CAPITOLO QUINTO

La prima sensazione che provò Gil, non appena si alzò dal posto oscuro della porta di servizio dove aveva passato la notte, per entrare nella soffice luce del giorno e nel freddo mattutino che gelava le ossa, fu di sollievo. Non riusciva a ricordare, per quanto si sforzasse, di aver provato tanto piacere nel vedere la semplice luce del giorno: durante la notte non aveva fatto altro che sperare di vedere ancora l’alba.

La seconda sensazione fu di sgomento. Appena uscì sul gradino, fu accolta dal rumore e dal fetore della sala, che la colpirono come un muro di mattoni. La gente intorno stava discutendo, litigando, urlando a squarciagola, cercando di mangiare, disputandosi il possesso di animali scarni e impauriti, ed intanto si raggruppava, agitando le mani e le braccia, verso le uscite degli edifici già gremiti fino al tetto, dove altri profughi chiedevano di entrare.

Altra gente stava attingendo acqua alla fontana semiasciutta della città, litigando anche qui sulla quantità di acqua con voci che la paura ed il panico rendevano stridule e piene di rabbia. La luce che saliva mostrò a Gil un mare di visi atterriti, pallidi, tesi; occhi spaventati che si guardavano intorno con movimenti simili a quelli dei topi in trappola.

Tutti stavano cercando, fisicamente e mentalmente, di trovare un appiglio al quale afferrarsi in quel mondo gelido. Il vento freddo delle montagne intanto portava con sé il suo soffio raggelante spazzando via con folate violente il tanfo persistente dell’immondizia buttata qua e là.

Gesù, pensò Gil spaventata, qui c’è pericolo di colera, di peste… quante di queste persone possono disporre di servizi igienici? Quanti sanno in quale pericolo potrebbero gettarli le malattie?

La sua terza sensazione, non appena si trovò in cima alle scale, esposta al morso del freddo, fu quella della fame. Ci pensò un poco: il Comandante delle Guardie sembrava essere alleato di Ingold e, probabilmente, lo Stregone poteva avergli detto di badare ai suoi amici.

Scese le scale. Nel farlo dovette scansare un vecchio avvolto in un sudicio straccio nero, che sembrava aver piantato il campo sul gradino più basso con tutte le intenzioni di rimanerci. Si diresse subito verso un gruppo di uomini e donne, in uniformi nere da Guardie, che si stavano preparando a guidare i carri che avrebbero composto il convoglio per Gae. Li comandava un giovane alto, con lunghe trecce che gli arrivavano fino alla cintola, che in quel momento era impegnato in una accesa discussione con un gruppo di civili. Il capo di questi ultimi stava scuotendo enfaticamente la testa mentre la Guardia gesticolava verso la folla nella piazza.

Non appena Gil gli si avvicinò, l’uomo licenziò con un gesto disgustato coloro che lo attorniavano e si voltò verso di lei fissandola da sotto le sopracciglia biancastre con occhi luminosi e freddi come il ghiaccio polare.

«Sai guidare?», chiese.

«Un cavallo?», rispose Gil, spaventata, mentre pensava ad un’automobile.

«Non sto certo parlando di oche. Se non sai guidare, verrai a piedi o cavalcherai qualche maledetta cosa… non mi interessa!»

«So cavalcare,» rispose prontamente Gil che aveva di colpo compreso cosa le avesse chiesto quell’uomo dai lunghi capelli chiari. «E non ho paura del Buio.»

«Sei pazza allora.» Il Capitano la fissò e le sue sopracciglia si aggrottarono quando si rese conto dei suoi strani abiti. Non disse nulla, però si girò e chiamò una donna dai capelli brizzolati in una logora uniforme scura.

«Seya! Pensa tu a questo carro.» Quindi si rivolse di nuovo verso Gil. «Ci penserà lei a te.» Poi, quasi ricordandosene all’improvviso, mentre Gil si allontanava con Seya, chiese: «Sai combattere?»

Gil si fermò.

«Non ho mai maneggiato una spada.»

«Allora, se saremo attaccati, stai lontana da chi sa maneggiarla, per l’amor di Dio.»

Poi il Capitano si girò seccamente, e diede ordini con voce tagliente ad un altro gruppo di Guardie.

Seya si avvicinò a Gil: il suo viso esprimeva un divertimento represso che traspariva tra le rughe che lo segnavano, ed intanto tormentava l’elsa di una spada la cui punta urtava di continuo contro i suoi stivali.

«Non farti irritare da lui», disse la Guardia, fissando la figura del Capitano che si allontanava. «Se fossimo stati pochi, avrebbe messo lo stesso Re a guidare un carro, magari dicendogli «Con il vostro permesso». Guarda là!»

Gil seguì il gesto della mano della donna, e scorse Janus ed Ingold in mezzo alla folla ai piedi delle scale, circondati da conducenti che litigavano, Guardie che gesticolavano, e carri traballanti. Il Capitano stava parlando con loro e Janus appariva quasi spaventato dalle sue parole, mentre Ingold sembrava godersela un mondo. Lo Stregone salì sul carro più vicino, si sedette al posto di guida, ed afferrò abilmente le redini neanche avesse fatto il cocchiere per tutta la vita.

Il sole illuminò le vette ad est non appena lasciarono le ultime case di Karst alle loro spalle: la scena si schiarì, ma il sole era ancora troppo debole per far fuggire la nebbia biancastra che si annidava fitta nell’intrico del bosco. Gil si era seduta su una stretta sella, scomoda come nessun’altra, di un grosso roano, e guidava uno dei primi carri del convoglio.

La maggior parte dei veicoli presenti in città erano stati requisiti, e molti di questi non avevano qualcuno che li conducesse, o perlomeno che si sentisse disposto a far ritorno a Gae, la città infestata dalle Creature del Buio. Molti erano guidati da Guardie e, ai loro lati, due sottili file di Guardie li accompagnavano. Gil scorse soprattutto dei giovani, anche se molti erano precocemente incanutiti. Camminavano senza fermarsi, e la ragazza poté scorgere su molti di quei visi i chiari segni della tensione e dell’esaurimento: erano loro i combattenti che avevano partecipato allo scontro per la difesa di Gae.

Quando la luce del giorno si fece più intensa, Gil riuscì a distinguere dei piccoli campi di profughi che avevano cercato un disordinato rifugio dietro il nascondiglio dei folti alberi del bosco. Altri profughi se ne stavano invece sulla strada: erano uomini e donne coperti di abiti sporchi e cenciosi che si trascinavano dietro fagotti informi di coperte e stoviglie spingendo a volte improvvisate carriole o trascinando delle rozze slitte fatte di rami.

Di quando in quando si incontrava anche qualcuno che guidava un mulo o trascinava qualche vacca restìa con una fune.

La maggior parte di quella gente non si fermava, e prestava poca attenzione alla lunga fila di carri ed alla sua scorta improvvisata. Erano troppo affaticati per il cammino percorso e per la paura che li spingeva a non avere altro pensiero che quello di trovare un rifugio più avanti.

Finalmente la salita terminò, ed iniziò la discesa che finiva in una lunga curva. Al di là del sottile schermo di alberi dalle foglie secche, Gil sentì il vento mutare e diventare più fresco. Alzò gli occhi per guardare il sentiero che scendeva da un lato della strada e conduceva sino ai primi contrafforti di Gae che già si scorgevano.

Quella vista le provocò una fitta là cuore. La città lontana, circondata dalle sue fila concentriche di mura, ed avvolta dalla curva del braccio del fiume, dominava ancora la pianura, coperta dai colori bronzei dell’autunno e dalle bianche ferite delle strade che conducevano a Gae.

Era come se Gil avesse sempre vissuto là, camminato in quelle strade tortuose, e conosciuto sin dall’infanzia quell’orizzonte di torrette ed alberi altissimi. Contro il cielo del mattino si stagliavano sei guglie di pietra, archi rampanti privi delle mura che avevano retto, tese come le dita senza carne della mano di uno scheletro allungata verso il cielo chiaro del primo mattino.

«Gli alberi sono spogli adesso…», la voce sottile ed ansante di un uomo accanto a lei la fece trasalire. «Ma d’estate era tutto un giardino…»

Gil abbassò lo sguardo. Accanto al suo ginocchio, e camminando alla stessa andatura del carro, c’era il Capitano dai capelli bianchi i cui occhi splendevano riflettendo la luce del cielo.

Rispose senza quasi pensare.

«Lo so.»

Quegli occhi luminosi si volsero verso di lei.

«Tu sei la compagna di viaggio di Ingold.»

Gil annuì.

«Si, però conosco Gae: ci sono stata.»

Non ci furono altre domande, e Gil prese ad osservare il suo accompagnatore. Era magro e asciutto; tra le ombre spezzettate degli alberi, la ragazza si accorse che era molto più giovane di quanto avesse pensato: sulla ventina forse, e forse anche più giovane di lei. Erano l’ostinazione e la determinazione che l’animavano ad invecchiarlo. Quelle e la rete di sottili rughe che circondavano i suoi occhi pallidi…

Dopo qualche istante l’uomo riprese a parlare.

«Le Guardie mi conoscono come il Falcone di Ghiaccio.»

«Il mio nome è Gil», rispose la ragazza mentre abbassava la testa per evitare i rami sporgenti di un’enorme quercia.

Gae si nascose ancora alla loro vista celandosi dietro i boschi colmi di una pesante nebbia argentea, in un paesaggio nel quale dominavano l’opale ed il rosso ruggine. Il rumore delle ruote dei carri si mescolava allo scricchiolio delle foghe morte sotto i piedi della truppa.

«Nella antica lingua del Wath, Gil significa ghiaccio,» osservò quasi distrattamente il Capitano. «Gil-shalos: un’asta di ghiaccio, un ghiacciolo. Una volta avevo dato quel nome a uno dei miei falchi da caccia.»

Gil lo osservò con curiosità.

«Allora il tuo nome sarebbe Gil… qualcos’altro.»

L’uomo scosse la testa.

«Nella lingua del mio popolo noi chiamiamo il Falcone del Ghiaccio, Nyagchilios, Pellegrino del Cielo. Perché sei venuta con noi?»

«Perché mi è stato ordinato», rispose Gil senza scomporsi.

Il Falcone di Ghiaccio inarcò le sopracciglia, ma non chiese altro.

Gil non avrebbe saputo rispondere altro se l’uomo avesse continuato con le domande. Sapeva soltanto che si era sentita trascinare verso quei guerrieri calmi e consci della loro forza: le era stato ordinato di unirsi a loro, e non avrebbe potuto certo rimanere indifferente a quell’ordine.

La carovana abbandonò i boschi ed iniziò a scendere sino ai piedi delle colline; attraversarono la pianura ricoperta di erba rossiccia quasi stessero attraversando un lago coperto d’oro fuso, mentre il sole splendeva piccolo e lontano in quello stinto cielo mattutino. Passarono ancora accanto ad altri gruppi di profughi, uomini e donne infelici che trasportavano i resti dei loro averi sulle spalle; la cosa più triste era che tra quei gruppetti c’erano anche dei bambini, con il più grande che conduceva i più piccoli cercando di infondere in loro un coraggio che non provava.

I lati della strada erano disseminati di carogne di animali, libri, coperte; in un angolo Gil scorse anche una grande gabbia per uccelli, con la grata fine come pizzo, e sulla cui porticina aperta spiccava un fringuello rosa ornamentale che cinguettava. Quell’immagine, tra il sibilare dei venti e tutto quello che era successo, le sembrò veramente spaventosa.

Il Falcone di Ghiaccio indicò Trad’s Hill, un promontorio tondo che si ergeva nel mezzo della pianura dorata, e che era sormontato da una croce incrostata di lichene, ma gli occhi di Gil corsero ai resti delle mura di Gae.

Vide torri coronate da guglie frantumate da qualche forza misteriosa, archi, bastioni merlati ancora belli con i lunghi pergolati di rami spogli che li avvolgevano e, per finire, i grandi archi a costoloni spezzati che erano tutto ciò che rimaneva del Palazzo.

Gil sapeva dentro di sé che, in qualche parte della città, c’era una piazza dominata da scale che erano fronteggiate da statue di malachite e dove giacevano, tra le macerie, enormi porte di bronzo spezzate. Da qualche altra parte vi era una volta con una scala di porfido, uno strano lastrone di granito inserito nel basalto liscio del pavimento, ed un arco buio in una strada vuota e in rovina.

Il vento freddo sferzò le mani screpolate della ragazza, strette sul cuoio vecchio delle redini; l’andatura lenta del cavallo stretto fra le sue ginocchia e lo stridìo delle ruote del carro, la riportarono alla realtà da quell’incerto mondo di sogni. Con essi giunse anche la voce profonda e sonora, che si propagava lungo la gente in marcia come un soffio di vento, del Comandante delle Guardie.

Gae puzzava di morte. Gil non vi era affatto preparata, e quel sentore la prese alla gola come la mano di uno strangolatore. La sua vita di ogni giorno l’aveva abituata a stazioni di pullman, concerti rock e week-end nel deserto, che in qualche modo l’avevano aiutata a resistere al tanfo di Karst. Ma il fetore che gravava come una nuvola scura sull’intera città in rovina, era il miasma della putrefazione, una dissoluzione mortale che nel mondo di Gil era abitudine sotterrare od incenerire.

Le strade erano vuote sotto la luce del sole, e l’eco degli zoccoli dei cavalli, e dei piedi sul selciato insieme allo scricchiolio delle ruote dei carri, si infrangeva inesorabilmente contro le nude pareti delle abitazioni. Casa dopo casa, si manifestavano i segni dell’incendio, fin nei piani superiori: travi carbonizzate sporgevano come le costole disseccate di carcasse mummificate; porte e finestre barricate erano ancora nascoste da una terrificante fuliggine che le copriva fino alla parete al di sopra di esse. Gil vide che alcune mura erano state demolite, ma in altri luoghi rimanevano solamente dei piccoli pezzi di macerie sparsi sulla strada mischiati ad ossa frantumate e rosicchiate dai topi.

Le ombre ingannevoli sembravano rivelare come si fossero sparse nella città finalmente libera dagli uomini, per potersi rimpinzare del bottino di quella guerra a loro estranea, anche se qualche nemico rimaneva: dall’alto delle mura frantumate facevano capolino scheletrici gatti selvatici che guardavano passare la carovana con occhi gialli di pazzia.

Gil strinse forte le redini della sua cavalcatura cercando di rimanere in sella…

«Tre giorni fa stava quasi per finire,» mormorò a voce bassa un uomo accanto a lei facendola nuovamente sussultare. «E ora è finita.»

Era Ingold, che aveva portato avanti il suo carro e le si era rivolto ammiccando nei rapidi cambiamenti di luce tra una rovina e l’altra.

Qualcosa di osceno si mosse, troppo rapido per essere scorto, dietro il muro di un giardino. Gil tremò sentendosi sporca e confusa.

«Stai parlando della città?»

«In un certo senso.»

Un ramo scricchiolò sotto le ruote, ed il Falcone di Ghiaccio, che stava percorrendo in senso inverso la colonna, si girò di scatto a quel suono.

Gil si accorse che non era la sola a subire l’effetto malsano di quell’atmosfera raccapricciante che riempiva le strade vuote.

Cosa può significare per questi uomini, si chiese, ritornare ora, dopo aver conosciuto questa città ed essere cresciuti con essa. Così come era…

I suoi occhi passarono lentamente sulle file spezzate di un grazioso colonnato situato ai margini della strada, e ne colse il significato nascosto tra segni cabalistici e decorazioni floreali, oltre alla gaiezza e all’equilibrio dei suoi fregi intrecciati. La ragazza ricordò la mobilia della stanza di Tir: pezzi da museo intarsiati d’avorio ed ebano… Tutto ciò che di fastoso e di bello, ogni cosa buona che quella civiltà aveva creato, potevano ora essere trovati nelle strade di Gae.

Fece girare la testa del cavallo per evitare le macerie annerite di un arco nel quale giaceva il cadavere di una donna abbandonato nell’ombra: su un braccio della morta, rosicchiato e con gli evidenti segni della putrefazione, un braccialetto di diamanti luccicava al sole, circondato da un nugolo di mosche ronzanti.

Anche per chi era sopravvissuto non c’era più ritorno. Gil si chiese se la gente radunata a Karst lo avesse compreso… Certamente Ingold ne era conscio. Lo notò dall’espressione dura della sua bocca e dalla ruga di dolore che era comparsa tra le sue sopracciglia.

Anche Janus stava provando lo stesso dolore: il Comandante delle Guardie sembrava pallido e malato ma, oltre a questo, c’era su quel volto di argilla qualcosa che sarebbe stato bene su una maglietta da spiaggia o su una lattina di birra: l’ombra di un profondo rimpianto, calmo e dolente. La sua espressione era quella di un uomo che stava guardando una tragedia, e ne comprendeva l’essenza intima.

Il Falcone di Ghiaccio invece si comportava in maniera diversa: quel giovane enigmatico si faceva strada tra le rovine di quella splendida civiltà con l’atteggiamento di un animale, incurante di niente altro che non fosse la sua sicurezza personale e la realizzazione del compito che gli era stato assegnato.

Il cavallo di Gil scartò bruscamente, ed emise un selvaggio nitrito di paura alzando la testa con gli occhi bianchi e rotondi spalancati. Sotto i suoi zoccoli due cose striscianti e deformi erano uscite allo scoperto da un passaggio diroccato, ed ora se ne stavano ad azzuffarsi nel mezzo della strada. Gil ebbe per un attimo una visione orrenda di piatte facce semiumane nascoste da una lercia zazzera di capelli fulvi, di corpi ingobbiti e striscianti, e di braccia simili a quelle di antropoidi deformi.

La ragazza fissò le due creature timorosa e ansante, fino a che la voce di Ingold non giunse a tranquillizzarla.

«No, lasciali perdere…»

Girandosi, Gil vide che il Falcone di Ghiaccio aveva impugnato arco e frecce dopo averle prese da uno dei carri, e si stava preparando a scagliarle contro le due creature.

Al comando di Ingold l’uomo si fermò, ed uno dei suoi sopraccigli si sollevò interrogativamente. In quei pochi istanti, le due creature scomparvero dalla strada.

Il Falcone di Ghiaccio scrollò le spalle e ripose le sue armi.

«In fondo sono soltanto doic,» affermò, come si trattasse di un fatto evidente.

Il viso di Ingold rimase senza alcuna espressione.

«Certo, anche loro…»

«Li avremo tutti intorno ai carri non appena avremo preso i viveri,» replicò senza scomporsi l’altro, neanche stesse parlando di topi.

Lo Stregone tornò ai propri affari e diede un colpo di redini alla sua coppia di cavalli.

«Potremmo aver a che fare con loro in quel momento.»

Il convoglio continuò a muoversi spingendosi attraverso le cupe ombre delle strette strade. Dopo un po’, il Falcone di Ghiaccio scosse di nuovo le spalle e scivolò verso il retro della carovana come un gatto, sistemandosi al suo posto tra le Guardie.

«Cosa sono?», chiese Gil, rivolgendosi alla Guardia più vicina, un giovane coi capelli chiari e la faccia luminosa ed ispirata di un Apprendista Galhad. «Sono… persone?»

Il ragazzo la guardò facendosi ombra contro la luce del sole che scendeva attraverso le crepe degli edifici.

«No, sono soltanto doic», ripeté, usando la stessa espressione del Falcone di Ghiaccio. «Voi non avete doic nel vostro mondo?»

Gil scosse la testa.

«Sembrano esseri umani,» continuò la Guardia, «ma in realtà sono bestie. Corrono liberi e selvaggi nei grandi spazi del Deserto dell’Ovest… le pianure al di là delle montagne ne sono piene.»

«La vostra gente li chiamerebbe Neanderthal,» aggiunse la voce calma di Ingold al suo fianco. «Se vengono catturati, sono messi al lavoro a tagliare canne nel sud, oppure nelle miniere di argento di Gettlesand, ma molti li usano anche per i lavori domestici. Si dice che siano ottimi schiavi ma, quando i loro proprietari scappano via, perdono ogni valore.»

La ripugnanza nella voce della giovane Guardia non era scomparsa.

«Non potremmo mai permetterci di nutrirli,» protestò. «I viveri sono già pochi a Karst,» aggiunse poi a beneficio di Gil. «E non mi sono mai piaciuti.»

I magazzini del grano si trovavano nelle sale della Prefettura della città, una struttura bassa e solida che formava un lato della grande piazza del Palazzo. Appena il convoglio vi giunse dinanzi, Gil si accorse che, sebbene invaso dal fuoco, il luogo non portava tracce di saccheggio. Non c’erano infatti orme fangose, sacchi di grano lacerati o granturco sparso, fino alle scale del passaggio incavato.

La piazza era abbastanza in ordine e la ragazza poté riconoscerla, anche se l’aveva vista l’ultima volta dalla finestra di una torre ormai ridotta ad un tizzone annerito: una vasta distesa di marmo scolpito, enormi cancelli di ferro con elaborati disegni, e alberi i cui rami spogli e grigi erano stati bruciacchiati dall’inferno scatenatosi durante l’ultima battaglia. Sulla sinistra si stendeva l’ombra monumentale del Palazzo, piani su piani di rovine che mostravano il loro addome sventrato: la Sala del Trono, che ora si mostrava aperta alla luce del giorno, era mezza seppellita sotto pietrisco e cenere.

Questo allora era il Palazzo di Gae, pensò Gil, osservando senza alcuna emozione quelle rovine, questa volta sveglia alla luce impietosa del sole, mentre stava seduta su un cavallo da tiro affaticato e grasso, con le mani coperte di vesciche dovute alle lunghe ore passate a stringere le redini e con gli occhi che le dolevano per la stanchezza accumulata. Questo era il luogo che le era capitato di vedere, lo stesso luogo dov’era morto Eldor, il paese che aveva conosciuto nei suoi sogni… Qui il genere umano aveva combattuto e purtroppo perso la sua ultima battaglia contro il Buio…

Le macerie annerite portavano chiari i segni di un saccheggio avvenuto ancora prima che le ceneri si raffreddassero.

Voci infuriate risuonarono contro le pareti di pietra della piazza con una debole eco derisoria. Riprendendosi dalla sua silenziosa contemplazione, Gil scorse un gruppetto di conducenti di carri e Guardie che si era radunato davanti alle scale ampie e basse che portavano alle porte sconquassate della Prefettura, circondando il Comandante Janus ed un grosso tipo muscoloso vestito di una tunica grezza che Gil ricordava vagamente come quello che guidava il primo carro della colonna.

«Questi uomini non scenderanno a prendere il grano», stava dicendo l’uomo. «Se le sale sono state svuotate come dici, significa che bisognerà addentrarsi nei sotterranei, il che vuol dire morte, morte certa come il ghiaccio del Nord per chi lo facesse!»

Qualcun altro assentì vivacemente nella confusione generale.

«Le sale sono infestate, infestate dal Buio. Io mi sono offerto per guidare un carro, non per affrontare quelle creature!»

Una guardia gridò:

«Bene, allora chi di voi ha pensato di scendere a prendere quel cibo?»

Janus, il volto imporporato dalla rabbia, parlò, cercando di mantenersi calmo e fissando ognuno di quegli uomini con i chiari occhi castani.

«Ogni uomo conosce il proprio coraggio. I conducenti che se la sentono, possono aiutarci a portar fuori i viveri. Degli altri non so che farmene. Falcone di Ghiaccio: ti affido il comando di quelli che rimangono quassù. Prendi dodici Guardie e ammazza chiunque o qualunque cosa si avvicini ai viveri una volta che siano stati portati qui. Falli caricare subito e siate pronti a muovervi al più presto.»

Dal retro del carro che stava guidando, Ingold prese un pacco di torce a pece fredda, poi scese portando con sé un bastone da passeggio alto sei piedi, sul quale si appoggiò stancamente.

Il Comandante afferrò una torcia dal pacco e continuò.

«Gae non è affatto vuota. È morta, ma ogni cadavere ha le sue larve. C’è tanto pericolo nella strada quanto nei sotterranei…»

Quindi si girò e camminò stringendo la torcia, verso le scale. Senza guardarlo, Ingold fece un gesto leggero con le dita: la torcia spenta nella mano del Comandante si accese con un whoof soffocato! Le altre Guardie e più della meta dei conducenti si riunirono per ricevere le proprie torce e accenderle dalla sua.

Gil stava già per raccogliere una torcia, quando Ingold le si avvicinò e le pose una mano sulla spalla.

«Questo non ti riguarda Gil: non è affar tuo!»

La ragazza lo guardò, poi si rialzò fissandolo dritto negli occhi.

«Per badare a me non dimenticare gli altri», rispose. «Rimarrò sempre insieme alle Guardie.»

Ingold guardò oltre le sue spalle verso un gruppetto che si stava già avviando verso le sale, e la lunga fila di carri vuoti che avrebbero dovuto essere riempiti prima del pomeriggio.

«Ti ho portata qui contro la tua volontà», disse in tono calmo. «Ora sei sotto la mia responsabilità. Non posso chiederti di metterti in una situazione così pericolosa, e per giunta in un altro universo. Ritornerai nel tuo questo notte! Questo non è un sogno dal quale si può fuggire svegliandosi: rimanere qui e morirvi è una cosa definitiva!»

Il vento freddo del Nord oltrepassava la giacca sottile come un coltello, ed il sole appena tiepido si rifletteva nei suoi occhi, senza avere abbastanza forza da riscaldarla. Dalle scale una voce di donna — forse quella della stessa Seya — chiamò.

«Gil-Shalos! Vieni o rimani?»

Gil rispose senza neanche pensare.

«Vengo!» Ingold l’afferrò per un braccio non appena si mosse, ma la ragazza si voltò verso di lui. «Non ti sarò di alcun impaccio. Te lo prometto!»

Ingold sorrise, ed i lineamenti stanchi del suo viso si illuminarono di un breve lampo di giovinezza.

«Sei la solita pazza, eh! Come vuoi. Però, se ci tieni alla vita, stai vicina agli altri.»

Si avviarono insieme per unirsi alle Guardie.

Il gruppo di uomini e donne si muoveva velocemente nell’oscurità delle volte, silenziosamente e con le spade sguainate, ma la loro efficienza era indebolita dal bisogno di rimanere uniti. Seguendo l’ondulata catena di luci giallastre, Gil si trovò quasi ad aver paura di respirare, ogni nervo teso dal minimo movimento che si verificava nell’oscurità.

Nelle volte più profonde dove erano conservati i viveri, l’infinita oscurità era tutta un bisbiglio di passi leggeri, un mare di occhi rossi, minuscoli e fissi, e di corpi grigi che si affollavano silenziosamente lontano dalla luce delle torce. Gli uomini intanto portavano un mucchio di roba verso la luce: sacchi di grano, carni affumicate, grosse forme di formaggio ricoperto di cera, e camminavano veloci sotto quei carichi, con Ingold che volteggiava accanto ad ognuno di loro come un fuoco fatuo, la spada in mano e la punta del bastone alzata a gettare una chiara luce bianca che dissipava la folla di ombre.

Era un lavoro duro, e la compagnia impiegò l’intera settimana. A Gil dolevano le braccia e le facevano male anche le mani scottate, mentre i suoi nervi erano così tesi che le sembravano simili ad una corda d’arco che si scarica, ogni volta che riusciva a posare in terra un sacco di grano o di frutta secca od una pesante forma di formaggio in cima alle scale, per ricaricarsi poi quando tornava di nuovo ad immergersi nell’oscurità che sembrava la stesse quasi attendendo.

La testa le pulsava per la fame e la fatica. Verso il pomeriggio, aveva iniziato a tremare in maniera incontrollata e, alla sua vista offuscata, le scale, le stanze, e gli uomini e le donne accanto a lei, cominciarono ad apparire come sagome sfumate.

Gil si fermò appoggiandosi contro uno dei grandi pilastri scolpiti del passaggio cercando di riprendere fiato. Qualcuno le passò davanti con una torcia che illuminò appena la sua divisa scura e le appoggiò amichevolmente una mano su una spalla. Quasi senza riflettere, lei lo seguì nei sotterranei.

Il pomeriggio fu migliore, in particolare alla fine del lavoro quando, dopo un’ultima ora di sudore, terminarono di caricare i carri. Gil, con la testa vuota e morta di stanchezza, si chiese se quella sua impressione di essere osservata da ogni finestra buia da occhi invisibili fosse dovuta alla fatica e se le fitte di dolore che provava alla nuca fossero il presagio di un pericolo reale o il frutto di quella fatica alla quale non era certo abituata. In quell’ultima ora, in realtà, non aveva notato nulla e nessuno, se non il dolore che le risaliva lungo i muscoli incordati delle braccia.

Quando da qualche parte qualcuno disse che Ingold era andato via, Gil non riuscì a ricordare quando lo avesse visto per l’ultima volta.

«Era con noi nell’ultimo viaggio giù nei sotterranei… o almeno penso», stava dicendo Seya al Falcone di Ghiaccio, asciugandosi il sudore dalle sopracciglia con la manica della sua veste.

«Dopo?»

La donna scosse il capo.

«Veramente non ricordo.»

«Qualcuno lo ha visto in superficie?»

Gli occhi erano fissi, e molte teste fecero segno di no: nessuno riusciva a ricordare. Il conducente grasso con il giubbotto di tela disse:

«È un Mago! Certamente ha fatto qualche trucco. È probabile che lo incontreremo a metà strada sulle montagne. Io dico che adesso è meglio andare, se vogliamo raggiungere Karst con la luce del sole.»

L’osservazione non ricevette risposta. Le Guardie stavano infatti già raccogliendo i resti dei tizzoni delle torce per riaccenderle da un piccolo fuoco che qualcuno aveva attizzato in un angolo del cortile per scaldarsi. Gil si unì a loro come se la cosa fosse scontata, anche se sapeva che non sarebbe stato necessario rimanere per quella ricerca.

Janus la vide non appena aveva cominciato a scendere le scale e la chiamò «Gil-shalos!» Ma, prima che potesse raggiungerla, il conducente grasso la prese per un braccio ed iniziò un’animata discussione sull’opportunità di raggiungere Karst prima di notte. Calma, Gil si infilò nelle ombre.

Era diverso questa volta, anche perché entrava nelle stanze da sola. La sua torcia le rimandò forme distorte e saltellanti sulle pareti e sulle ogive basse del soffitto; il rumore dei suoi passi sembrò moltiplicarsi misteriosamente nell’oscurità come fosse inseguita da una legione di folletti. Il luccichio rossastro di piccoli occhi maligni ammiccò per un attimo dall’impenetrabile oscurità che la circondava, poi scomparve. Quel buio sembrava respirare con il ritmo di un gigante pronto al risveglio. Il suo istinto le proibì di gridare, e lei continuò ad avanzare, sola, in silenzio, scrutando nel labirinto di bui pilastri e cercando qualche segno di quella sobbalzante luce bianca o un’impronta di uno stivale, anche se, pensandoci bene, Ingold era in grado di muoversi silenziosamente come un’ombra.

Gil abbandonò la strada battuta che avevano preso gli altri soccorritori e si addentrò tra le volte più profonde, perdendosi in corridoi identici uno all’altro, tra scuri pilastri di pietra, simili ad alberi di granito in una foresta assolutamente simmetrica.

La luce della sua torcia non traeva alcun riflesso dal liscio basalto scuro del pavimento; gradualmente, impercettibilmente, Gil sentì incalzare su di lei una sensazione conosciuta. Era già passata per quella strada, e quel ricordo la riempì di una paura senza nome, di un’inquietante sensazione di essere osservata dall’oscurità da cose che non avevano occhi.

Come avrebbe potuto aiutare Ingold non lo sapeva di certo — indifesa com’era e senza conoscenza dei covi del Buio — ma sapeva che doveva trovarlo, così come era certa che fosse esausto, ai limiti della sua incredibile resistenza: Mago o no, in quello stato sarebbe stato molto facile commettere il più banale degli errori che lì significava solamente morte!

Aveva quasi abbandonato ogni speranza quando sporse, in lontananza, il pallido riflesso della luce bianca contro il granito scuro dei pilastri. Corse verso la luce giungendo infine in uno slargo aperto in quella foresta di pietra dove la luce della sua torcia illuminò lo spazio della scala di porfido che si curvava verso l’alto sui resti delle ciclopiche porte di bronzo: non c’era nient’altro oltre di esse, soltanto l’Oscurità.

Tra le macerie di vecchi mobili e scatole di paglia, Gil poté distinguere alcuni scheletri: ossa sparse tra i pilastri, spogliate dal Buio della loro carne. Accanto ai suoi piedi, un fodero di spada era stato liberato dalla lama che conteneva e alcune mele secche erano sparpagliate in terra tra i teschi.

Riconobbe il luogo. Quella familiarità le fece battere forte il cuore ed il rombo del sangue l’assordò. Nessun pezzo di granito però rompeva la liscia regolarità del basalto del pavimento. Era rimasto solamente un grande buco rettangolare che si presentava alla vista nero e aperto: era il blasfemo cancello dell’Inferno!

Dal pavimento scendevano delle scale buie, indicibilmente antiche, fredde, di un orrore agghiacciante… le stesse scale che aveva intravisto nei suoi sogni…

Il freddo umido che spirava da quella oscurità le colpì il viso ricordandole il risucchiante sentore del Caos primordiale… un male al di là della comprensione del genere umano!

Ne emanavano però anche un’irresistibile malìa, un fascino simile a quello del luccichio distante di una lampada per qualcuno che si è perso… E c’era qualcos’altro: la fioca luce bianca che Gil stava cercando, si riverberava sugli archi del soffitto, e si allungava sui lineamenti rigidi di un teschio, scivolando nella delicata rotondità delle ossa di orbite ormai vuote.

Le mani di Gil tremavano, ma riuscì a curvarsi e ad afferrare una spada che giaceva sul pavimento tra un cumulo di ossa corrose come da un acido.

Il peso dell’arma tra le dita la tranquillizzò: si sentì meglio, più calma e meno timorosa. Tenendo alta la torcia, camminò fino al margine dell’abisso.

Giù, lungo le scale, illuminata dal chiarore fulgido del suo bastone, riuscì a scorgere la sagoma di Ingold.

Lo Stregone stava immobile come una statua, circa cinquanta scalini sotto di lei, proprio nel punto nel quale le scale curvavano e si perdevano alla vista negli abissi profondi della terra. Il suo viso era assai attento, quasi stesse ascoltando qualche rumore che Gil non riusciva a percepire.

L’uomo teneva la spada nel fodero e la mano destra gli pendeva vuota e inerte al fianco.

Non appena Gil riuscì a scorgerlo, Ingold prese a muoversi con l’andatura esitante e lenta di qualcuno sotto ipnosi, scendendo un gradino dopo l’altro, quasi fosse in trance o stesse inseguendo una musica incantata.

Gil si rese conto che dopo un altro gradino o due, l’avrebbe perso completamente di vista, a meno che non decidesse di seguirlo.

«Ingold!», gridò Gil disperatamente.

L’uomo si girò verso di lei e le gettò un’occhiata inquietante.

«Si, mia cara?»

La sua voce echeggiò dolcemente risuonando contro l’oscurità delle pareti. Poi si guardò intorno fissando le scale ed aggrottando le ciglia come se fosse sorpreso di trovarsi in quel posto. Si girò quindi di nuovo a guardare verso il basso, e Gil ricordò con terrore di avergli sentito dire, una volta, che la curiosità era la caratteristica predominante di un buon Mago e che questi avrebbe inseguito un enigma fin sull’orlo della propria tomba.

Per un attimo ebbe l’impressione che stesse giocando con l’affascinante idea di scendere per quelle scale misteriose, di cacciarsi consapevolmente nella trappola soltanto per vedere cosa contenesse.

Alla fine si girò verso di lei e salì, mentre l’oscurità sembrava svanire con l’avanzare della sua luce. Salì per starle accanto e chiese, abbastanza calmo:

«Lo senti?»

Gil scosse il capo, muta e spaventata.

«Cosa?»

I suoi occhi blu rimasero fissi per un attimo sul volto di lei, poi guardarono altrove, verso il buio infinito. Le sue sopracciglia bianche si aggrottarono in un movimento ormai familiare, come se la sua mente fosse occupata da un mistero, dimentico del pericolo intorno a loro.

Gil invece avvertì nettamente la presenza di qualcosa di minaccioso, una presenza che stava guardando e attendendo nelle ombre, e che era pronta a spingerli, a guidarli in quella voragine maledetta.

Quando riprese a parlare, la voce rauca di Ingold era abbastanza calma.

«Davvero non senti niente?»

«No», rispose piano Gil. «Tu cosa senti?»

Lo Stregone esitò, poi scosse la testa.

«Niente…», mentì. «Devo essere più stanco di quanto pensassi. Io… io credevo… cioè, non credevo di essere sceso tanto giù. Non era nelle mie intenzioni.»

Quella nota di incertezza nella sua voce, e l’ammissione di quanto fosse stato vicino a cadere in una trappola, scosse Gil. Ingold corrugò ancora la fronte fissando l’oscurità che si apriva sotto i suoi piedi, sforzandosi di acquisire una nuova conoscenza, sconcertato non tanto dall’oscurità, quanto da qualcos’altro di altrettanto sfuggente.

Poi alzò le spalle e smise di pensare.

«Sei venuta sola?», chiese.

Gil annuì. Era una figura dall’aspetto tragico nei suoi jeans logori, con una torcia di resina in mano e la pesante spada presa in prestito da un cadavere, nell’altra.

«Anche gli altri ti stanno cercando,» disse, senza aggiungere nessuna spiegazione del perché solo lei era giunta fin là.

«Grazie,» rispose calmo Ingold, e le poggiò una mano sulle spalle. «È molto probabile che tu mi abbia salvato la vita. Io… mi sento come fossi stato colpito da un incantesimo… come se…» S’interruppe e scosse la testa per schiarirla. «Vieni!», disse infine «Questa strada è più corta. Tieni la spada…», aggiunse poi, quando si accorse che stava per deporla dove l’aveva trovata. «Potresti averne bisogno. Al proprietario non servirà più!»


Quando il convoglio raggiunse Karst, l’aria era diventata gelida e il giorno stava ormai volgendo al crepuscolo. Avevano viaggiato lentamente perché i cavalli erano stanchi, la strada inzuppata e fangosa, ed i carri molto più pesanti dell’andata.

Lungo il cammino, tra l’altro, erano stati spesso fermati da uomini e donne che avevano piantato il loro campo nei boschi e correvano verso di loro elemosinando qualcosa da mangiare. «Solo un po’… solo un po’…»: era quella la richiesta, sempre la stessa.

Janus, che guidava il carro di testa, scuoteva sempre il capo.

«Divideremo il cibo a Karst…»

«Bah!» Una donna coperta di una consunta veste rossa, sputò in terra. «Karst: anche se riuscite ad entrare nella città, non siate sicuri di essere i primi ad afferrare qualcosa!»

Il Comandante la fissò con uno sguardo freddo come la pietra.

«Scostati!», le disse, poi strinse le ginocchia intorno al suo cavallo nero e passò oltre. Gli altri carri non si erano nemmeno fermati.

«Porco!», gli gridò dietro la donna e si curvò per raccogliere una pietra dalla strada. Colpì la schiena di Janus tanto forte da sollevare della polvere dal suo logoro giaccone di pelle, ma lui non si girò. «Tutti voi siete dei maiali!»

Non era certamente questo che Gil si aspettava. Con le braccia strette intorno alla testa del suo cavallo, ed aggrappandosi alle briglie per non cadere, credeva di essere accolta almeno con un po’ di gioia in città. Ma, pensò cinicamente, le persone sono persone… Nessuno reclamerà il carico di viveri, a meno di ottenere per primo qualcosa. Guardò indietro lungo la fila dei carri, ma non vide nessuno dei suoi sentimenti, riflessi sui volti stanchi e sporchi delle altre Guardie.

È una maledetta faccenda, pensò. Abbiamo rischiato la vita per nutrire qualcuno che ti scaglia dietro del fango proprio sulla strada per entrare in città…

Probabilmente però le Guardie avevano già visto troppi aspetti della natura umana per rimanere ancora sorprese.

Continuarono a camminare in silenzio lungo la strada, inseguiti dal buio della sera che avanzava, con una instancabilità ed una forza che Gil invidiò amaramente agli altri. I civili si muovevano lentamente, tirando in silenzio i cavalli sovraccarichi. Il sole era già scomparso dietro la cima delle montagne circostanti e, insieme alla sera, giunse anche il freddo. Presto sarebbe stata notte.

Qualcuno, con un gesto gentile, aveva rubacchiato da qualche parte un mantello con un cappuccio dalle rovine del Palazzo e glielo aveva dato: Gil provvide ad avvolgerselo goffamente intorno alle caviglie. Quel movimento la portò a toccare la spada. Il battito ritmico dell’arma inguainata contro il polpaccio era curioso, ma in qualche modo anche confortante: avrebbe riportato quell’arma con sé in California insieme al ricordo di quella terra strana e terribile.

Da dove diavolo arriva tutta questa gente?, si chiese, scorgendo una dozzina e più di sagome che, arrampicandosi tra le felci a lato della strada, si riversavano sui carri. Poi si drizzò e scrutò i boschi, scorgendo le disordinate tendopoli che ricoprivano le colline tutt’intorno a Karst. Dolce Madre di Dio! Pensano veramente che ci sia un campo di forza magico intorno alla città? Hanno veramente creduto a quello che ha detto Alwir, ed ora sono certi di essere al sicuro?

I profughi si unirono al convoglio mantenendo il passo dei cavalli esausti e delle Guardie, fino a riunirsi dove confluivano i fiumi blu creati dalle ombre dei primi edifici della periferia.

Alcune Guardie avevano snudato le spade, ma non c’era alcun movimento contro di loro: la gente si limitava semplicemente a seguirli, accalcandosi e cercando di trovarsi nel punto migliore quando sarebbe cominciata la distribuzione.

Gil sentì il mormorio delle voci dietro ai muri e si accorse di una pesante atmosfera di attesa venata da una profonda tensione. Tante persone, tanti carri, e così poco cibo!

Infine giunsero nella piazza illuminata dagli ultimi bagliori del crepuscolo.

La ragazza si bloccò per lo spavento, irrigidendosi come per un dolore fisico, mentre una fredda apprensione le gonfiava il petto. La piazza infatti era gremita di gente di tutte le età, di ambo sessi, sporchi, cenciosi, o talmente imbrattati da sembrare cenciosi, e dappertutto sguardi da lupo affamato!

I grandi falò della notte precedente erano stati accesi nei quattro angoli della piazza e la luce scarlatta delle fiamme si rifletteva milioni di volte in quegli occhi accesi da una febbre che li rendeva simili a quelli dei topi delle volte.

Anche il cavallo di Gil percepì quella tensione: si abbassò, poi rialzò di scatto il muso, e nitrì con forza.

In testa al convoglio, Janus mosse il suo cavallo verso la folla che si dirigeva nella piazza nella quale i viveri sarebbero stati immagazzinati.

Ci fu un leggero movimento, quasi che quella massa buia di occhi si fosse istantaneamente messa d’accordo, e nessuno si spostò.

Il cavallo da battaglia del Comandante si agitò allontanandosi di traverso da quella parete umana: Janus sguainò la spada.

Gil sentì il carro che conduceva cigolare con un movimento improvviso e Ingold, che stava sonnecchiando nel retro, saltò velocemente sul sedile di guida. Alla luce dei fuochi il Mago era visibile a tutti nella piazza, il capo scoperto a rivelare il viso squadrato incorniciato dall’ispida barba bianca, gli occhi freddi e duri come un cielo in tempesta.

Non disse niente e non fece neanche un gesto: si appoggiò al suo bastone e guardò la folla nella piazza.

Dopo un lungo momento di silenzio, gli uomini si allontanarono dalle porte, ed un passaggio si aprì davanti alle Guardie, al loro convoglio, ed al Mago.

La voce di Janus risuonò nitida nell’aria della sera mentre entravano nella corte nella quale sarebbe stata accatastata la roba.

«Iniziate a scaricare. Portate dentro i viveri, ma sotto tripla guardia!»

Egli stesso non scese da cavallo mentre, dalle porte del palazzo che avevano scelto come magazzino, uscivano altre Guardie alle quali si unirono i soldati in livrea rossa di Alwir, ed i Monaci Guerrieri del Vescovo, anch’essi con una divisa rossa, rappresentante il Sangue di Dio.

Gil si appoggiò alla spalla del suo cavallo avvertendo il freddo del sudore che le si stava gelando sul viso. Il calore della bestia attraverso il tessuto del mantello e la consapevolezza che tutto era ormai finito, la tranquillizzarono e la calmarono.

La folla nella piazza si era allontanata radunandosi intorno ai falò, ma gli sguardi che gettavano verso gli uomini armati che ammucchiavano il cibo non erano certo di felicità, e il mormorio continuo di protesta non cessò mai di echeggiare.

Gil sentì qualcuno gridare «Mio signore Ingold!». Girandosi, vide una figura agitare le braccia sulle scale del Palazzo Comunale. Il Mago aguzzò lo sguardo frugando tra la folla per rendersi conto di cosa pensasse, ma pochi adesso lo stavano guardando. Tutti gli occhi erano inchiodati sul cibo come per incanto.

Lo Stregone scese lentamente dal carro, e la folla si allontanò da lui. Si mossero compatti, non intimoriti da spavento o da terrore, ma da qualcosa che non potevano e non riuscivano a comprendere: non fece alcuna fatica a raggiungere le scale.

Se Gil non fosse rimasta a guardarlo, seguendone il cammino con gli occhi, avrebbe completamente perso quello che accadde.

Un uomo, vestito di un mantello e cappuccio rossi, lo attendeva in piedi sulle scale del Palazzo Comunale stringendo una pergamena arrotolata in mano. Porse la carte a Ingold e brandì la spada.

Gil vide Ingold leggere ciò che vi era scritto ed alzare gli occhi. Poté avvertire, dal suo punto di osservazione, la furia e l’indignazione che bruciò insieme all’ira ogni parte del corpo dello Stregone. Una dozzina di uomini in rosso emersero dalle ombre e lo circondarono: tutti avevano le spade sguainate.

Per un istante Gil credette che avrebbe reagito. E pensò: Oh, mio Dio, ci sarà una rivolta, mentre una strana fredda furia le faceva scivolare del ghiaccio nel sangue. Anche molte delle truppe in rosso dovettero pensare la stessa cosa, perché indietreggiarono bruscamente. Gil ricordò che Ingold, oltre alla fama di Mago, possedeva quella di miglior spadaccino del Regno.

Poi lo Stregone alzò le mani a mostrare che erano vuote, e quegli uomini lo portarono dentro con loro; uno raccolse il suo bastone, un altro la sua spada, e tutti scomparvero nelle ombre delle porte del Palazzo Comunale.

Sbigottita, Gil si volse per vedere se Janus avesse assistito alla scena, ma il Comandante delle Guardie aveva la schiena rivolta verso di lei e la sua attenzione era calamitata dalla folla. Le Guardie intanto stavano ancora lavorando trasportando grano, pezzi di pancetta, sacchi di patate e frumento sulle scale e attraverso l’oscurità sorvegliata delle porte.

Gil dubitò che qualcun altro si fosse accorto, oltre lei, di quell’arresto.

Hanno scelto il momento opportuno, pensò improvvisamente, ed hanno calcolato quando catturarlo scegliendo il silenzio e la confusione piuttosto che rischiare una rivolta per un suo gesto di resistenza!

La rabbia la invase, lasciando completamente fuori la paura. Fissò le scale macchiate dall’ombra e dalla luce dei grandi fuochi. Erano vuote, quasi nulla fosse successo. Il Mago sarebbe potuto benissimo essere scomparso…

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