorno alle ginocchia e guardò la luce che si rifletteva sulle sue dita indolenzite e gonfie, arrossate dal freddo.
«C’è un nascondiglio di quei mostri da qualche parte tra queste montagne?»
«Soltanto uno di cui parlai una volta a Janus. È un vecchio rifugio, chiuso da molto tempo. Notte dopo notte l’ho esaminato nel fuoco, ma non sembra essere stato adoperato di recente. Tuttavia continuo a vederlo…» annuì all’indirizzo del piccolo falò. «Riesco a vederlo anche adesso. È in una valle ampia e poco profonda a nemmeno venti miglia da qui. Riesco a scorgere il suo basamento: è alle spalle della valle, inclinato verso le montagne. La valle invece è coperta dagli alberi, piena di calore e di oscurità…»
Un ceppo cadde sul fuoco e si alzò una nuvola di scintille che illuminarono il suo viso.
«Questi luoghi si trovano sempre al riparo di qualche genere di ombra. Né il cielo né le stelle riescono a riflettersi su quella pietra levigata… e, nel mezzo di quella oscurità, come l’entrata di una tomba, si staglia l’oscurità più profonda dell’entrata stessa. Posso vedere che è chiusa, e che la terra e le rocce sono coperte dalle erbacce che sono cresciute.»
Fissando il fuoco, Gil non riusciva a vedere nulla. Soltanto il gioco dei colori, topazio, rosa, giallo, e il riverbero del calore che si sollevava sulle pietre che circondavano il falò rivelando il disegno intricato e misterioso delle felci fossili racchiuse nella struttura della roccia.
La voce aspra di Ingold l’aiutò comunque a scorgere quella scena, quasi la vedesse con i suoi stessi occhi: il modo in cui l’oscurità si addensava tra quegli alberi contorti e avviluppati, l’agitarsi dell’ombra della montagna che nessun vento avrebbe mai potuto distruggere.
La notte era gonfia di un senso profondo e disperato di orrore…
«Non mi piace…», mormorò Gil.
«Nemmeno a me,» rispose Ingold. «Non credo a questa visione, Gil. Siamo così vicini al Torrione. Il Buio deve fare il suo tentativo e farlo presto…»
«Possiamo andare fin là?»
Ingold sollevò il capo e guardò intorno a lui il campo silenzioso e addormentato. Le nuvole si stavano addensando sulle montagne coprendo le stelle; sembrava quasi che un’oscurità più profonda stesse calando sulla terra.
«Non credo», disse ancora Gil, «che ci sia rimasta qualche altra possibilità…»
Il Buio li circondò. Gil ne percepì immediatamente la presenza con una sensazione amara e bruciante: era qualcosa capace di oscurare anche la luce stessa del sole. Si fermò ai margini di uno degli innumerevoli boschi che coprivano la valle come la spessa ragnatela di un ragno mostruoso, e guardò verso il nord a cercare il punto dove quella valle maledetta si inclinava. Tentò di pensare razionalmente: ora era giorno e lei era in compagnia di Ingold! Però la sensazione di paura non scomparve: il Buio era là!
La scalata era stata troppo semplice. Troppo facile, pensò.
La valle ampia e rotonda attraverso cui l’aveva condotta Ingold era pianeggiante, con una pendenza minima che non sarebbe stata assolutamente difficoltosa se non fosse stato per l’erba alta che la ricopriva. Il vento che li aveva tormentati fin dalla loro partenza da Karst si era calmato: il luogo era protetto dalle pareti del canyon, roccia che si arrampicava su altra roccia fino a costruire una parete che raggiungeva i baluardi oscuri delle vette che oscuravano il cielo.
Al loro riparo, l’aria era più calda di qualsiasi altro posto lei avesse conosciuto in quel mondo, ma quel caldo la sconcertava. I boschi erano troppo fitti per essere salutari, l’aria troppo pesante, e il terreno in alcuni punti era addirittura impraticabile a causa delle radici delle erbacce. Gli alberi scuri e foschi che crescevano lungo tutta la valle sembravano intrappolarla in un labirinto di ombre, e conservavano sotto i loro rami aggrovigliati i residui di una notte eterna che non sarebbe mai passata.
«Sono qui!», sussurrò. «So che sono qui!»
Accanto a lei, quasi invisibile in quella luce sepolcrale, Ingold annuì. Anche se non era trascorso molto tempo dopo mezzogiorno, l’atmosfera di quella valle sembrava giocare strani scherzi con la luce solare. L’aria rarefatta affaticava Gil, e le sembrò anche che una mano misteriosa tentasse di offuscare la sua capacità di pensare.
«Possono essere pericolosi anche di giorno?»
«Sappiamo ben poco di quelle creature», le rispose Ingold a bassa voce. «Ogni tipo di Potere ha i suoi limiti, ed abbiamo visto troppe volte come la loro forza sia aumentata dal numero… stiamo camminando su una lastra di ghiaccio che copre le profondità dell’Inferno… stai attenta a come ti muovi…»
Quindi si coprì il volto con il cappuccio del mantello, e si incamminò come un fantasma in quell’aria velenosa e plumbea.
Mentre continuavano a salire, crebbe in lei la sensazione che si stavano addentrando in un mondo dove regnava un male al di là di ogni comprensione umana. C’era qualcosa di orribilmente simmetrico nella valle: qualche errore nella struttura stessa della roccia, nelle montagne che sussurravano avvertimenti alla mente di Gil.
Il loro cammino comunque risultò facile fino a che non raggiunsero una grande spaccatura che tagliava la valle a metà, e intorno alla quale cresceva della vite selvatica ed una specie di edera particolarmente fibrosa che si sviluppava sul sentiero irregolare che l’attraversava. I fossili che Gil aveva intravisto tra le pietre del falò la notte precedente, erano presenti anche qui, e dalle rocce spezzate affioravano i resti di felci enormi, alghe marine lunghe molte braccia, e qualche traccia di creature vissute troppo tempo prima perché ne fosse rimasta memoria, incisi per sempre nell’ardesia.
Il terreno sembrava livellato dal passaggio di milioni di piedi, ed era duro come un vecchio manto stradale, sempre circondato dall’intrico impenetrabile degli alberi.
Ingold si fermò e si girò per controllare alle sue spalle: era la centesima volta che ripeteva quel movimento quel giorno.
Gil si stropicciò gli occhi arrossati. Aveva dormito a stento e per poche ore da quando avevano abbandonato il campo all’alba, e la mancanza di riposo si faceva sentire.
Non che io abbia goduto di particolari comodità da quando sono in questo universo, pensò la ragazza.
Una particolarità del terreno attirò la sua attenzione: era il letto disseccato di un ruscello che non avrebbe dovuto essere lì, e soprattutto uno strano mucchio di rocce…
Giratasi all’improvviso, si ritrovò sola. Fino a poche settimane prima avrebbe fatto attenzione anche al soffiare del vento ed avrebbe chiesto aiuto al primo sentore della presenza del Buio. Ma la vita da lupi e la compagnia del Falcone di Ghiaccio avevano cambiato le sue capacità di reazione, e lei rimase perfettamente immobile scrutando intorno a sé quel paesaggio fin troppo tranquillo.
Una mano le sfiorò una spalla facendola sobbalzare. Ingold le afferrò il polso quando la sua spada era già per metà fuori dal fodero.
«Dove eri andato?», gli sussurrò.
Il Mago si accigliò.
«Non mi sono mosso da qui.»
Con la mano ancora stretta intorno al polso di Gil, si guardò intorno dubbioso.
«Certamente non eri qui un minuto fa.»
«Hmm…» Il vecchio si passò una mano tra la barba arruffata. «Aspetta un momento,» disse infine, «e guardami.»
Pronunciando quelle parole, lasciò andare Gil e si allontanò; i suoi passi erano a malapena udibili tra la sterpaglia alta del sottobosco.
Gil fece del suo meglio per non seguirlo. Esausta com’era, sentiva che la stanchezza la stava avendo vinta con le sue ossa, ma era certa di non essersi mossa e di non aver chiuso gli occhi. Nonostante tutto però, Ingold era scomparso di nuovo. Intorno non c’era alcun posto dove potesse nascondersi, ed inoltre il sole splendeva alto in cielo.
Ammiccò e si stropicciò gli occhi. C’era qualcosa in quel luogo, una qualche esalazione malefica che creava illusioni ed imprigionava la vista. Poi si girò e scorse Ingold a circa venti metri dal margine del sentiero coperto di edera spianata, quasi fosse stato sempre là. Appena le si avvicinò, lei non ebbe difficoltà a seguirne i movimenti.
Gil scosse la testa.
«Non capisco», disse.
Si tirò il mantello sulle spalle, gesto che le era ormai diventato abituale, quasi come quello di raddrizzare l’elsa della sua spada preferita. Nei giorni passati, il mantello non era servito a proteggerla veramente dal freddo, ma in quel luogo, con quell’aria soffocante, sembrava fin troppo caldo e pesante. Era ormai del tutto consapevole dell’atmosfera malefica che pesava su quella valle.
«Sai cosa accadrà?», chiese a Ingold.
«Temo di si,» rispose il Mago. «Il potere del Buio è forte qui, molto forte. Sembra che riesca anche ad interferire sull’Incantesimo che avevo lanciato su noi due… È un peccato: vuol dire che dovremo fare a meno…»
«Vuoi dire,» esclamò Gil sorpresa, «che siamo stati sotto Incantesimo fin dall’inizio?»
«Oh, si!» Ingold sorrise scorgendo il volto sbalordito della ragazza. «Ho gettato più di un Incantesimo sul convoglio da quando siamo partiti da Karst. Principalmente erano per difesa, per tutela… qualcuno anche di avversione e di protezione… Non sarebbero serviti a molto contro un attacco in piena regola, ma sarebbero certamente serviti ad evitarci colpi casuali di sfortuna.»
«Non me ne ero mai resa conto…», rispose Gil.
«Naturale. L’abilità maggiore di un buon Mago è proprio quella di non farsi mai scoprire.»
Gil lo fissò insospettita. Forse Ingold la stava prendendo in giro ma, osservandolo, si rese conto che il vecchio Mago era del tutto serio, serio come era sempre stato nei momenti difficili.
«Un Incantesimo riuscirebbe a proteggerci dal Buio?»
«Probabilmente non qui, nella loro valle», rispose con calma Ingold. «Ma per i Razziatori Bianchi, si. Ci hanno seguito da quando abbiamo lasciato l’accampamento. Se l’Incantesimo non funziona, perderemo molto tempo, e sarà difficile recuperarlo.»
Raggiunsero la loro meta soltanto a metà pomeriggio. Gil sentiva crescere da lontano la sensazione di orrore. Sapeva, senza alcun bisogno di chiederlo, che quello era il luogo che Ingold aveva visto riflesso nella luce del fuoco. Il terreno era innaturalmente piatto, molto inclinato, con una lastra di basalto che era conficcata nel fianco della montagna con la punta più lontana che si alzava verso l’alto come la prua di un vascello insabbiato. Un angolo invece era piantato nel terreno della valle come se a metterlo lì fosse stato qualche inspiegabile cataclisma, perso negli abissi del tempo.
L’angolo più inclinato mostrava l’intero spessore della lastra e lasciava capire quanto a fondo fosse penetrata nel terreno: anche se la terra intorno era scalzata per più di trenta piedi, non si scorgeva traccia del fondo. Nel mezzo di quella sorta di enorme cavità si spalancava il nero foro d’ingresso da cui partivano le scale che conducevano all’abisso del Buio.
Le scale erano aperte.
La minuscola traccia di terra e pietra che Ingold aveva scorto attraverso le fiamme era sparpagliata ovunque intorno a quella orrenda fossa. Le pietre giacevano sparpagliate quasi fossero i resti di un’eruzione vulcanica, ma Gil si accorse che anche su di esse stava crescendo l’erbaccia tenace che aveva visto su pietre molto più antiche.
Ne raccolse una. Su di essa appariva ancora l’impronta di un’orchidea rigogliosa, impietrita in qualche palude primitiva milioni di anni prima e frantumata da qualche lontana esplosione.
Anche Ingold stava esaminando la forma delle pietre mentre si muoveva metodicamente verso il pendio e verso l’ingresso che si spalancava alla luce del giorno come una bocca che stesse lanciando un grido silenzioso.
Il Mago si fermò dove terminavano il campo e le erbacce, e da dove partiva il sentiero oscuro. Gil lo vide chinarsi a raccogliere una pietra che rigirò tra le mani, pensieroso. Poi riprese a camminare cautamente sulla superficie levigata della pietra, ed iniziò una lenta e metodica scalata verso l’ingresso.
Anche se le ripugnava, la ragazza, come aveva già fatto nelle Volte di Gae, lo seguì.
Dovette lottare contro il fogliame che le si avviluppava intorno alle gambe e si avvicinò al Mago sul pendio. Ingold si fermò ad aspettarla, e la sua ombra era un cerchio scuro intorno ai suoi piedi.
Vista alla luce del giorno, sotto il cielo aperto, la vastità del pendio ora le appariva in qualche modo minacciosa. Dall’angolo infossato nella terra fino a quello più inclinato e piantato nel fianco della montagna, correvano circa settecento piedi. Ingold, in piedi in mezzo, sembrava improvvisamente molto piccolo. Inoltre era un’arrampicata difficile, su un terreno scivoloso. Quando raggiunse il Mago, Gil ansimava visibilmente, e cercava di mandare giù boccate di quell’aria densa.
«Avevamo ragione!», esclamò Ingold a bassa voce. «La visione era stata un inganno!»
Sotto di loro le scale scendevano e, da quell’apertura, proveniva un filo d’aria umida che agitò i capelli appiccicati dal sudore di Gil.
Non c’era nulla ora tra loro due e il Buio se non la presenza del sole, e la ragazza guardò verso il cielo quasi temesse l’addensarsi delle nuvole.
«Cosa possiamo fare?»
«Tornare al più presto possibile al convoglio. Non sappiamo ancora cosa stiano tramando, ma almeno sappiamo da dove potrebbe provenire l’attacco. In ogni caso qui è possibile ostacolarli, e al tempo stesso coprire la ritirata di Tir verso il Torrione.»
Gil lo guardò.
«E come?»
«È stata un’idea di Rudy… Una volta… Se noi…»
Ingold tacque di colpo e le afferrò il polso. Gil seguì la direzione del suo sguardo lungo il sentiero che si perdeva nella valle e scorse qualcosa che si muoveva nei boschi accanto a quelle strane forme scure di pietra nera che erano disseminate dappertutto. L’ombra scomparve velocemente alla vista, ma Gil sapeva cosa era. E poteva trattarsi soltanto di una cosa.
«Ci hanno visti?», chiese.
«Senza dubbio. Anche se mi sorprende il fatto che siano già così vicini.»
Aiutandosi con il suo bastone, Ingold cominciò cautamente a scendere, imitato da Gil che lo seguì con circospezione.
Una volta alla fine del pendio, Ingold scrutò di nuovo la valle, ma questa volta non scorse nulla.
«Non significa niente», disse, spostandosi verso il ciglio della strada. «Il solo fatto di non vedere i Razziatori Bianchi non vuol certo dire che non ci sono!»
«Cosa facciamo?»
Ingold puntò il suo bastone verso il groviglio di crepe che conduceva dalla valle del Buio verso altre valli. Era un mucchio confuso di vecchie spaccature create, forse, da qualche valanga.
«Ci deve essere un’ottima strada da quella parte,» continuò con calma, fermandosi all’ombra delle viti che crescevano accanto alla parete nera e liscia.
«Mi stai prendendo in giro!», esclamò Gil.
«Non scherzo mai in queste situazioni, mia cara», rispose Ingold, ed iniziò la sua salita sul pendio pietroso.
Gil rimase ancora un po’ dov’era, guardandolo scomparire dietro l’angolo della montagna. Il sentiero saliva e girava intorno alla base della scheggia di basalto e, qualunque sconvolgimento avesse creato quel passaggio, ormai era passato tanto tempo da far si che la valle stessa sembrava aver avuto origine in quel punto.
Il pensiero del tempo trascorso infastidiva Gil.
Tutti quei fossili… pensò. Perduti nella notte dei tempi… Erano trascorsi eoni, la terra e il mare avevano addirittura cambiato la loro forma, eppure qualche Potere arcano aveva posto in quel luogo la sua dimora… Mio Dio! Quella valle doveva essere una valle tropicale quando tutto quello era stato creato. Da quanto tempo allora i Guerrieri del Buio abitavano la Terra?
Chi avrebbe potuto risponderle se quelle creature non possedevano ossa?
Sono anche intelligenti, sanno piantare alberi, costruire strade e conservarle per millenni senza che su di loro ci siano segni di decadenza o di rovina… Sono abbastanza intelligenti da possedere una loro Magia, diversa da quella umana e del tutto incomprensibile per noi… Sono anche sufficientemente intelligenti da studiare il convoglio, da sapere dov’è Tir, e da conoscere il motivo che li costringeva a tentare di impedirgli di raggiungere il Torrione…
Gil rimase immobile per qualche attimo con le braccia conserte mentre l’ombra si avvicinava, e continuò a meditare sul Buio.
Dopo un po’ alzò gli occhi, e scorse Ingold che appariva e spariva tra i macigni e gli alberi fitti in fondo alla valle.
Qualche cataclisma primordiale aveva spezzato le vette più alte delle montagne lì intorno, ed aveva lasciato soltanto una landa di desolato granito e abissi senza fondo. Il tempo poi aveva provveduto a ricoprire tutto con una vegetazione estremamente rigogliosa, forse troppo.
Quel paesaggio le ricordava i dipinti cinesi con alberi che spuntavano indifferenti sul lato scosceso della montagna. Ma qui tutto era sgradevole, sporco, scuro. Qui i fusti secchi erano caduti a marcire in gole irte di spighe aguzze di un bianco malato.
Il mantello marrone di Ingold spiccava tra le rocce strette, mentre il Mago si muoveva arrampicandosi su quei pendii pietrosi.
Ingold la vide fermarsi a guardare stando seduta sulla roccia.
«Vieni», le gridò. «C’è un sentiero da questa parte.»
Che diavolo, sospirò la ragazza. Si muore una volta sola!
Non le erano mai piaciute le altezze e, mentre si arrampicava, invidiò il bastone di Ingold. In alcuni punti il sentiero si restringeva fino a diventare non più largo di pochi centimetri. Altrove invece la vegetazione cresceva dovunque, nascondendo il terreno. Più di una dozzina di volte pensarono di dover tornare indietro evitando contemporaneamente di guardare in alto, in basso o da qualsiasi altra parte. Le loro mani a poco a poco si spellarono e cominciarono a diventare insensibili, mentre la loro strada diventava sempre più angusta: un sentiero promettente all’improvviso scompariva trasformandosi in una crepa tra le rocce enormi dove si poteva passare a fatica. Oppure si trovavano dinanzi a viluppi enormi di foglie all’interno delle quali si nascondevano certamente creature, certamente meno mortifere, ma non meno terrificanti del Buio…
Ci saranno dei serpenti a sonagli in questo mondo? si chiese Gil. O comunque serpenti velenosi, sonagli o no…
Infine si fermarono vicino ad una crepa tra le rocce, dopo una ripida salita intorno alla superficie convessa di un macigno piantato sull’orlo di una voragine colma di cespugli spinosi e pietre frantumate.
Gil sudava abbondantemente mentre cercava di mantenere l’equilibrio su quel terreno friabile ed infido.
Lo spostarsi del sole sulla verticale del Rampart Range aveva gettato nell’oscurità più profonda quel baratro. Ingold era a malapena visibile, e soltanto grazie al pallore del viso ed al bianco della sua barba oltreché per il luccichio degli occhi.
«Benissimo Gil!», ansimò il vecchio Mago. «Riuscirò a fare di te una scalatrice.»
«Per niente al mondo», rispose, respirando a fatica e guardando in basso. Se c’era qualche altro sentiero da scalare, certamente non sarebbe riuscita a percorrerlo ora.
«Potremmo seguire questo baratro fino alla vetta di quella montagna là,» continuò Ingold indicandola con il bastone. «Una volta raggiunta quella cima, saremo vicini alle nevi, e credo, finalmente lontani dal Buio. Con un po’ di fortuna, potremmo anche trovare un sentiero sull’altro lato che ci conduca nella valle di Renweth e da lì al Torrione di Dare.»
Gil calcolò approssimativamente la distanza per quanto glielo consentiva la luce ingannevole nell’aria rarefatta di montagna. Sembravano essersi arrampicati fin sopra la foschia che stagnava nella valle. Qui le cose erano chiare, e le ombre che avanzavano rendevano difficile stabilire la posizione apparente delle vette e delle montagne.
«Non penso che ce la faremo prima di notte.»
«Oh, neanch’io lo penso», replicò Ingold «Ma non credo proprio che sia consigliabile trascorrere la notte giù in basso.»
Gil sospirò rassegnata.
«Stavolta hai vinto tu!»
Il Mago appoggiò cautamente il bastone ad un macigno che copriva il sentiero e la pietra rotolò pericolosamente creando un fiume di sabbia e di ghiaia intorno ai loro piedi e sui bordi del sentiero. Brontolando sull’opportunità di portare una fune la prossima volta, imprecò contro gli invisibili Razziatori ed iniziò subito a cercare un’altra strada.
Mentre lo faceva, Gil si girò a guardare la montagna che le sembrava diversa dopo quella scalata da suicida. Scrutò la valle di sotto e fu presa da un attimo di smarrimento e di paura.
«Ingold», chiamò con voce tremante. «Vieni qui a guardare…»
Il tono di Gil spinse il Mago ad avvicinarsi in fretta.
«Che cosa c’è?»
Gil allungò il braccio.
«Guarda là. Cosa vedi?»
Vista da quella posizione, la terra aveva un aspetto diverso; l’angolazione del sole cambiava la prospettiva di quel luogo dominato dall’oscurità. Da quell’altezza era semplice scorgere come le fitte macchie di bosco avessero una strana configurazione, quasi secondo schemi geometrici alieni; i letti stessi dei torrentelli seguivano delle traiettorie dotate di una loro perversa regolarità. I grovigli delle viti selvatiche ed il mutamento progressivo del loro colore e del loro spessore emanavano una inquietante potenza suggestiva.
Quasi a perpendicolo sotto di loro vi era il rettangolo della strada, e la sua posizione, rispetto ai mucchi anomali di pietra scura, era divenuta improvvisamente chiara a Gil, che conosceva i rudimenti dell’archeologia.
Ingold corrugò la fronte fissando la vegetazione.
«È come se… come se ci fosse stata una città… ma qui non c’è mai stata alcuna città che la nostra storia riesca a ricordare…» L’occhio ora poteva riconoscere nell’ombra delle erbacce angoli e curve troppo simmetriche per appartenere a della semplice pietra.
«Che cosa ha causato questa rovina? È come se le viti crescessero più rigogliose nei luoghi dove…»
«Sono radicate in profondità,» gli fece eco debolmente Gil. «Apparentemente i sentieri sono così coperti da lasciare appena una traccia. Gli alberi laggiù sono più bassi perché le loro radici non possono estendersi troppo in profondità. Guarda. Vedi il letto di quel ruscello? E ancora…» Si interruppe. «Sembra quasi che sia stata progettata così, con una regolarità che però non riesco a ricordare in nessuna altra città che ho visto. C’è una certa configurazione: si può distinguerla con il sole da questa angolazione, ma il progetto è del tutto sbagliato…»
«Naturalmente,» sussurrò il Mago, «non ci sono strade.»
I loro sguardi si incontrarono. La comprensione li raggiunse lentamente come un sussurro che proveniva dagli abissi incommensurabili del tempo.
«Vieni,» disse Ingold in fretta. «Questo non è un posto dove possiamo rimanere una volta che il sole è tramontato.»