C’erano soltanto vento ed oscurità. Gil si mosse ed il suo corpo le rispose con migliaia di fitte dolorose mentre le sue ossa quasi gemevano per il freddo. Il movimento le fece salire lo stomaco in gola, e la ragazza si sentì come se avesse nuotato nell’acqua gelida dopo un pasto abbondante: nausea, stanchezza e debolezza la stavano sopraffacendo.
Intorno alle sue braccia sembrava esserci una pesante pezza di velluto che la stringeva, e nella sua bocca dominava un gusto di erba e di terra, mentre riusciva a percepire una pesante puzza di fumo che proveniva dalla sua giacca e dai suoi capelli.
Tutt’intorno non c’era altro rumore che quello del vento.
Si rizzò a sedere piena di paura. Il fagotto tra le sue braccia che conteneva Tir era silenzioso. Sotto una pallida luce stellare si scorgevano i profili di alte colline che si stendevano in tutte le direzioni, aride, pietrose, desolate, e dalle quali spirava quel gelido vento del nord. Accanto a lei giaceva Ingold, il capo chino, una sagoma scura nell’oscurità se non fosse stato per la spada sguainata che rifletteva la luce sbiadita delle stelle. Poco più in là, stava Rudy piegato in una posizione semi fetale, con la testa stretta tra le braccia.
«Stai bene?», chiese Gil.
La voce di Rudy risuonò smorzata.
«Bene? Sto ancora cercando di capire se sono vivo e tutto intero!» Alzò la testa e le sopracciglia scure spiccarono sul suo viso pallido e teso. «Tu stai bene?»
La ragazza annuì.
Rudy si guardò intorno.
«Cristo! Speravo che fosse stata tutta un’allucinazione… ma dove siamo finiti? Nella terra di Ingold… da qualunque parte provenga?»
Ancora non vuole ammetterlo con se stesso…, pensò Gil. Si guardò intorno anche lei quasi a sottolineare quanto fosse spettrale quel paesaggio colore del peltro.
«Certamente questa non è la California del Sud,» disse.
Rudy si drizzò in piedi, barcollando come se avesse bevuto e stesse per svenire accanto a lei.
«Il bambino?»
«Penso stia bene. Non voglio svegliarlo però. Sta respirando…» La giovane strinse leggermente le dita sulla guancia morbida di Tir e, avvicinando le sue labbra alla bocca piccola e rosea, sentì provenire un sottile filo di respiro. «Ingold ha detto che due Passaggi in ventiquattr’ore avrebbero potuto arrecargli seri danni.»
«Per come mi sento adesso, neanch’io penso di riuscire a sopravvivere ad un’altra esperienza del genere. Vediamo.» Rudy prese il bambino dalle braccia di Gil e lo cullò piano sentendo quanto fosse freddo il suo viso. «Faremmo meglio a svegliare Ingold. Questo posto ha una luna?»
«Dovrebbe averla,» disse Gil. «Le costellazioni sono le stesse: vedo l’Orsa Maggiore e, laggiù, Orione.»
«Strano!», rispose Rudy scostandosi i lunghi capelli dal viso. Il ragazzo si girò intorno per scrutare l’arido paesaggio. Le colline, una di fianco all’altra, si ammucchiavano verso una bassa catena di montagne più a nord, dove un’altra parete di rocce solcata da lunghe strisce di neve si profilava alla luce delle stelle. Verso sud invece, una valle ondulata si spingeva lontano dalle rocce fino a un tratto più scuro attraverso il quale si poteva scorgere il luccichio distante di un fiume.
«In qualsiasi inferno siamo caduti, faremmo meglio a raggiungere un luogo abitato, ed al più presto. Se non troviamo qualcosa di familiare, ci troveremo davvero in un brutto guaio. Ehi!» Si voltò verso Ingold che aveva cominciato a rialzarsi stringendo sempre, in un gesto istintivo, l’elsa della spada. «Come stai?»
«Bene adesso, e starò ancora meglio tra un po’…», rispose Ingold, calmo.
Sta mentendo, pensò Gil. Gli sfiorò una spalla ed il mantello bruciacchiato, coperto da grandi macchie di melma affumicata che cominciarono a cadere in scaglie di polvere nera. Anche la manica della camicetta della ragazza ne era coperta, e il dorso della mano le doleva quasi fosse ustionato.
Ingold, ancora mezzo stordito, si stropicciò gli occhi.
«Sta bene il Principe?»
«Non lo so, credo sia svenuto…», rispose Gil con voce preoccupata.
Lo Stregone sospirò, strisciò a terra fino a che raggiunse il bambino, e lo prese dalle braccia di Rudy. Ascoltò il suo respiro e poi gli colpì delicatamente il volto con la sua mano coperta di cicatrici. Chiusi gli occhi, sembrò meditare a lungo. Soltanto il gemito del vento rompeva il quel silenzio che li circondava, ma ognuno di loro sapeva che la notte, intorno, era viva e piena di pericoli.
Gil e Rudy erano entrambi consapevoli dell’abissale profondità del buio, come mai in vita loro. Nella California del Sud — la loro terra — le notti non erano mai così scure: c’era sempre un bagliore, le luci di qualche grande città che, in lontananza, facevano concorrenza alla luna ed alle stelle. Qui invece, le stelle enormi sembravano grandi occhi che vigilassero il vuoto della notte con la loro intensa luminosità. L’oscurità copriva quella terra, e l’unico contatto che Gil e Rudy avevano avuto con le creature del Buio, li rendeva ancora più consci di quanto fossero in pericolo, di quanto pesasse quella antica paura in mezzo alla campagna, di notte.
Tir singhiozzò ed iniziò a piangere con il tono debole e insistente di un bambino esausto. Ingold lo cullò contro il suo petto mormorandogli parole calme ed inintellegibili fino a che il pianto si calmò e lo poté sollevare guardandolo e scuotendogli i capelli neri e crespi.
Gil per un attimo vide in quelle due figure non il Mago che proteggeva il suo Principe, l’Erede del Regno, ma solamente un vecchio che cullava con amore il figlio di un amico morto.
Ingold alzò lo sguardo.
«Adesso sarebbe meglio muoverci.»
Rudy si alzò di scatto ed aiutò prima Gil e poi Ingold ad alzarsi.
«Volevo giusto chiedertelo,» disse, appena lo Stregone affidò il bambino a Gil e cominciò a pulire la spada sull’orlo del mantello prima di riporla nel fodero. «Dove andremo, una volta fuggiti da qui?»
«Penso», rispose lo Stregone a bassa voce, «che faremmo bene a dirigerci verso Karst, la vecchia Capitale estiva del Regno: si trova a sole quindici miglia da qui, tra le colline. I fuggiaschi di Gae sono sicuramente andati là; possiamo trovarvi cibo e notizie, se non altro.»
Rudy obiettò:
«È un tragitto maledettamente lungo da fare in macchina, nel mezzo della notte.»
«Se vuoi, puoi anche rimanere qui ad attendere il giorno», acconsentì magnanimamente Ingold.
«Grazie mille!»
La luna che stava sorgendo illuminava le colline con una sottile luce argentata, quando cominciarono a muoversi. Le ombre del deserto diventarono ancora più profonde ed inquietanti nella notte gelida. Il mantello di Ingold sussurrava come l’ombra di uno spettro attraverso l’erba coperta di brina.
«Ingold…» Rudy si avvicinò al vecchio esitando, non appena iniziarono a scendere il lungo pendio della collina. «Mi dispiace di averti detto che eri un pazzo…»
Lo Stregone lo fissò con uno scintillio offeso negli occhi. Poi disse con solennità:
«Accetto le tue scuse, Rudy. Sono contento che alla fine siamo riusciti a convincerti.»
«Ehi!», scattò Rudy, ma lo Stregone sorrise.
«Ammetto che la mia storia non era del tutto credibile. La prossima volta ne inventerò una migliore.»
Rudy non rispose, e continuò a seguire il sentiero pietroso alle sue spalle scuotendosi la polvere dalle maniche della sua vistosa giacca.
«Spero che tu non voglia sollevarne troppa,» aggiunse Ingold. «Non è divertente per i tuoi amici respirare la polvere che sollevi.»
Camminarono fino a poco prima dell’alba. La notte era stata silenziosa e gelida, ma per fortuna non avevano fatto nessun brutto incontro. Se i Guerrieri del Buio erano in caccia, almeno non lo erano su quelle colline.
Dopo molte miglia, Ingold abbandonò gli argentei pendii ventosi delle colline, ed iniziò una ripida salita attraverso una valle coperta da un fitto bosco che sembrava condurre dritta nel cuore delle montagne; questa volta però il loro cammino fu accompagnato dal profumo del manto scricchiolante delle foghe autunnali e dal gorgoglio di qualche ruscello in distanza.
Una volta nel profondo del bosco, Ingold si fermò e disse:
«Sto evitando la strada principale che viene su dalle pianure, e vi sto conducendo a Karst per una strada secondaria. La prima ci farebbe procedere più facilmente, ma sarà piena di fuggiaschi, e quindi pericolosa a causa dei Guerrieri del Buio. Per quanto mi riguarda, non ho nessuna voglia di un’altro combattimento con la spada, questa notte.»
Gil, già stanca per il lungo cammino sul sentiero pietroso, e con un bambino addormentato tra le braccia che pesava certo più di quindici libbre, si chiese per quanto tempo ancora lo Stregone avrebbe resistito senza riposare, specialmente dopo la battaglia al Palazzo di Gae, alla quale si doveva aggiungere il combattimento con il Guerriero del Buio nella baracca dell’aranceto. Tutti gli Stregoni avevano quel genere di forza a cui far ricorso, si chiese, o più semplicemente era Ingold ad essere incredibilmente tenace e resistente?
Nelle ombre della foresta il suo viso era cereo e stanco, ed aveva gli occhi cerchiati; dove la coda sferzante della creatura del Buio gli aveva tagliato la pelle, si scorgevano dei segni rossi ed infiammati, ed il suo mantello era chiazzato dai buchi prodotti dalle scintille. Nonostante questo, lo Stregone continuava ad avanzare impettito e sereno, come un vecchio gentiluomo durante una passeggiata pomeridiana in un parco.
Passarono dal buio degli alberi ad una zona più chiara lungo un ruscello, e la musica dell’acqua divenne improvvisamente più forte. Dopo l’oscurità del bosco, persino la pallida luce della luna sembrava più forte. Dinanzi a loro si apriva un paesaggio fantastico, di sogno: profonde macchie di sabbia di fiume e di pietre levigate dall’acqua, facevano da sfondo alla nera parete di una montagna che si alzava informe contro il chiarore del cielo, eccetto che per una macchia arancione, un luccichio distante nella notte, forse un fuoco.
«Là», disse Ingold indicandolo. «Quella deve essere Karst. Là troveremo ciò che è rimasto del Governo e del Regno di Darwath!»
Karst, quando raggiunsero finalmente la città, ricordò a Gil le vecchie stazioni termali di una volta, belle, con la loro silenziosa eleganza rustica propria delle case che si annidavano tra alberi secolari. Passando davanti ai palazzi racchiusi da quei sipari ombrosi, Gil fece caso a delle caratteristiche architettoniche che non aveva mai visto prima, ma che le erano stranamente familiari. Erano ammassi di pilastri stretti e lisci, la pianta delle strade cittadine era assai intricata, e qua e là si vedevano delle pietre traforate, modellate in elaborati disegni geometrici.
Però, non appena giunsero nel centro della città, la ragazza scorse pecore e mucche legate o chiuse in recinti sistemati intorno agli edifici, e i loro occhi lucenti brillavano di paura nell’oscurità.
Usciti dai boschi, videro che il sentiero che stavano percorrendo era cosparso di ciottoli, poi, procedendo, il muschioso manto stradale metteva in evidenza — verso il centro — un sottile ed argenteo filo d’acqua. Le mura li cinsero per un momento in un’ombra fredda e ostile, poi emersero in un bagliore di fuoco luminoso come il giorno.
La piazza era deserta. Vi erano stati accesi alcuni enormi falò, e le fiamme si alzavano violente per almeno trenta metri contro il soffitto del cielo. Il bagliore tingeva di rosso le scure acque della grande fontana della città con le sue cavità ripiene di licheni, ed una tetra, scura, statua.
Tra le ombre tremolanti che circondavano la piazza, Gil distinse le mura e le torri di molte ville dall’aspetto lussuoso, le guglie simili a fortezze di quella che lei suppose essere una chiesa, e la massa quadrata e massiccia che doveva essere sicuramente il Gran Bazar o il Palazzo del Governo, tre piani e mezzo di legno intarsiato che spiccavano nel buio come fossero stati dipinti di bianco. Fu proprio verso quell’edificio che si diresse Ingold.
La doppia porta dell’entrata era alta sei piedi ed ampia abbastanza da far entrare una carrozza con tutti i cavalli, mentre in un angolo si scorgeva una porticina secondaria dell’altezza di un uomo. Ingold la spinse, ma il battente non cedette: era chiuso dall’interno. Il suo corpo impediva ai suoi compagni di scorgere cosa stesse facendo ma, dopo qualche strano maneggio, e trascorso appena un istante, la porta si spalancò, ed entrarono tutti e tre nella luce e nel chiasso fragoroso che regnava all’interno.
L’intero pavimento dell’edificio, un’immensa sala circodata da pilastri e solitamente adibita a mercato, era gremita di gente. Il caos delle voci era assordante, ed al tempo stesso si percepiva un tanfo antico di grasso, orina, corpi sporchi, abiti nauseabondi e pesce fritto. Una fitta nebbia blu — del fumo di legna certamente — nascondeva il soffitto, ed intanto irritava gli occhi limitando la visibilità a pochi metri in qualsiasi direzione.
Il mercato probabilmente doveva già essere stato chiuso, ma la gente circolava ancora, chiacchierando e raccogliendo acqua dai barili semi-vuoti posti in un angolo del locale, mentre i bambini continuavano a rincorrersi senza meta tra l’infinita serie di pilastri ed una gran confusione di oggetti. Gli uomini se ne stavano radunati a gruppi e, da quei capannelli, si udivano provenire maledizioni, grida ed il rumore stridente di lame che venivano affilate. Le madri, invece, correvano qua e là cercando di rintracciare i propri figli, chiamandoli per nome in una babele indescrivibile, mentre i più anziani — nonne, nonni e zii — cercavano di mantenere una parvenza d’ordine in quella baraonda, stringendo a sé i miseri fardelli che racchiudevano le loro povere cose, ossia tutto quello che erano riusciti a portarsi dietro.
Alcuni avevano delle ceste dalle quali spuntavano le teste di anatre, polli ed oche; il biascicare rumoroso dei volatili e l’odore acre del loro guano si mescolavano al resto in un pervicace attacco ai sensi dei nuovi arrivati.
Gil scorse una ragazzina di circa dieci anni, seduta su un letto a castello, che cullava tra le braccine un gattone marrone. Più in là una donna, con un vistoso abito di seta gialla ed una elaborata capigliatura che adesso le scendeva sul volto in riccioli scompigliati, cullava una cesta di polli e continuava a biascicare qualche preghiera.
La luce dei fuochi riverberava tutt’intorno coprendo di sfumature dorate l’intera scena, e circondava i corpi in un alone fiammeggiante, trasformando ogni cosa in uno spettacolo degno dell’anticamera dell’Inferno.
Il fumo irritò gli occhi di Gil e li fece lacrimare, mentre la ragazza procedeva con cautela nella scia di Ingold attraverso le file di persone, schivando barattoli, padelle, secchi d’acqua, fagotti di vestiti, biancheria, piedi di uomini, bambini e donne, finché non furono giunti all’imponente scala che portava dal centro della sala fino al piano superiore.
Qualcuno riconobbe Ingold e lo chiamò con un grido di sorpresa. Ben presto quel nome fu ripetuto dappertutto, come una eco continua che risuonava dagli angoli più lontani di quella stanza colma di ombre. Era un suono di sgomento, di meraviglia, di paura.
Mentre Ingold avanzava, la gente si scostò per lasciarlo passare; qualcuno portò via un bambino addormentato, qualcun’altro raccolse un fardello di vestiti od una borsa di denaro, al suo passaggio. Davanti ai tre si aprì, quasi per magia, un sentiero contornato da forme scure e dal luccichio degli occhi che li osservavano. Il sentiero li condusse rapidamente verso un tavolo ai piedi della scalinata e verso il gruppo di persone riunite intorno ad esso.
La sala intanto, terminate le eco di sorpresa, era piombata nel silenzio, se si eccettuava il chiocciare del pollame ed il pianto isolato di qualche bambino svegliato all’improvviso.
Gli sguardi di tutti erano puntati sulla sagoma incappucciata dello Stregone e sulla sua tunica marrone ancora bruciacchiata, ma anche sui suoi compagni, i due stranieri con i loro abiti di cotone azzurro consumato, e sul fagotto di logoro velluto nero che la ragazza stringeva a sé: Gil non si era mai sentita così al centro dell’attenzione in vita sua!
«Ingold!» Un uomo gigantesco, in uniforme nera — Gil la riconobbe immediatamente come quelle che aveva già viste nei suoi sogni — uscì a grandi passi dal gruppo per incontrarli. Afferrò Ingold e lo strinse in un abbraccio da spaccargli le ossa. «Ti avevamo dato per morto!»
«Pensare così di me è poco saggio, Janus,» rispose lo Stregone tentando di riprendere fiato. «Specialmente quando…»
Lo sguardo dell’omaccione però si era già spostato su Rudy, Gil, e sul fagotto stretto tra le braccia della ragazza, che ancora recava, piuttosto sdrucito, un emblema d’oro. La sua espressione mutò allora dal sollievo e dal piacere trasformandosi in una sorta di meraviglia dolorosa e, allo stesso tempo, abbandonò lo Stregone, quasi lo avesse dimenticato.
«Lo hai salvato…», sussurrò. «Lo hai salvato, dopotutto!»
Ingold annuì. Janus spostò lo sguardo dal bambino all’imponente vecchio al suo fianco, quasi si attendesse che Ingold svanisse o mutasse forma dinanzi ai suoi occhi. Il mormorio della folla si gonfiò come un’onda, e s’infranse fin negli angoli più lontani della sala. Intorno al tavolo però rimase un’isola di silenzio.
In quell’istante Ingold parlò, perfettamente calmo.
«Questa è Gil e questo è Rudy. Sono stati così gentili da aiutarmi nel proteggere il Principe. Sono stranieri, provengono da un’altra Terra e non sanno nulla del Regno e delle sue costumanze, ma sono ugualmente leali e coraggiosi.»
Rudy chinò la testa, imbarazzato da quella presentazione. Gil, dal canto suo, aveva da sempre evitato di pensare a qualcosa di positivo nei propri confronti negli ultimi quindici anni, e quindi, colta di sorpresa, arrossì profondamente.
Ingold proseguì come nulla fosse.
«Gil, Rudy: Janus di Weg, Comandante delle Guardie della città di Gae…» Il suo gesto incluse anche i due personaggi ancora seduti intorno al tavolo. «Bektis, Mago di Corte della Casa di Dare; Govannin Narmelion, Vescovo di Gae!»
Visto che Ingold non forniva ulteriori chiarimenti, Gil guardò Bektis, e scorse un uomo allampanato, dai modi goffi, paludato in un mantello di velluto grigio con sopra incisi i segni dello Zodiaco. Il Vescovo invece la sorprese molto: il suo volto senza un’ombra di barba, dalla severa espressione simile a quella di un antico amanuense egizio, il severo vestito rosso che copriva un corpo dritto e snello… era senza dubbio una donna, ma altrettanto indubbia era la sua qualità di Vescovo. Quel severo viso ascetico esprimeva una profonda forza spirituale, e non avrebbe certo ceduto a nessuno l’onere di difendere il suo Dio.
Appena terminate le presentazioni — il Vescovo stese la mano con il grande anello di ametista per farlo baciare — Gil sentì alle sue spalle il basso mormorio della voce di Janus che si era subito rivolto a Ingold.
«… combattimento nella sala… I rifugiati di Alwir hanno messo il campo qui… Si, sono state mandate pattuglie nella città… anche per i viveri… Portate tutta là gente qui…»
«Il Signore Alwir ha assunto il comando allora?», chiese bruscamente Ingold.
Janus annuì.
«È il cancelliere del Regno e fratello della Regina.»
«E Eldor?»
Janus sospirò e scosse il capo.
«È stata una carneficina, Ingold. Abbiamo raggiunto Gae poco prima dell’alba. Le ceneri erano ancora calde ed il Palazzo stava bruciando. E così anche il resto: era tutto bruciato!»
«Lo so!», annuì stancamente Ingold.
«Mi dispiace. Avevo dimenticato che eri là. Il tetto della sala aveva ceduto, ed il locale era diventato peggio di una fornace: le ossa e i corpi erano sepolti sotto le macerie. Era troppo caldo per fare altre ricerche. Abbiamo trovato questo però, accanto alla porta della piccola stanza dietro il trono. Era nella mano di uno scheletro carbonizzato e semi nascosto sotto una trave caduta».
Janus indicò qualcosa su un tavolo.
Con la padronanza che nasce da una lunga abitudine nel maneggiare quelle cose, il Vescovo alzò la lunga e dritta spada dall’impugnatura a due mani per porgerla a Ingold dalla parte dell’elsa. Sebbene annerita dal fuoco, Gil poté distinguere lo scintillio e la forma dei rubini che vi erano incastonati. Una volta, in uno dei suoi sogni, lei aveva visto quelle gemme luccicare alla luce di una lampada e spandere intorno la loro lucentezza in armonia con il respiro dell’uomo che reggeva quella spada. Ingold sospirò e chinò il capo, affranto.
«Mi dispiace,» disse ancóra Janus. Il suo volto rude e squadrato era segnato dalla stanchezza e dalla rabbia, e la sua ispida barba era irta. Aveva perso un amico che stimava ed aveva anche perso nello stesso istante un Re!
A Gil tornò il ricordo di una stanza illuminata, e di un uomo alto, vestito di nero, che stava parlando.
«… quale tuo amico, ti chiedo…».
La ragazza provò una sensazione cocente di dolore per quella voce, per quel vecchio.
«E la Regina?»
Il tono della voce indicò che Ingold conosceva già la risposta.
«Oh…», Janus trasalì, intimorito, alzando la testa. «È stata fatta prigioniera…»
Ingold fece un balzo per la sorpresa.
«Prigioniera?» Le sue sopracciglia si corrugarono. «Allora avevo ragione…»
Janus annuì.
«Abbiamo cercato di afferrarla… Quelle creature però possono trasportare dei pesi, e quelle loro code taglienti sono simili a catene. Il Falcone di Ghiaccio ed una dozzina di ragazzi sono rimasti intrappolati nella sala principale. Sono rimasti a guardia delle Scale fino a che la volta non è caduta…»
«Certo, certo», lo interruppe Ingold con impazienza. «Pensavo che fossero rimasti uccisi durante il primo attacco, ma li avevo sottovalutati. Non è stato come pensavo», aggiunse con l’ombra di un ghigno dipinto sul volto. «A parte il Falcone di Ghiaccio… Continua!»
«Il fuoco, dalla Sala, si è diffuso in tutto il Palazzo. Tutti quelli che erano rimasti intrappolati hanno iniziato a bruciare qualsiasi cosa avevano a portata di mano per creare luce. I Guerrieri del Buio sono piombati giù dalle volte come un fiume nero trascinando con loro circa una cinquantina di prigionieri, e la maggior parte delle donne si lamentava neanche fossero bestie… Il Falcone di Ghiaccio e i ragazzi non pensarono di appiccare il fuoco alla volta, ed ingaggiarono una lotta infernale. Alla fine, metà dei prigionieri fu sollevata da terra, ed il Buio si diffuse sulle scale. Cinque donne e qualche serva morirono di spavento… almeno lo pensiamo…»
«E la Regina?»
Janus saltellò sui piedi quasi stesse calpestando dei carboni ardenti. I suoi occhi tremarono.
«Si è… spaventata…»
Lo Stregone lo fissò attentamente e controllò il suono della sua voce.
«Ha parlato?»
Bektis, il Mago di Corte, si intromise con un tono di voce ancora più basso.
«Ho temuto e temo ancora che i Guerrieri del Buio abbiano divorato la sua mente, come spesso accade alle loro vittime. Ha cominciato a delirare quasi fosse impazzita e, nonostante abbia impiegato tutta l’Arte in mio possesso, non sono stato capace di farla tornare in sé.»
«Ha parlato?», ripeté Ingold, guardando alternativamente Janus e Bektis come volesse scoprire qualcosa.
«Ha chiamato spesso suo fratello», rispose calmo Bektis. «Lui è arrivato con i suoi uomini e gran parte dell’esercito poche ore dopo l’alba.»
Ingold annuì e sembrò soddisfatto.
«E questi?», con un ampio gesto circolare che comprese tutta la silenziosa marea di persone accalcate nella sala fumosa, indicò la gente intorno.
Janus scosse il capo, preoccupato.
«Hanno continuato a venire sulla montagna per tutto il giorno,» disse. «Molti di loro si sono uniti a noi quando abbiamo abbandonato il Palazzo. Da allora hanno percorso il nostro stesso cammino. Tre quarti di questa gente è senza alcun mezzo di sostentamento né cibo… Non è soltanto per paura del Buio che hanno abbandonato Gae! Nonostante tutte le Guardie ed i reggimenti di Alwir, Gae è finita! In città, anche durante il giorno, regna la pazzia. Tutte le leggi sono state infrante. Noi entrammo appena dopo l’alba per fare un’ispezione del Palazzo e già c’era della gente che lo stava saccheggiando. Ogni fattoria, nel raggio di dieci miglia dalla città, è stata abbandonata: i raccolti marciscono nei campi, mentre i profughi sulle strade muoiono di fame… Karst è una città piccola, e loro lottano per ogni pezzo di pane, per un po’ d’acqua e per un posto al coperto, edificio per edificio… Noi qui possiamo essere al sicuro dal Buio, ma certo non lo siamo l’uno dall’altro!»
«E cosa ti fa credere di essere al sicuro dal Buio?», rispose Ingold con un tono di voce stranamente pacato.
Indignato, Janus fece per protestare, poi si zittì. Il Vescovo allora spostò i suoi occhi sullo Stregone, come un gatto che guatasse una preda, e chiese con voce subdola:
«E cosa sa il mio Signore Ingold del Buio che noi non conosciamo?»
«Soltanto quello che ognuno di noi sa!», replicò una nuova voce. Risuonò profonda, regale, quasi fosse quella di un possente strumento a fiato, e gli occhi di tutti si rivolsero verso colui che aveva parlato.
L’uomo stava in piedi, con la maestà di un sovrano, illuminato alle spalle dal bagliore delle torce. La sua ombra gli ondeggiò davanti come acqua mentre si faceva avanti; il mantello di velluto si alzò come un gran paio di ali nere sulle sue spalle. Il suo volto pallido era freddamente bello, e il suo stesso corpo, regolare e forte, sembrava scolpito dalla profondità della sua mente. I capelli ondulati che gli incorniciavano il viso, ricoprivano quasi per intero la pesante catena d’oro e zaffiri che gli brillava sulle spalle e sul petto come una collana di gelidi occhi blu. «C’è sempre un profitto o del prestigio legati a chi preannuncia un disastro, e noi lo sappiamo bene.»
«C’è profitto solamente per chi da retta a quegli annunci, mio Signore Alwir,» rispose dolcemente Ingold, e si voltò verso le ombre fumose della stanza dietro di loro e verso la folla sudicia e scomposta che aveva ripreso a parlottare in sordina mentre i bambini correvano intorno. «E, a volte, nemmeno gli avvertimenti sono sufficienti a salvare qualcosa.»
«Così come lo è stato per il mio Signore Eldor…»
Il Cancelliere Alwir si alzò per un attimo, e la sua mole e la sua eleganza dominarono la sagoma piccola e sciatta dello Stregone. Il suo viso, naturalmente passionale, in quel momento era sotto il controllo di una maschera fredda e senza emozioni, ma Gil si accorse che quell’atteggiamento nascondeva la sfiducia e la tensione che esisteva tra i due uomini… quasi un’ostilità, e di antica data…
Alwir sembrava annoiato, ed Ingold profondamente stanco.
«In verità», continuò il Cancelliere, «il suo avvertimento fu il primo. I ricordi della Casa di Dare erano forti nel suo ramo della Famiglia. Tuttavia, non è bastato a salvarlo. Noi tutti pensammo che avessi preso con te il Principe e fossi scappato dalla battaglia, quando non trovammo la tua spada tra le macerie della sala, anche se molti combattenti, specialmente verso la fine, raccolsero le armi cadute e continuarono ad usarle. Come sei riuscito ad assumere la forma del Buio e sfuggire così alla loro attenzione?»
«Ti sbagli,» rispose Ingold senza esitare. Ma un mormorio giunse da quelli che si trovavano più vicini al tavolo: infatti la conversazione tra lo Stregone e il Cancelliere, anche se condotta a bassa voce, era oggetto dell’attenzione di almeno duecento persone, oltre ai cinque che stavano loro vicino.
Gil, dimenticata da tutti e con il bambino che le dormiva tra le braccia, si appoggiò con la schiena ad una delle colonne di granito, e poté osservare le occhiate perplesse che molti indirizzavano a Ingold. C’era paura, timore, sfiducia in quegli sguardi: sembrava quasi che stessero osservando un alieno, uno straniero perfino nel suo stesso Paese. La ragazza comprese subito che il loro compagno doveva essere un Mago dissidente che non si era mai assoggettato alle leggi ed al volere del Re. La gente quindi riusciva a credere di lui — ed era evidente che lo faceva — che fosse talmente vicino alle Creature del Buio da riuscire a prenderne la forma.
«Comunque sia, sei riuscito a trovare una scappatoia… anche per il Principe: e di questo ti siamo grati… Rimarrai a Karst?»
«Perché hai lasciato Gae?»
Le sopracciglia curate di Alwir si sollevarono, incuriosite e divertite da quella domanda.
«Mio caro Ingold, quando sei stato là?»
«Quando ci sono stato non ti deve interessare», rispose Ingold calmo. «A Gae però c’era acqua, cibo, ed edifici sufficienti ad offrire un riparo a tutti. Almeno là questa gente poteva rimanere tranquilla e sicura da ruberie e sopraffazioni.»
«Certo Karst è più piccola», ammise Alwir, gettando intorno un’occhiata colma di biasimo verso la folla raggruppata nella sala piena di fumo. «Ma qui i miei uomini e le Guardie della città, sotto l’abile comando di Janus, possono controllare meglio la situazione: sicuramente meglio che in quel pazzesco labirinto semi bruciato che è poi quanto rimane della metropoli più bella dell’Ovest! Il Buio perseguita le valli del fiume», continuò, «come una malattia da palude. Evita però le grandi altezze… È anche possibile fare un patto con quelle creature… come può farlo una pecora delle montagne con un leone delle pianure: per evitare il leone, basta stare lontani dal suo territorio di caccia!»
«Per evitare il cacciatore», replicò Ingold con lo stesso tono rilassato, «il cervo sfugge le città degli uomini, ma gli uomini lo vanno a cercare nelle foreste. Il Buio non si avvicina mai alle località più alte perché là vi è meno profitto. Quando però le prede si spostano, farà di tutto per sorprenderle in campo aperto. E così potrà trovare un bel boccone pronto sulla strada, fino a Gettlesand, senza muro o fuochi, dato che questi fuggiaschi sono convinti di essere al sicuro!»
Gli zaffiri della collana del Cancelliere scintillarono alla luce delle torce non appena l’uomo si mosse, e i suoi occhi blu, del colore del fiordaliso, divennero duri come quelle pietre.
«Due giorni fa c’era un Re a Gae», disse. «Adesso… non c’è più nessuno. Ma questa situazione è soltanto temporanea, credimi Ingold Inglorion: una città non può andarsene e tornare all’improvviso come fai tu, e noi, ovviamente, non potevamo rimanere a Gae…»
«Perché no?», chiese Ingold in tono di accusa.
L’ira marcò la voce di Alwir.
«C’era il caos là! Noi…»
«Sarà stata una sciocchezza,» lo interruppe Ingold lentamente. «Il vero caos lo avrete quando i Guerrieri del Buio verranno qui.»
Nel silenzio che seguì quella affermazione dello Stregone, Gil poté percepire la presenza frusciante e silenziosa della gente che si era radunata intorno al loro gruppetto per ascoltare, accalcata intorno al tavolo ricoperto di pergamene che costituiva il quartier generale del Regno di Gae. Erano uomini, donne e bambini, seduti, o rannicchiati scomodamente sulle loro masserizie, condotti quasi senza accorgersene in quel vortice di volti e di corpi che si era venuto via via creando intorno all’alto, elegante Cancelliere, ed al trasandato pellegrino che sembrava possedere solamente la spada minacciosa che gli pendeva dal fianco. Nelle zone più lontane della sala si poteva udire — soprattutto sotto l’ombra dei grandi pilastri — un vociare smorzato: vicino alla ragazza, invece, non si sentiva volare una mosca. Quel duello sarebbe stato combattuto per forza di cose alla presenza di una moltitudine di testimoni.
Lo stesso Alwir sembrò rendersene conto, e la tensione che traspariva dal suo atteggiamento calò di colpo, mentre la sua voce si ammorbidiva conservando una sfumatura di ironia quando disse:
«Corri troppo signor Mago. Il Buio non è mai venuto a Karst: di tutte le città di questa parte del Regno, questa è l’unica senza traccia dei loro Nidi. Come ho già detto, questo stato di cose è temporaneo: ci vuole tempo per sistemarsi ed organizzarsi. Coloro che si sono rifugiati qui non hanno nulla da temere. Noi tutti faremo di Karst il nuovo cuore del Regno, lontano dal pericolo del Buio. È qui che raduneremo un esercito di alleati degli uomini. Abbiamo già chiesto all’Arcimago di Quo, Lohiro, il suo consiglio ed il suo aiuto, ed inoltre nostri messaggeri sono in viaggio verso Sud per trattare con l’Impero di Alketch.»
«Cosa avete fatto?»
Questa volta la voce di Ingold si alzò alta, ed il Mago apparve stupefatto ed innervosito quanto Gil non lo aveva mai visto.
«Mio caro Ingold», disse subito Alwir in tono diplomatico, «certamente non puoi aspettarti che ci si metta a sedere rimanendo con le mani in mano. Con l’aiuto dell’esercito dell’Impero di Alketch, possiamo portare la guerra fin dentro i Nidi del Buio. Con quell’aiuto, e con quello del Consiglio dei Maghi, possiamo attaccare il Buio nel suo stesso territorio, bruciarlo, e liberare una volta per tutte la Terra da quella immonda pestilenza!»
«Sciocchezze!»
Alwir infilò i pollici nella sua cintura ingioiellata, chiaramente soddisfatto di aver spiazzato lo Stregone.
«E tu cosa proporresti, signor Mago?», chiese dolcemente. «Ritornare a Gae per essere divorati dai Guerrieri del Buio?»
Ingold fece uno sforzo per trattenersi, e vi riuscì; ma Gil riuscì a vedere, dal suo posto sulle scale, quanto fosse stato scosso delle ultime parole del Cancelliere. Quando parlò, la sua voce fu calma, molto calma.
«Propongo di scendere a valle», disse. «Di andare a Renweth.»
«Renweth?» Alwir si girò di scatto, incerto se esplodere per la rabbia o se sbottare a ridere. «Renweth? Quel freddo buco infernale? È a dieci giorni di viaggio dalla fine del mondo, e sembra il punto d’inizio dell’Inferno. Lo potremmo certamente scavarci la tomba e seppellirci… Renweth! Stai scherzando?»
Il Vescovo, incuriosito, spostò il suo sguardo da rettile verso Ingold, ed intervenne di nuovo nel discorso.
«Il monastero di quella città è stato chiuso venti anni fa durante l’Inverno Cattivo. Dubito che ci sia ancora un villaggio.» La sua voce risuonò come un secco, sottile sussurro, come il vento che sibila attraverso le ossa scolorite di qualche sperduto deserto. «Certamente è troppo lontana dal centro del Regno per stabilirvi la Capitale…»
«Lontana?», gridò Alwir. «È come dire che l’Inferno ha un clima temperato. È un luogo maledetto, fuori mano, in mezzo alle montagne!»
«Non mi preoccupo del Regno», disse Ingold, e la sua voce ora era diventata dura, anche se i suoi occhi brillavano nella luce tenebrosa delle torce. «Non esiste più alcun Regno, ma soltanto persone in pericolo. Tu stai ingannando te stesso se pensi che il potere politico potrà proteggerti da tutto, quando il pensiero di ognuno è quello di salvarsi.»
Il Cancelliere non rispose, ma sulle sue guance si dipinse un violento rossore che gli rigò la pelle bianca.
Ingold continuò.
«La Valle di Renweth è il luogo dove sorge il Torrione di Dare. Dal Torrione, qualsiasi cosa decidessimo di fare, possiamo però tenere lontano il Buio.»
«Oh, suppongo che forse ci riusciremmo se il Torrione esistesse ancora,» ammise bruscamente il Cancelliere. «Potremmo mantenerli a distanza anche se vivessimo nelle foreste come i Doic, che si nascondono nelle caverne e si nutrono di cimici e lumache, senza neanche andare tanto lontano. Ma non possiamo stipare l’intera popolazione del Regno nel Torrione di Dare, neanche con tutta la tua famosa Magia.»
«Ci sono altri Torrioni» si intromise improvvisamente il Vescovo, e Alwir le lanciò un’occhiata rabbiosa. Ella però lo ignorò, strinse le sue lunghe dita, e disse pensierosa, con un filo di voce simile al suono della pergamena stropicciata:
«C’è un Torrione a Gettlesand che viene usato ancora come fortezza contro le incursioni dei Razziatori Bianchi; ce ne sono anche altri nel Nord…»
«Certo, sono gli stessi nei quali siamo andati a rintanarci negli ultimi tremila anni», rispose Alwir con il volto alterato dalla frustrazione. «La Chiesa non soffrirebbe certo molto della disintegrazione della nostra civiltà; la vostra organizzazione sopravviverebbe e raggiungerebbe lo scopo per il quale è stata creata: dominare! E tu, signor Mago, pensi che la tua razza non soffrirebbe… siete girovaghi e fratelli degli uccelli… Il viaggio fino a Renweth è lungo, forse troppo lungo…»
Alwir girò quindi la testa verso i volti attenti che costituivano la massa di facce confuse nella nebbia bluastra del fumo. Si erano avvicinati tutti ora: la ragazza con il gatto, il vecchio con le ceste di polli, e la donna grassa con il suo gruppo di bambini addormentati.
«Quanti di questi pensi che sopravviveranno ad una quindicina di notti all’aperto, viaggiando attraverso le valli del fiume dove passa la strada che conduce a Renweth? Qui siamo al sicuro. Più al sicuro di quanto potremmo esserlo su qualunque strada!»
Un mormorio di assenso e di timore serpeggiò tra la folla. Quella gente era già scappata una volta dalle proprie case confortevoli e dalla vita piacevole e comoda della città. Ora doveva sopportare la sregolatezza del giorno ed il terrore da incubo della notte… una spaventosa camminata sulle strade fangose con tutto ciò che potevano portar via affastellato sulle spalle… No, spaventati e confusi, non avevano alcuna voglia di andar via di nuovo; non c’era uno di essi che, sia pur con le promesse del Paradiso o con.il timore dell’Inferno, si sarebbe lasciato indurre a trascorrere un’altra notte all’aperto!
Alwir continuò, ma la sua voce si abbassò a tal punto da essere udita solamente da coloro che sedevano accanto al luccichio fumoso che circondava la base delle scale.
«Mio Signore Ingold,» disse con calma, «hai avuto molto potere con Re Eldor. Potere basato sulla fiducia che riponeva in te fin da quando eri bambino e ti trovavi sotto la sua tutela. Come hai usato quel potere, è affare tuo e suo: avevate i vostri segreti… Ma Eldor adesso è morto, e la Regina versa in delirio. Qualcuno deve comandare, altrimenti il Regno si sfalderà e cadrà nell’Oscurità come un cavallo che corre impazzito verso una scogliera. La tua magia non può far nulla al Buio… il tuo potere nel Regno è finito…»
Gli sguardi dei due uomini si incontrarono, e si bloccarono come le lame di spade tenute immobili dalla forza contrapposta di coloro che le maneggiano. La tensione tra i due si addensò fino a che non si udì altro che il rumore del loro respiro. Occhi blu fissi in altri occhi blu, incorniciati nell’oscurità dal brillare della luce saltellante delle torce.
Senza distogliere gli occhi da quelli del Cancelliere, Ingold disse:
«Il Re Eldor è morto, ma giuro qui, davanti a tutti, che il suo posto spetta al figlio. E sarà un posto sicuro, non certamente Karst!»
Alwir sorrise. Fu solamente una leggera piega delle labbra che non spostò di un millimetro il suo sguardo.
«Così dovrà essere, non è vero mio signor Mago? Ma il Re ora sono io, e il bambino è sotto la mia protezione, non sotto la tua!» Solo allora i suoi occhi si mossero, l’intero portamento del suo corpo mutò, e la sua voce si rischiarò come quella di un attore un attimo prima di «entrare» in un ruolo. Il suo sorriso divenne sincero ed il suo tono di voce assunse una sfumatura di biasimo benevolo. «Su, mio Signore» disse, con sempre quel sorriso stereotipato sulle labbra, «ci sono dei casi nei quali non è necessario rischiare la vita, e sono certo che voi mi capite. Ora…», ed alzò una mano per prevenire la reazione di Ingold, «sono sicuro che ce la caveremo con conseguenze meno drastiche e terribili della dissoluzione della nostra civiltà. Ammetto che qui siamo angustiati da non pochi problemi, ed ammetto anche che ci troveremo a dover far fronte all’arrivo di altri profughi da Gae e dalle campagne circostanti. Provvederemo però a mandare un convoglio di Guardie ai magazzini sotto la Prefettura del Palazzo di Gae non appena farà giorno. Per quanto riguarda invece il metterci in contatto con l’Arcimago Lohiro, temo che questo sia molto difficile: i tuoi colleghi sembrano essersi nascosti, ed è persino al di là dei poteri di Bektis il raggiungerli.»
«C’è un incantesimo che pesa sulla città di Quo», intervenne il Mago trattenendo il respiro e sbirciando la reazione di Ingold da dietro il suo lungo naso adunco. «Con tutti i miei incantesimi e la Magia del Fuoco e del Gioiello, non sono stato capace di oltrepassare quello schermo.»
«La cosa non mi sorprende affatto,» rispose Ingold dolcemente.
Lo sguardo scuro e freddo del Vescovo scivolò per un attimo su entrambi.
«Il Diavolo sa badare a se stesso…»
Ingold chinò il capo verso la donna con gentilezza.
«Come fa il vero Dio, mia Signora. Ma noi Maghi non apparteniamo a qualche universo in particolare, e così dobbiamo difenderci come possiamo. Quo, la roccaforte della Magia come tutti la considerano, è sempre stata immune dalla distruzione e dalle invasioni. Dubito che qualsiasi Mago, per quanto abile, possa oltrepassare in questo momento le difese della città.»
«Ma questo è ciò che proponi di fare?», chiese Alwir con una nota di maliziosa curiosità nella voce. Aveva pur vinto la sua battaglia, o almeno questa particolare scaramuccia, e poteva ora permettersi di lasciar cadere il suo atteggiamento severo e divertirsi, cosa che Gil sapeva essergli familiare e abituale.
«È ciò che propongo di tentare. Subito dopo che — come ho già detto — avrò messo al sicuro il Principe. Ma prima, mio Signore Alwir, ho bisogno di riposo per me ed i miei giovani amici. Essi hanno camminato a lungo lontani dalle loro case, e sicuramente non le vedranno prima di molti tramonti. Inoltre, con il tuo permesso, vorrei vedere la Regina.»
Un’improvvisa agitazione pervase la sala. Qualcuno aprì la porta dell’entrata secondaria e l’improvvisa ventata gelida che entrò, rigettò indietro il fumo facendo tossire il Vescovo con un suono secco e stridulo. L’oscurità, oltre la porta, appariva sfumata di un colore grigio pallido.
Quasi che l’apertura di quella piccola porta avesse lasciato entrare un invisibile turbine di vento, la folla cominciò a tremare, mentre l’aria stessa della sala cominciava ad agitarsi tra le colonne ed il grande soffitto a cupola. Alcuni si misero a dormire, sicuri in quell’ambiente protetto per la prima volta dopo tante notti; altri invece si alzarono, ed iniziarono a muoversi qua e là, mentre il suono delle loro voci era simile a quello cupo del mare quando cambia la marea.
Il filo d’aria che penetrava dalla porta fece oscillare la luce delle torce che si andò a riflettere sugli archi di pietra e sui volti stralunati di una parte della folla. Uomini e donne che fino a quel momento si erano tenuti distanti dal cerchio di luce rossa intorno al quale erano raccolti i potenti del Regno, si avvicinarono silenziosamente, e Gil poté sentire il loro mormorio tra i varchi delle colonne alle quali si era appoggiata con il roseo Principe addormentato tra le braccia.
«È la Piccola Maestà?»
«È Sua Piccola Signoria…»
«Non esiste un bambino più dolce…»
«Grazie a Dio che ha voluto risparmiarlo…»
«Dicono che il vecchio Ingold lo abbia protetto dal Buio, ma quello è un tipo strano, vero?»
«È un vecchio, scaltro bastardo, dico io…»
«È lo Specchio di Satana, come tutti gli altri Maghi…»
«Ha grandi poteri, ed ha salvato il Principe, che sarebbe di sicuro morto, sicuro come il ghiaccio del Nord…»
«È il Re ora… il solo figlio di Lord Eldor…»
Gentaglia, pensò Gil, e raddrizzò la schiena indolenzita dalle lunghe ore passate in piedi, e sulla quale gravava anche il peso del bambino che teneva addormentato tra le sue braccia.
La gente si avvicinava sempre più anche perché lei era una straniera: forse pensavano che fosse una creatura soprannaturale. Gil respirò quel tanfo di sudore stantìo che emanava dalla folla, e l’odore sgradevole si assommò a quello della sporcizia del viaggio.
Però, non appena si mosse, Tir si svegliò, afferrò un ciuffo di capelli e cominciò a piagnucolare. Rudy, che fino a quel momento era rimasto disteso a terra, addormentato su un gradino di granito davanti ai suoi piedi, aprì gli occhi e la guardò, poi si alzò con le giunture irrigidite ed allungò a fatica le braccia.
«Dammelo,» disse il ragazzo. «Lo terrò io per un po’. Questo bambino sta morendo di fame.»
Gil stava per ubbidirgli, quando Alwir si girò verso di loro e si aprì un varco attraverso la folla per avvicinarsi ai due ragazzi.
«Prenderò io il bambino», disse a Gil e Rudy, neanche fossero stati due servi, «e lo darò alla sua balia.»
«Fallo vedere prima alla Regina», esclamò Ingold apparendo silenziosamente al suo fianco. «Forse la vista del bambino potrà aiutarla più di qualunque medicina.»
Il Cancelliere annuì distrattamente.
«Forse hai ragione. Andiamo.»
Quindi si girò e salì le scale immerse nell’ombra, mentre il bambino si agitava e piangeva debolmente tra le sue braccia. Ingold fece per seguirlo, ma Janus lo afferrò per un lembo del mantello e lo tirò indietro.
«Ingold, posso chiederti un favore?»
La sua voce era tanto bassa da essere incomprensibile per tutti, tranne per chi gli stava più vicino. Govannin era già andata a parlare con un paio di monaci incappucciati, mentre Bektis stava salendo le scale nella scia di Alwir, le mani infilate nelle maniche orlate di pelliccia ed un’ombra di rassegnazione sul volto.
Normalmente, pensò Gil, il Comandante delle Guardie deve essere un uomo grande ed imponente, quasi come i recipienti di rame irlandesi…
La tensione e la preoccupazione però avevano piegato la sua prestanza, stendendo un velo di vecchiaia polverosa su quel viso squadrato.
«Partiremo per Gae tra mezz’ora. Il Falcone di Ghiaccio sta già radunando le truppe. Per adesso disponiamo di tutte le Guardie che riusciremo a trovare, alle quali devi aggiungere i soldati di Alwir. I boschi sono pieni di banditi e di profughi, tutta gente che per mangiare ammazzerebbe anche la madre… Ora è tardi per imporre ancora la legge, e a Gae sarà anche peggio: il Codice è stato infranto e, anche se Alwir sostiene di riuscire a tenere ancora unito il Regno, sono convinto che sappia quanto noi che ciò non è possibile.»
Ingold annuì, stringendo le mani per il freddo che proveniva dall’esterno. Insieme a quell’aria gelida giunse anche il mormorio delle voci, il rumore rimbombante delle ruote dei carri sui ciottoli della strada, ed il lontano cigolìo delle corazze di cuoio.
«So che è pazzesco chiedertelo,» continuò Janus, «dopo tutto quello che hai fatto: nonostante quello che dice Alwir, ti sei comportato eroicamente… Ma vuoi venire con noi a Gae? Il magazzino, come ben sai, si trova sottoterra, e tu puoi aiutarci a riportare indietro il cibo. Forse tu non puoi nuocere al Buio, ma puoi però chiamare la Luce e, inoltre, sei il migliore spadaccino dell’Ovest. Abbiamo bisogno di ogni lama… ho già chiesto a Bektis di venire con noi, ma non ha voluto…» Il Comandante sbuffò contrariato. «Dice che non vuole rischiare di lasciare il Regno senza un Mago che possa consigliare i suoi governanti!»
Ingold sogghignò, e nessuno riuscì a capire se si trattava di divertimento o di indignazione, poi tacque. Fuori si udivano le voci delle Guardie ed il frastuono della gente che si radunava nella piazza, mentre sempre nuovi profughi stavano entrando in città. Negli angoli più lontani del fumoso salone risuonava il sordo picchiettio delle pentole delle cucine da campo, la voce lamentosa di qualche uomo, ed il pianto dei bambini.
Lo Stregone sospirò a lungo, poi annuì stancamente.
«Va bene. Posso dormire in uno dei carri lungo la strada. Prima però devo vedere la Regina. Voi, intanto, radunate più armi e carri che potete.» Si girò quindi verso le scale, ed il bianco dei suoi capelli si unì al luccichio dorato della torcia. Gil lo seguì, incerta se chiamarlo per nome, e lui si fermò come se l’avesse sentita parlare. «Sarò di ritorno prima di notte», le disse con calma. «Di giorno sarete abbastanza al sicuro voi due, ma non andate in giro da soli. Come ha detto Janus, la città non è sicura… Prima del tramonto sarò tornato, e vi aiuterò a ripercorrere il cammino attraverso il Vuoto.»
«Non è un po’ presto?», chiese Rudy in tono dubbioso. «Voglio dire, che eri tu a sostenere che due passaggi nel Vuoto potevano essere dannosi, e mi sembra che siano trascorse soltanto», conteggiò con le dita, «quindici o sedici ore.»
«Conosco i rischi», rispose Ingold. «Però siete entrambi giovani e forti, e il Passaggio non dovrebbe arrecarvi dei danni permanenti. Considerate d’altronde le alternative: di giorno, a Karst siete relativamente al sicuro, e sembra quasi che Alwir abbia ragione, dato che il Buio non si è ancora avvicinato a queste colline. Però non posso assicurarvi nulla per la notte. I nostri mondi sono abbastanza vicini: il Buio mi ha già seguito una volta attraverso il Vuoto e, per quelle creature, ora sarebbe molto facile ripetere lo stesso viaggio. Dissi una volta che ero il solo a comprendere la natura del Vuoto, e come tale ho anche una certa responsabilità: non posso permettere che quegli esseri immondi arrivino a contaminare altri mondi, certamente non uno tanto popolato e indifeso come il vostro! Un’altra notte, potrebbe intrappolarci qui,» terminò bruscamente, «perché, se i Guerrieri del Buio saranno nei pressi, io non vi potrò rimandare indietro!»
«Allora tu non credi a ciò che ha detto Alwir!», esclamò Rudy, incrociando le braccia e cominciando a passeggiare vicino ad una delle grandi colonne di sostegno.
«No. È solamente una questione di tempo, poi i Guerrieri del Buio giungeranno fino a Karst, ed io voglio che voi non siate qui quando accadrà, perché accadrà di sicuro!»
«D’accordo, se va bene per te! Quando tornerai in città, sarò qui ad aspettarti su queste scale.»
Ingold sorrise.
«Sei diventato saggio Rudy,» disse. «Soltanto voi due avete la possibilità di lasciare questo mondo. E, considerato quello che accadrà su questa terra, siete veramente da invidiare.»
Poi il vecchio Stregone si allontanò senza dire altro, salendo le lunghe scale con abilità, quasi non fosse stato sveglio per due notti, quindi scomparve tra le ombre in alto, là dove la scalinata sembrava toccare il soffitto.