Barbara Hambly Il tempo del buio

CAPITOLO PRIMO

Gil sapeva che si trattava di un sogno. Non c’era alcuna ragione di aver paura. Sapeva che il pericolo, il caos, il cieco terrore nauseabondo che riempivano la notte gonfia di voci, non erano reali. Quella città, con la sua cupa architettura sconosciuta, quella folla senza meta di uomini e donne terrorizzati che si accalcavano intorno a lei ciecamente, erano soltanto i residui di un subconscio sovraccarico, fantasmi che la luce del giorno avrebbe fatto svanire.

Sapeva tutto questo, nondimeno aveva paura. Le sembrava di stare immobile ai piedi di una rampa di scale in marmo verde che dominava un cortile quadrato circondato da alti edifici ricoperti di tetti. Un gruppo faceva ressa dietro di lei schiacciandola contro il gigantesco piedistallo di una statua di malachite, e quelle persone sembravano non essere assolutamente conscie della sua presenza; erano affannate, con gli occhi iniettati di sangue, e i loro volti distorti dal terrore, erano cerei come quelli di cadaveri nella luce fredda dell’ultimo quarto di luna.

Si stavano riversando in tutta fretta fuori dalle case sormontate da timpani. Gli uomini stringevano scrigni o borse gonfie di denaro, le donne invece portavano con sé gioielli, cani da compagnia, o bambini che piangevano per un terrore sconosciuto. I loro capelli erano scompigliati dal sonno: alcuni di loro erano vestiti, ma molti altri erano nudi o saltellavano avvolti in coperte agguantate frettolosamente. Gil poteva sentire l’acre afrore di sudore dei loro corpi ogniqualvolta veniva sfiorata.

Nessuno la vide, nessuno si fermò. Arrancavano su per quegli enormi scalini di marmo illuminati dalla luna, per dirigersi verso il buio arco dei cancelli e verso le strade rumoreggianti della città assediata.

Quale città?, si chiese Gil confusamente. E perché ho paura? Si tratta soltanto di un sogno…

Lei però sapeva… nel profondo del suo cuore sapeva — come si riconoscono le cose in sogno — che quella scena di folle fuga ora si stava ripetendo, come in un riflesso centuplicato da specchi convergenti, in ogni altra parte della città intorno a lei.

La consapevolezza e l’orrore le crearono una sensazione di freddo che le serpeggiò sotto la pelle e brulicò come un verme attraverso il suo intestino. Anche gli altri percepirono la stessa sensazione, perché nessun uomo si fermò per appoggiarsi alla colonna che stava dietro di lei, né alcuna donna si diresse verso i gradini sui quali stava. Con gli occhi colmi di follia e lo sguardo vacuo — pur contro la loro stessa volontà — guardavano dietro alle loro spalle le ciclopiche porte di bronzo antico, rese verdi dal tempo, che dominavano la parete opposta.

Era proprio da quelle porte che stavano fuggendo. Era dietro quel mostruoso cancello trapezoidale che l’orrore stava nidificando, così come l’acqua cova, dietro il fragile sipario di una diga, un leggero, mutevole, vago male, una muta eruzione nella terra dalla quale proviene, aldilà dei cupi abissi del tempo e dello spazio.

Nella caverna chiusa dal cancello ad arco dietro di lei, c’era del movimento, e si sentivano delle voci, dei passi smorzati ed un fruscio appena percettibile simile al lamento stridente di una spada che venisse sguainata.

Gil si girò, ed i suoi folti capelli le si arruffarono sugli occhi. La selvaggia danza ballonzolante delle torce agitate dal vento incorniciava una silhouette di forme che incalzavano, ondeggiando ora su un volto, ora sulla punta di una lama, ora sul bagliore corrusco di una maglia di ferro.

Nel freddo chiarore di peltro della luce lunare, le Guardie penetrarono in mezzo a quella marea disperata di gente: indossavano uniformi nere e luccicanti con alti stivali ai piedi. Gli uomini e le donne che ne facevano parte, brandivano in alto le lame affilate delle loro armi contro il gioco di luci creato dalle ombre.

Gil riusciva a distinguere solamente di sfuggita la folla di persone armate frettolosamente che ora si accalcava dietro di lei, maneggiando senza alcuna perizia l’elsa delle armi prese in prestito e lanciando maledizioni in preda alla paura, una paura agghiacciante che traspariva dal profilo terrorizzato dei loro visi.

A grandi passi, davanti a loro, stava avanzando un individuo in abito marrone, un vecchio Stregone dagli occhi di falco e dalla barba lunga, che brandiva una spada fiammeggiante. Fu lui a fermarsi sul gradino superiore della scala per esaminare il cortile che aveva davanti, come un’aquila cacciatrice. L’ultimo di quella plebaglia disordinata e discinta si portò sulle scale dietro Gil spingendola rudemente senza scorgerla, e si insinuò alle spalle dello Stregone e delle Guardie facendo risuonare i piedi nudi attraverso il buio passaggio dei cancelli.

La ragazza si accorse che il vecchio fissava attentamente le porte come se conoscesse la natura dello spaventoso orrore che si celava lì dietro, ben sapendo che proprio da quel punto proveniva. Quella faccia antica ed imperscrutabile era serena sotto il sipario della folta barba. Poi lo sguardo dell’uomo si spostò per esaminare più accuratamente lo spazio che gli stava davanti, ed i suoi occhi incontrarono quelli della donna.

Lui riusciva a vederla!

Gil lo capì subito, ancor prima che le sue palpebre si spalancassero per lo stupore e lo spavento. Le Guardie e gli altri che si trovavano dietro il vecchio, esitanti e riluttanti a sopravanzarlo, fissarono con altrettanta attenzione la zona accanto alla giovane per cercare di scorgere ciò che appariva allo Stregone nell’alone lunare di luce che illuminava il cortile assolutamente deserto. Ma soltanto il vecchio poteva vederla, e lei si chiese confusamente il perché.

Un vento sottile ed intermittente aveva iniziato a soffiare attraverso il cortile filtrando dalle crepe e dai cardini delle porte millenarie: sussurrando sui lucidi cerchi di argento del marciapiede, scompigliava i capelli neri di Gil, ma portava con sé anche l’essenza fredda e malsana del Male, della pietra, delle cose che non avrebbero mai visto la luce, del sangue, dell’oscurità!

Lo Stregone ripose la lama scintillante che stringeva in pugno e scese cautamente le scale dirigendosi verso di lei lentamente, quasi avesse paura di spaventarla. Gil, nel frattempo, continuò a pensare che tutto quello non poteva essere reale, che stava soltanto sognando. Pensò che quell’uomo sembrava un vecchio gentile: i suoi occhi blu, luminosi e fieri, non denotavano orgoglio o crudeltà d’animo e, anche se aveva paura dell’orrore invisibile che si celava dietro alle porte, non lo dava a vedere.

Si spostò fin quando non fu a pochi passi da dove lei stava ferma, tremando nell’ombra della statua mostruosa, con lo sguardo incerto e cauto come se cercasse di comprendere ciò che si trovava di fronte. Poi alzò una mano e fece per parlare.


Gil si svegliò improvvisamente, ma non si trovava nel suo letto. Per un momento non riuscì a capire dove fosse. Allungò goffamente una mano, spaventata e disorientata come tutti quelli che si svegliano di soprassalto, e sentì sotto il palmo il freddo del marmo della base del piedistallo. Il gelo umido della notte le feriva le gambe nude e le ghiacciava i piedi che poggiavano, scalzi, sul marciapiede.

Le grida di terrore della città immersa nelle tenebre le giunsero portate dal vento, improvvisamente più chiare e, con esse, le pervenne anche uno strano sentore d’acqua. Per un istante, l’agghiacciante orrore di ciò che allignava dietro quelle porte le strinse la gola come una mano crudele, ed alla fine si arrese e cadde, roteando come una foglia, vinta dalla paura e dalla confusione generata da quella inenarrabile malignità.

Era sveglia: non stava più sognando. Ma si trovava ancora in quel posto! Tutti gli occhi erano fissi su di lei, spaventati, incerti, persino timorosi. I guerrieri, raggruppati ancora sulla scala, fissarono con sorpresa quella giovane donna dai capelli scuri, esile e ricoperta scarsamente dalla camicia verde a pallini che portava abitualmente quando andava a letto, e che era apparsa tra loro in maniera così repentina.

Gil si guardò all’indietro cercando con gli occhi il piedistallo di marmo al quale potersi appoggiare: era debole per lo spavento, agitata per lo smarrimento e la paura, con le gambe che le tremavano mentre il respiro le si strozzava in gola. Lo Stregone stava lì e lei, improvvisamente, si rese conto che era impossibile aver paura in sua presenza. A bassa voce l’uomo le chiese:

«Chi sei?»

Con sua sorpresa trovò il fiato per rispondergli.

«Gil,» disse, «Gil Patterson.»

«Come hai fatto ad arrivare fin qui?»

Intorno a loro, il vento proveniente dalle porte soffiava sempre più veloce, freddo e pungente, vibrando di una sovrumana avidità. Le Guardie brontolarono, e la tensione che si andava accumulando tra di loro divenne visibile come il fremito di un filo teso. Anche loro avevano paura!

Ma lo Stregone non si mosse, e il pacato calore della sua voce non subì alcuna flessione.

«Io… io sto sognando…,» balbettò Gil. «Ma questo… io… non è più un sogno, vero?»

«No,» le rispose gentilmente il vecchio, «ma non aver paura.» Alzò le dita e fece alcuni movimenti in aria che la ragazza non riuscì a distinguere chiaramente. «Ritorna ai tuoi sogni!»

Non appena la nebulosità del sonno confuse i suoni, l’odore, la paura, e il freddo della notte svanirono. Gil si accorse che le Guardie osservavano con occhi vuoti le vacillanti ombre blu, le sole cose ancora in grado di vedere. Poi lo Stregone parlò loro brevemente, ed allora essi lo seguirono quando avanzò nel cortile deserto, affrontando il vento cupo e la minaccia di una morte misteriosa qual era quella annidata aldilà delle porte.

Sollevò la sua spada, una lama lunga e pesante che scintillò nell’oscurità come un lampo nel cielo sereno. Allora, quasi che un’esplosione avesse colpito l’intero edificio, le porte si spalancarono e l’oscurità che ne promanò si riversò fuori come una coltre di fumo.

Gil vide cosa nascondeva l’oscurità, e… furono le sue stesse grida di terrore a svegliarla.


Le mani le tremavano tanto che riuscì a malapena ad accendere la lampada sul comodino. L’orologio sul tavolo accanto al letto segnava le due e mezza. Madida di sudore e gelata come un cadavere, Gil si strinse al cuscino mormorando freneticamente a se stessa che si trattava solamente di un sogno… doveva trattarsi solamente di un sogno…

«Ho ventiquattro anni, sono una studentessa laureata in Storia Medioevale e conseguirò la Laurea in Filosofia tra meno di un anno: è stupido aver paura di un sogno! Ora è tutto finito, e niente di quello che mi è parso di vedere era vero… È stato soltanto un sogno!»

Pronunciò queste parole per convincere se stessa, ma non seppe trattenersi dal lanciare uno sguardo incerto e timoroso alla consolante familiarità degli oggetti presenti nel suo appartamento. I Levi’s penzolanti dal cassetto semiaperto del comò, il Rooster Cogburn dallo sguardo minaccioso che la fissava da un poster appeso alla parete, il disordine costituito dai libri, dagli indumenti, dai soldi e dalle riviste sparsi qua e là sul pavimento, la rassicurarono.

Pensò alla prima ora del seminario che l’attendeva il mattino seguente, poi guardò l’orologio e la lampada, e si mise a riflettere in attesa che sopraggiungesse il sonno. Nonostante fosse una ventiquattrenne prossima alla Laurea in Filosofia, troppo grande quindi per poter essere spaventata dai sogni, si agitò a lungo nel letto e, dopo un po’, cercò a tastoni sul comodino la «Vita di un girovago nel Medio Evo» trovandola quindi sul pavimento. Si immerse nella lettura e, per distrarre la mente, si costrinse ad interessarsi allo status legale vigente nell’Inghilterra del Quindicesimo Secolo.


Non si accorse di essersi addormentata sin quando non fu l’alba. Stranamente, al risveglio, Gil non ricordò niente del sogno che aveva fatto sino ad una settimana dopo, e quel che ricordò, mentre tornava a casa in macchina — una Wolksvagen rossa — dall’Università, nella luminosità dorata di un pomeriggio del settembre californiano, fu la voce dello Stregone. Si chiese smarrita dove l’avesse sentita mentre ne rammentava il timbro caldo, la cadenza caratteristica e la sua armonia vellutata capace di scivolare nella durezza per poi tornare ancora vellutata. Ricordò gli occhi, la città, le ombre, la paura.

Nell’esatto momento in cui svoltava con la sua automobile in Clarice Street, diretta al suo appartamento, capì che quella città le era apparsa in sogno più di una volta. Le tornò alla mente uno strano particolare del primo sogno proprio nel mezzo della solita manovra nel consueto stretto parcheggio del vicolo cieco in cui era solita fermarsi. Sebbene non ci fosse stato nulla di spaventoso nel sogno, ne era rimasta ugualmente spaventata, e si era svegliata coperta da un sudore gelido e con un senso diffuso di timore.

Aveva sognato di camminare sola in una camera a volta, tanto grande e spaziosa che le linee degli archi tappezzati d’ombra sui quali si appoggiava il basso soffitto a costoloni, sembravano dissolversi nell’oscurità che la sovrastava. Un fitto strato di polvere le ricopriva i piedi e, allo stesso modo, ricopriva un vecchio rotolo di gomena ed un mucchio di malandate scatole di cartone incastrate l’una nell’altra che giacevano tra i pilastri. Piccole particelle della stessa polvere danzavano in aria ed offuscavano il distante bagliore di una fioca luce giallastra proveniente da una piccola lampada di sego che bruciava in lontananza.

La polvere non era però la sola compagna di Gil: nella stanza aleggiava impalpabile, dotato di ubiquità come le ombre, un senso latente di paura, quasi che creature senz’occhi la stessero osservando nascoste nel buio. La pallida fiamma si rifletteva sugli ampi gradini rossi della scalinata e lasciava intravedere la sagoma di monumentali porte di bronzo. La plumbea oscurità del pavimento sembrava invece assorbire quella luce a dispetto del fatto che il basalto nero di cui era fatto fosse lucido, Uscio come vetro, e levigato dal passaggio di innumerevoli piedi. Come questo potesse accadere, Gil non lo sapeva: era chiaro, dal profondo strato intatto di polvere, che pochissime persone, forse nessuno, venivano in quel luogo.

Il pavimento era antico, più antico delle pareti, più antico ancora della stessa città, e Gil pensò, senza essere per niente sicura del perché lo sapesse, che fosse più antico di qualsiasi città del genere umano. Una sola cosa era nuova in quell’ambiente: nel bel mezzo di quel cupo impiantito, proprio davanti alla scala, una singola lastra spiccava tra le altre. La sua superficie ruvida, di granito grigio pallido, sembrava stridere nel contrasto con la consumata levigatezza del resto del pavimento, pur se anch’essa era ricoperta da quel millenario mantello di polvere.

Nell’oscurità intorno a lei sentì scricchiolare una porta, ed un riverbero di luce si rifletté tra gli archi. La ragazza scivolò nell’ombra di un pilastro nascondendosi istintivamente, anche se era conscia che si trattava di un sogno e che i suoi abitanti non avrebbero mai potuto scorgerla perché semplicemente non esistevano.

Dalle scale scese una donna, forse una serva a giudicare dai suoi vestiti, che portava con passi cadenzati un cesto sul braccio e teneva una lampada alta sulla testa. Dietro di lei camminava rumorosamente uno schiavo gobbo che scrutava l’oscurità che si stendeva tutto intorno con occhi foschi e diffidenti.

La donna scese dalle scale con aria indifferente e percorse il cupo pavimento levigato. Cambiò direzione per evitare di calpestare il lastrone di granito nonostante il suo obiettivo — una cesta di mele secche — fosse posto sul pavimento alla base delle scale, e lo strano pezzo di granito non fosse affatta sollevato dal resto del pavimento.

Il gobbo scelse un percorso più ampio, muovendosi di pilastro in pilastro e borbottando tra sé senza mai però distogliere gli occhi acuti pervasi di paura dalla pietra pallida. La donna sollevò la cesta e la porse al gobbo perché la portasse. Riprese quindi a dirigersi verso le scale e poi si fermò, indecisa, come se stesse dicendo a se stessa di non fare la stupida o la superstiziosa… Non c’era alcuna ragione di aver paura, né dell’oscurità, né certamente di quella porzione di pavimento di colore grigio invece che nero, che era semplice granito in luogo del basalto. Alla fine, però, la ragazza scelse la strada più lunga per evitare di camminare su quella lastra inconsueta.

«Ecco perché è ruvido, mentre il resto del pavimento è così liscio,» pensò Gil. «Nessuno ci cammina sopra. Nessuno ci ha mai camminato sopra. Perché?»

Il ricordo sparì come era arrivato, e persino l’idea che i due sogni fossero collegati tra loro, ebbe il solo effetto di una curiosità passeggera. Gil fece poco sforzo per cercare di ignorare quanto le era tornato alla memoria, e tutto tornò alla normalità fino a che non si verificò il terzo sogno.

Nulla disturbò la sua esistenza giornaliera; continuò a frequentare le sale della Biblioteca dell’Università alla ricerca di articoli ed esaminando le cronache di alcune città inglesi nel Medio Evo. Prese anche molti appunti che alla fine si vide costretta a riordinare, com’era solita fare, sul tavolo della cucina del suo appartamento di Clarke Street, cercando di dare un senso logico a tutta quella massa di dati. Classificò carte non classificate, si affannò su una proposta di borsa di studio, ed intanto continuava la normale routine della sua vita incontrandosi con i suoi amici e con qualche innamorato. Poi sognò di nuovo quella città assediata!


Si trovava in piedi nel vano dell’alta finestra di una torre. Il bagliore della luna era tanto luminoso che riusciva a distinguere il pavimento del cortile molto più in basso, e le incisioni sulle maniglie di ferro battuto dei cancelli: scorse l’ombra di una foglia che cadeva, e perfino una sottile crosta di polvere sul terreno. Alzando gli occhi invece, riuscì a spingere lo sguardo oltre l’intricato labirinto delle cime degli alberi, e scorse il luccichio dell’acqua in lontananza. Nella direzione opposta, le nere falde delle montagne si stagliavano in distanza contro l’orlo di un cielo gonfio di stelle.

Nella stanza dietro di lei una solitaria lingua di fiamma si levava dall’argento lucido della lampada sul tavolo e, al chiarore di quella piccola luce ondeggiante, riuscì a distinguere i mobili — pochi e semplici — ognuno dei quali era lavorato in ebano ed avorio. Sebbene il loro disegno e le forme le risultassero estranee, riconobbe in quegli oggetti l’afflato creativo di una tradizione salda e stabile, il prodotto di una cultura sofisticata e raffinata.

Si accorse di non essere sola. Contro la parete più lontana della caverna vi era il mobile più grande, un letto d’ebano massiccio la cui spalliera, decorata con fili di madreperla, rifrangeva l’esile luce dalla lampada. Sopra al letto, quasi nascosto dalle ombre impenetrabili, si poteva intravedére un alto baldacchino istoriato con un emblema d’oro a rilievo: un’aquila stilizzata in picchiata, sormontata da una minuscola corona.

Lo stesso emblema era ripetuto sui luccicanti bottoni d’argento del soprabito scuro che apparteneva all’uomo in piedi accanto al letto, il capo chino, silenzioso come una statua, intento ad osservare la figura addormentata. Era un uomo alto, dall’aspetto gradevole pur nella sua austerità. Qualche filo d’argento spiccava tra la folta capigliatura bruna che gli scendeva lunga fino alle spalle, sebbene Gil non gli attribuisse più di trentacinque anni.

Dalla suola dei suoi stivali di pelle morbida fino alle pieghe del mantello ondeggiante che copriva soprabito e tunica, l’abbigliamento dell’uomo dava l’impressione di ricchezza — in tono con la sommessa eleganza della stanza — infatti, pur essendo semplice, era perfettamente confezionato con una stoffa costosa. Le gemme sull’elsa della spada che spuntava dal mantello, lucevano come stelle alla luce fioca della lampada, seguendo il leggero movimento del suo respiro.

Un rumore nel corridoio gli fece alzare la testa e Gil riuscì a scorgere il suo viso, spaventato dal timore di terribili notizie. Poi la porta accanto a lui si aprì.

«Sapevo di trovarti qui,» disse lo Stregone.

Per un attimo Gil ebbe l’assurda idea che si stesse rivolgendo a lei. Ma l’uomo in nero annuì, aggrottando la fronte per l’intensa concentrazione circa qualche problema da risolvere, e la sua mano continuò a sfiorare i cerchi sollevati in spire della spalliera del letto.

«Stavo scendendo,» si scusò l’uomo con voce soffocata, il viso rivolto per metà indietro. «Volevo soltanto vederlo.»

Lo Stregone chiuse la porta. Il movimento dell’aria fece tremolare la fiamma della lampada, e la sua luce incerta illuminò per un breve istante le rughe scavate dal sole intorno ai suoi occhi, che mostravano quella stessa espressione di stanchezza e di tensione. Gil vide che anche il vecchio portava una spada sotto la stoffa grossolana del mantello. La sua elsa non era però ingioiellata, e rivelava il lungo uso che ne era stato fatto nel corso degli anni. Egli disse:

«Non ce n’è alcun bisogno. Dubito che attaccheranno ancora, stanotte.»

«Stanotte…», gli fece eco con voce triste l’uomo in nero. I suoi occhi color grigio fumo rilucevano come acciaio nella densa ombra della piccola stanza. «E che mi dici di domani, Ingold? E della notte successiva? Si, è vero, stanotte siamo riusciti a respingerli negli abissi dove dimorano. Abbiamo vinto. Ma cosa è successo nelle altre città del Regno? Cosa hai visto nella tua sfera di cristallo, Ingold? A Penambra, nel Sud, dove ora sembra che anche il Re sia stato assassinato, i Neri scorrazzano per le sale del suo palazzo come spettri impazziti. Nelle province lungo la Valle del Fiume Giallo, a Est, tu stesso mi ricordi che esercitano un tale potere che nessun uomo si azzarda ad uscire di casa dopo il tramonto. A Gettlesand poi, sulle montagne, la paura dei Neri è così forte, che gli uomini rimangono chiusi tra le pareti domestiche mentre i Razziatori Bianchi cavalcano nelle pianure bruciando e saccheggiando a loro piacimento!

«L’esercito non può essere dovunque. Quei maledetti si sono sparsi nei quattro angoli del Regno anche se la maggior parte di loro si trova a Penambra. Noi, qui a Gae, non potremo resistere per sempre. Forse non riusciremo neppure a tenere il Palazzo se dovessero tornare domani notte.»

«Questo lo sapremo domani», replicò pacatamente lo Stregone. «Noi possiamo soltanto fare ciò che dobbiamo… e sperare!»

«Sperare!» Lo disse senza vergogna o ironia; solamente il suono di quella parola sembrò goffo sulla sua lingua quasi fosse un termine poco familiare. «Sperare in cosa, Ingold? Che il Consiglio degli Stregoni infranga il suo silenzio o che le mura di Quo si spalanchino per farli uscire dai loro nascondigli? Sperare che — se e quando lo faranno — siano capaci di darci una risposta?»

«La parola speranza ha un suono troppo amaro sulle tue labbra, Eldor. E Dio solo sa quanto sia scarsa in tutti noi!»

Eldor si girò e cominciò a camminare per la stanza come un leone in gabbia, giungendo fino alla finestra per poi tornare ancora indietro sui suoi passi. Calpestò un piede di Gil, ma non diede segno di essersene accorto. Ingold, lo Stregone, invece alzò gli occhi, ed il suo sguardo indugiò brevemente su di lei. Eldor intanto continuava a camminare, ed il suo braccio sfiorò le mani di Gil appoggiata sul davanzale della finestra.

«È l’impotenza che non riesco a sopportare!», urlò con voce rabbiosa. «È la mia gente, Ingold, il Regno — e tutta la civiltà, se ciò che dici è vero — che stanno andando in rovina, ma né tu né io possiamo offrire loro altro che uno scudo dietro il quale nascondersi. Tu puoi dirmi cosa sono i Neri e da dove provengono, ma i tuoi poteri non possono colpirli in alcun modo! Tu non sei in grado di dirci cosa fare per sconfiggerli definitivamente. Puoi solamente combatterli, come facciamo tutti, con una semplice spada!»

«Forse non c’è niente da fare!», rispose Ingold appoggiandosi allo schienale di una sedia.

Intrecciò le mani, ma i suoi occhi erano attenti e vigili.

«Non posso accettarlo.»

«Devi accettarlo.»

«Non è vero! Tu sai che non è vero!»

«Il genere umano sconfisse l’Oscurità migliaia di anni fa,» replicò pacatamente lo Stregone mentre il tremolio della lampada creava curiose figure sui lineamenti del suo viso smunto, segnato da molte cicatrici. «Come ciò sia potuto avvenire, non si sa! Forse anche i Neri ignorano come sia accaduto; in ogni caso, non abbiamo trovato nessuna registrazione di quei lontanissimi avvenimenti. Il mio Potere non può influire sui Neri perché non li conosco, e non capisco né la loro essenza, né la loro natura. Essi possiedono un proprio Potere, Eldor, molto diverso dal mio, al di là della comprensione di qualsiasi Stregone, eccetto, forse, Lohiro, il Capo del Consiglio di Quo. Di ciò che accadde al tempo dell’Oscurità, tremila anni fa, quando essi sorsero per la prima volta a devastare la Terra… tu ne sai quanto me!»

«Sapere?» Il Re sorrise amaramente fissando lo Stregone con i suoi occhi cupi, quasi fosse un lupo pronto ad attaccare. «Lo ricordo bene. Chiaramente: come fosse successo a me e non a qualche mio lontanissimo avo!» Si avvicinò quindi allo Stregone e la sua ombra lo oscurò come quella di un enorme albero colpito dal fulmine. Il chiarore tremolante della piccola lampada confuse quell’ombra con le altre che incombevano nel minuscolo ambiente. «E anche lui ricorda…»

Allungò una mano verso il letto, e l’ombra sembrò rimbalzare sulla parete per scendere ad oscurare il bambino che vi dormiva tranquillo.

«Radicati in profondità nella sua mente di fanciullo, lì sono conservati quei ricordi. Ha appena sei mesi… sei mesi… tuttavia anche lui dovrà svegliarsi piangendo! Cosa può sognare di tanto terribile un bimbo così piccolo, Ingold? Il Buio, soltanto il Buio. Lo so!»

«Si!», assentì lo Stregone pensieroso, «Anche il tuo sonno è turbato da quei sogni. Tuo padre non ha mai sognato il Buio: dubito che quell’uomo abbia mai provato paura o sia riuscito ad immaginare qualcosa di diverso dalla vita di ogni giorno; quelle memorie erano rinchiuse troppo profondamente in lui. Forse, più semplicemente, lui non aveva alcun bisogno di ricordare. Ma per te è stato diverso: tu l’hai sognato, e ne hai avuto paura anche se ancora non sai cosa sia quell’Oscurità.»

In piedi, rannicchiata nel freddo vano della finestra, Gil percepì il legame che univa quei due uomini: era una sensazione addirittura palpabile, una parola, un contatto reale e concreto.

Il pensiero di un goffo ragazzo dai capelli scuri che si svegliava piangendo a causa di incubi tremendi, confortato solamente da uno Stregone vagabondo, la commosse profondamente. Il viso di Eldor lasciò intravedere un’ombra aspra, ed il tono sinistro svanì dalla sua voce lasciando il posto ad una tristezza infinita.

«Sarei dovuto rimanere all’oscuro di tutto,» disse. «La mia gente nasce già adulta, e non conosce mai le gioie della fanciullezza: le nostre stesse memorie diventano la maledizione che segna la razza!»

«Ma esse possono anche diventare la sua salvezza», replicò Ingold. «Ed anche quella di tutti noi.»

Eldor sospirò e ritornò accanto al letto riflettendo in silenzio, le mani sottili e forti intrecciate dietro la schiena. Ora però non stava più guardando il bimbo addormentato: i suoi occhi meditavano nell’ombra ed erano meno lucidi, spersi in un’epoca passata e lontana. Sondavano esperienze di altri uomini, in altre ere.

«Vuoi farmi un ultimo favore, Ingold?»

Lo sguardo del vecchio si posò su di lui.

«Nel tuo vocabolario non deve esistere la parola ultimo

I lineamenti del volto di Eldor si contrassero in uno stanco sorriso; era da sempre abituato alla testardaggine dello Stregone.

«Alla fine,» rispose, «c’è sempre un’ultima ora. Lo so! Il tuo Potere non può nuocere ai Neri,» riprese, «ma può però eluderli. Ti ho visto farlo. Quando scenderà la notte in cui sorgeranno di nuovo, il tuo Potere ti permetterà di fuggire, mentre io ed i miei uomini rimarremo a combattere e a morire. No!»

Eldor alzò una mano in un gesto imperioso a prevenire la reazione dello Stregone.

«So già cosa vuoi dirmi. Ma non mi interessa: voglio che tu te ne vada… Non puoi farci nulla! Te lo ordino come tuo Re! Quando verranno — e lo faranno — porterai via con te mio figlio Altir!»

Lo Stregone rimase seduto immobile, senza muovere un muscolo, ma la sua barba irta tradiva la tensione che lo stava lacerando. Vincendo a fatica l’impulso di ribellarsi, non poté impedirsi una protesta sommessa:

«Sotto un certo aspetto tu non sei il mio Re…»

«Allora te lo chiederò come amico», rispose Eldor, e la sua voce si abbassò fino a diventare un sussurro. «Tu non puoi certo salvarci. Forse solo qualcuno di noi, ma a che cosa servirebbe? Certo, tu sei un grande spadaccino, Ingold, forse il più grande spadaccino vivente, ma il contatto con un Nero significa la morte per te come per chiunque altro. È scritto su qualche libro che il nostro destino debba compiersi qui. Essi ritorneranno: è sicuro come è vero che a Nord c’è ghiaccio. Tu però puoi salvare Altir… Lui è l’ultimo della stirpe dei Dare di Renweth — l’ultimo della stirpe dei Re di Darwath — ed è anche l’unico nel Regno che possa ricordare il Tempo del Nero… La storia stessa lo ha dimenticato: non esiste alcun documento di quell’epoca, neanche una menzione nelle antiche cronache. Mio padre addirittura non ricordava assolutamente nulla, e i miei stessi ricordi sono incompleti e frammentari… Ora c’è bisogno di qualcuno che riesca a ricordare tutto: è il momento che lo richiede. Tremila anni fa i Neri spazzarono virtualmente via il genere umano dalla faccia della Terra. Poi sparirono. Perché scomparvero, Ingold? Perché?»

Lo Stregone scosse il capo.

«Altir lo sa!», continuò Eldor con la stessa voce sussurrante. «Mio figlio lo sa! E lui potrà riuscire là dove i miei ricordi si fermano: te l’ho ripetuto anche troppe volte. È lui la Promessa, Ingold! Io sono solamente una speranza fallita, una candela in procinto di lanciare i suoi ultimi barbagli di luce. In qualche angolo della memoria della stirpe di Dare è nascosto l’indizio — dimenticato finora da tutti — che ci aiuterà a sbaragliare i Neri. In me è nascosto troppo profondamente, ma mio figlio è l’unico che potrà rivelare quel segreto. È lui quello da salvare!»

Lo Stregone ascoltò in silenzio le parole di Eldor. La fiamma silenziosa della lampada, pura e piccola come una moneta d’oro, si rifletté nei suoi occhi pensierosi. Nella stanza non si udiva alcun rumore. Il bagliore della fiammella era immobile: una piccola pozza di oro fuso che circondava la base della lampada sul tavolo, una macchia di luce dai contorni definiti.

«Che ne sarà di te?», sussurrò lo Stregone.

«Un Re ha il diritto,» replicò tranquillo Eldor, «di morire con il suo popolo. Io non diserterò la battaglia finale e, anche se volessi, non potrei mai farlo. Ora, per tutto l’amore che mi hai sempre dimostrato, fai questo per me: prendi mio figlio e portalo in un luogo sicuro. Te lo affido: adesso è nelle tue mani!»

Ingold sospirò, e chinò il capo in un gesto di rassegnata obbedienza. Il chiarore della lampada si sparse sui suoi capelli grigi.

«Lo salverò!», rispose. «Te lo prometto! Ma non puoi impedirmi di rimanere con te fino al momento in cui dovrò ubbidire al tuo ordine, quando non ci sarà più alcuna speranza.»

«Non preoccuparti di questo,» replicò aspramente il Re. «La causa è già senza speranza.»

In quell’istante, dalle profondità del Palazzo, risuonò un tonfo cupo, simile al rimbombo di un gigantesco tamburo, e Gil sentì la vibrazione diffondersi attraverso il marmo del pavimento.

Eldor raddrizzò il capo di scatto e si guardò intorno; la sua bocca si indurì in una smorfia, e la sua mano corse automaticamente verso l’elsa ingioiellata della spada. Ingold invece rimase seduto: sembrava una statua fatta di carne e di ombre.

Un secondo tonfo scosse le fondamenta del Palazzo come fossero state colpite da un gigantesco pugno. Col respiro mozzo, nel chiuso di quella pacifica stanza, tre persone attendevano che giungesse il terzo colpo; un freddo orrore fece drizzare i capelli di Gil filtrando dal silenzio sottostante, segno tangibile e strisciante di un pericolo fin troppo noto.

Ingold ruppe il silenzio.

«Stanotte non verranno,» sentenziò e, nonostante la stanchezza, aveva il tono di chi è certo di ciò che dice. «Vai dalla Regina piuttosto. E confortala!»

Eldor sospirò. Come un uomo sciolto da un incantesimo che lo avesse tenuto legato o pietrificato, il Re scosse le spalle quasi a scacciare i fantasmi della stanchezza e della fatica.

«I capi del Regno s’incontreranno fra un’ora,» si scusò e si stropicciò con forza gli occhi, cercando di scacciare con le dita le macchie scure che li cerchiavano. «Prima però dovrei parlare con le Guardie che stanno fuori delle vecchie arcate, sotto la Prefettura dell’Approvvigionamento… nel caso che non fossero sufficienti i rifornimenti. Poi mi aspetta il Vescovo… dobbiamo decidere dello spostamento delle sue truppe dalla Chiesa alla città… Ma hai ragione: dovrei trovare il tempo per andare a trovarla…»

Eldor riprese a camminare a lunghi passi: non era spinto dalla rabbia o dall’incertezza. Era semplicemente un uomo che tentava di mettere ordine in una massa di pensieri che si accalcavano uno sull’altro, sempre più veloci e pressanti, ed ai quali il suo corpo faticava a tenere testa.

Ingold non si spostò dalla sua sedia intarsiata d’avorio con i piedi dorati e curvati a forma di zoccolo di cervo. La fiamma davanti allo Stregone fluttuò come fosse guidata dalla frenetica vitalità di Eldor.

«Parteciperai al Consiglio?»

«Ho dato tutto l’aiuto e i consigli che potevo,» replicò Ingold. «Penso invece di rimanere qui per tentare di mettermi in contatto con gli altri Stregoni a Quo. Tuo figlio potrebbe non essere la nostra sola risposta… Ci sono delle registrazioni nella Biblioteca di Quo, tradizioni trasmesse da insegnante ad allievo per millenni. Il sapere e la ricerca sono le chiavi ed il cuore della Stregoneria. Tir è ancora piccolo: quando imparerà a parlare, potrebbe essere troppo tardi per poter ascoltare quello che ha da dirci!»

«Potrebbe essere tardi anche adesso…»

La fiamma si chinò al lento chiudersi della porta alle spalle di Eldor.

Ingold rimase seduto ancora un poco dopo che il Re fu uscito, in meditazione, concentrandosi sulla pura, piccola striscia di fuoco. Il bagliore si rifletteva nei suoi occhi ambrati sfiorando le nocche delle sue mani intrecciate e le dita affusolate. Mise in rilievo i segni e le cicatrici di antichi colpi di spada, ed il marchio che ancora spiccava sul polso robusto dello Stregone, traccia evidente di una ferita causata da manette, schiarita dal tempo trascorso.

Lo Stregone si stropicciò gli occhi stancamente, e fissò lo sguardo in direzione della pozza d’ombra, incorniciata dall’intricata filigrana dei pilastri dietro i quali era nascosta Gil.

«Vieni qui,» disse gentilmente, «e parlami di te. Non aver paura.»

«Non ho paura…»

Gil riuscì appena a muovere un passo esitante, e subito la luce della lampada svanì insieme all’immagine dell’intera stanza, nei nebbiosi labirinti del sonno.


La ragazza non raccontò a nessuno di quel terzo sogno: aveva tentato di parlare del secondo con un’amica che l’aveva ascoltata con studiata comprensione senza però credere ad una sola delle sue parole. In verità, neppure lei sapeva trovare una spiegazione a quella sequela di sogni, anche se ormai era quasi certa che non si trattasse di semplici scherzi del subconscio. Quel pensiero la rese inquieta.

Non si stancò di ripetere a se stessa che, non appena fosse trascorso abbastanza tempo, sarebbe riuscita a parlarne con qualcun’altro, liberandosi così da quei ricordi che la turbavano. Per il momento però, preferì serbare i suoi pensieri chiudendoli nel profondo del suo cuore.

Poi, una notte, si alzò, svegliandosi da un sonno profondo.

Non appena gli occhi le si schiarirono, si accorse di trovarsi in un cortile sotterraneo, in quella stessa città, deserta.

Case enormi la circondavano come scogliere scure, e la luce lunare riempiva la piazza proiettando chiaramente la sua ombra sul lastrico sporco e fangoso che si trovava sotto i suoi piedi nudi. Il luogo era deserto, un vero cortile di morti. La spettrale luce argentea cadeva a rischiarare la facciata orientale di un palazzo.

Gil si accorse che le sue grandi porte erano state scardinate, ed ora giacevano al suolo in pezzi sparsi. Da quella soglia vuota, un vento improvviso e sottile iniziò a soffiare, incessante, senza direzione, alzando un turbinio graffiante di foglie morte e di sterpi. La ragazza percepì, al di là delle finestre simili ad orbite vuote, un suono, uno strisciare sordo, quasi che il buio stesso si spostasse attraverso l’ombra, ronzando ciecamente e furiosamente alla ricerca di una via d’uscita.

Deglutì nervosamente; il respiro le diventò affannoso per la paura mentre guardava il cancello arcuato alle sue spalle che dava sulla strada deserta. Anche il cancello però era immerso nell’oscurità, e la ragazza provò una fredda ed irragionevole paura di attraversare le ombre raccolte sotto quell’alta volta.

Il vento aumentò, gelandola. Si diresse allora verso il cancello rabbrividendo: i suoi piedi erano di ghiaccio sul pavimento di marmo. Il silenzio di quella scena era terribile: persino la fuga chiassosa e frenetica del primo sogno sarebbe stata ben accetta. Quella volta era scivolata tra la folla impazzita che non la vedeva, ma non l’aveva lasciata sola. Adesso, terribile e misterioso, un tremendo pericolo incombeva su di lei, nascosto oltre la soglia violentata di quel palazzo. Doveva assolutamente fuggire da lì, perché stavolta non si sarebbe risvegliata: sapeva di essere già sveglia!

Si mosse ma, non appena ebbe girato il capo, ebbe la sottile e angosciosa impressione che qualcosa si muovesse dietro di lei, strisciando sul terreno nelle ombre appena sotto il muro. Proseguì senza voltarsi, ma l’oscurità sembrò seguirla, soffocando nel suo avanzare la luce della luna. Gil iniziò a correre tentando di sfuggire a quell’inseguitore oscuro che la minacciava con la sua presenza immanente eppure visibile. Frammenti di metallo e pietre taglienti ferirono i suoi piedi nudi, ma il dolore fu soffocato da quel senso incombente di terrore ingigantito dal soffio gelido del vento. La ragazza percepì più che vedere qualcosa che si muoveva nell’arco sopra il suo capo. Allora si precipitò come una folle nella strada, ed i suoi piedi insanguinati lasciarono impronte rossastre sui ciottoli che lastricavano la via.

Gil corse. Corse come mai aveva fatto in vita sua: con il fiato spezzato dal panico, attraversò le strade deserte della città, tra le rovine ed i marciapiedi silenziosi dove unici testimoni erano macerie e nude ossa umane. Ad ogni angolo nuove ombre l’attendevano, immobili pareti di oscurità che aumentavano il suo terrore. Sotto ogni cavità e dietro ogni troncone di albero, si nascondevano forme simili a quelle di mostruosi grondoni gotici.

I soli rumori che accompagnavano la sua corsa erano quelli picchiettanti dei suoi piedi nudi, e quello, affannoso, del suo respiro. I soli movimenti erano quelli da lei stessa provocati nella corsa, e quelli della sua ombra mentre, alle sue spalle, il vento e l’oscurità incalzavano scivolando in silenzio, come fumo.

La ragazza fuggì ciecamente verso le buie caverne delle vie, con i piedi e le gambe insensibili, inciampando senza sapere in cosa: la guidava un istinto, la consapevolezza inconscia che l’unica sua salvezza era costituita dal Palazzo. Lì avrebbe trovato Ingold, e lo Stregone l’avrebbe protetta e salvata!

Corse finché si svegliò.


Si aggrappò singhiozzando al cuscino inzuppato del sudore gelido del suo stesso terrore, con il corpo che le doleva, ogni muscolo provato dalla tensione e dalla paura.

Soltanto con gradualità riuscì a capire dove si trovasse, e la dolce luce lunare le mostrò gli oggetti familiari di Clarice Street fino a quel momento lontana dai suoi occhi spauriti, spersi nel confine tra due mondi.

Con un supremo sforzo di volontà, si strappò al sonno obbligandosi a pensare. Provava dolori lancinanti alle gambe, ed i suoi piedi erano addirittura di ghiaccio sotto le coperte. Cercò di fare ordine in tutta quella confusione di pensieri tentando di trovare uno sbocco razionale alle sue impressioni.

Questo è perché ho sognato di avere i piedi freddi, pensò, quindi ora non posso che avere i piedi freddi…

Con dita tremanti cercò a tentoni la lampada, l’accese, e rimase lì tremante ripetendosi l’ormai disperata, incredula, solita litania:

«È stato un sogno. Soltanto un sogno. Dio, per favore, fa che sia stato solamente un sogno…»

Nonostante continuasse a sussurrarlo non poté però liberarsi della sensazione umida ed appiccicaticcia che provava alle piante dei piedi. Si piegò su se stessa rannicchiandosi per riscaldarli, ma la vista delle dita delle sue mani macchiate di sangue, le richiamò bruscamente alla memoria il luogo nel quale si era tagliata sulle pietre frantumate, appena oltre il cancello…


Cinque notti dopo, c’era la luna piena.

La sua luce svegliò Gil d’improvviso facendola emergere dal sonno con un sobbalzo, una convulsione di paura. Poi, lentamente, la ragazza riconobbe le forme familiari — silenziose nel buio — che riempivano la sua casa, e capì che non era successo nulla: si trovava ancora nell’appartamento di Clarke Street!

Rimase immobile, al buio, sdraiata in attesa che qualcosa o qualcuno la riportasse indietro, senza alcuna possibilità di scampo, in quel mondo di incubi e paure. La luce chiara della luna si rifletteva sulla coperta accanto a lei, palpabile come un foglio di carta.

«Ho dimenticato di sprangare la porta», pensò tra sé la ragazza.

Si trattava più che altro di una formalità: l’appartamento aveva una serratura robusta, e il suo vicino era una persona tranquilla. Si trattava di una sorta di rito notturno che la ragazza compiva sempre.

Decise di non pensarci e di ritornare a dormire, ma non ci riuscì. Dopo un minuto si trascinò fuori dal letto, rabbrividendo per il freddo, e raccolse dal pavimento il suo kimono decorato con la figura di un grande pavone. Se lo infilò e si diresse silenziosamente verso la cucina. Trovò facilmente la strada al buio; tastando il muro, raggiunse l’interruttore della luce e l’accese:

Lo Stregone Ingold era seduto al tavolo della sua cucina!

Il primo pensiero di Gil fu quello di considerare, in maniera del tutto automatica, che quella era la prima volta che lo vedeva alla luce del suo mondo. Lo Stregone sembrava più vecchio, più affaticato; il suo semplice abito bianco e marrone appariva consumato, macchiato, logoro; ma il suo aspetto era sempre lo stesso, quello di un vecchio gentiluomo, l’uomo che Gil aveva sempre visto nei suoi sogni. Era il Consigliere del Re, lo Stregone che, come ricordava Gil, era avanzato verso l’Oscurità per affrontarla, mentre la lama della sua spada lampeggiava rossastra contro il buio!

È stupido, pensò, pazzesco…

E non tanto perché lo avesse incontrato di nuovo, ma per le circostanze di quell’incontro, lì, nella linda cucina del suo appartamento.

Che diavolo ci fa qui?, mormorò la ragazza dentro di sé. Se era veramente un sogno… ma Gil sapeva che non lo era.

Si guardò intorno automaticamente e scorse i piatti della sera prima ammonticchiati, ancora sporchi nel lavello. Anche il piano del tavolo era coperto da uno strato di bucce di mela, indici di libri, tazze di caffé, e fogli di carta scarabocchiati. Due vecchie magliette erano appese alla spalliera di una seggiola, una addirittura sulla stessa sedia dove sedeva tranquillo Ingold. L’antiquato orologio elettrico dietro la sua testa segnava le tre del mattino. La ragazza provò un senso di scoramento scorgendo la scena: era tutto troppo squallidamente vero per non sembrare triste e grigio, e lei, questa volta, non stava né dormendo né sognando.

«Cosa fai qui?», chiese.

Lo Stregone alzò le sopracciglia aggrottandole per la sorpresa.

«Sono venuto a parlarti», replicò.

La ragazza riconobbe immediatamente la voce e capì di averla conosciuta da sempre.

«Voglio dire: come hai fatto ad arrivare qui?»

«Potrei anche darti una spiegazione tecnica», rispose lo Stregone, ed il sorriso che illuminò per un attimo il suo viso lo fece sembrare molto giovane. «Ma che importanza ha? Ti basti sapere che ho attraversato il Vuoto per trovarti. Ho bisogno del tuo aiuto!»

«Hunhh…»

Il gemito che uscì dalla gola di Gil non era certo il genere di risposta che la ragazza avrebbe voluto dare, e nemmeno si adattava alle sue conoscenze sugli Stregoni.

«Non sarei venuto a disturbarti,» aggiunse gentilmente Ingold, «se non avessi dovuto trovarti ad ogni costo.»

«Non… non capisco,» borbottò Gil, poi si sedette pesantemente davanti all’uomo e, per farlo, fu costretta a liberare la sedia da due libri e da una pagina del calendario del Times, ma non riuscì a trattenere uno slancio di ospitalità anche se le sembrò un po’ assurdo.

«Vuoi una birra?»

«Grazie,» rispose Ingold e, dopo che la ragazza gli ebbe porto una lattina, ci armeggiò un poco intorno leggendo le istruzioni per aprirla sulla parte superiore: per essere la prima volta, se la cavò egregiamente.

«Come facevi a vedermi?», gli chiese Gil, mentre lo Stregone si scuoteva la schiuma dalle dita. «Anche quando era un sogno, anche quando nessun altro poteva, né Re Eldor, né le Guardie al Cancello, tu ci riuscivi. Come mai?»

«È perché ho familiarità con la natura del Vuoto,» disse in tono serio lo Stregone. Intrecciò quindi le mani sul tavolo accarezzando pigramente con le dita affusolate l’alluminio lucido della lattina di birra come se stesso memorizzandone la forma con il semplice aiuto del tatto.

«Avrai sentito dire che esiste un numero infinito di Universi paralleli, tutti intrappolati e conservati nella matrice del Vuoto. Nel mio mondo, nel mio tempo, sono l’unico che riesca a comprendere la reale essenza del Vuoto… uno dei pochi che possono persino mettere in discussione la sua esistenza…»

«Come hai fatto a conoscere queste cose, allora? Come hai fatto ad attraversarlo, se nessun altro nel tuo mondo le conosce?», chiese Gil incuriosita.

Lo Stregone sorrise di nuovo.

«Questa, Gil, è una storia che, per raccontarla, ci vorrebbe l’intera notte. Ti basti sapere che io sono il solo uomo nell’arco di cinquecento anni che sia stato capace di attraversare la barriera che separa il mio universo dal tuo e, avendolo fatto, sono stato capace di riconoscere l’impronta dei tuoi pensieri e della tua personalità. Sappi che questi sono stati attirati verso il Vuoto da una massiccia vibrazione di panico e di terrore che è risuonata in tutto il mio mondo. Credo invece che ci siano pochissime persone nel tuo universo che abbiano sentito attraverso la Barriera — per qualsiasi ragione psichica, fisica, o per pura coincidenza — l’avvicinarsi del Buio! Tra tutte, tu sei l’unica con la quale sia riuscito a stabilire un contatto. L’averti visto, parlato, e poi l’averti materializzato, non solo con il pensiero, ma in carne e ossa, mi ha fatto comprendere cosa stesse accadendo al Vuoto.»

Un camion passò rombando nella strada fuori della finestra, ma il suo rumore si smorzò rapidamente nella notte. Qualcuno azionò uno sciacquone in un appartamento dell’edificio, ed il gorgoglio dei tubi rimbalzò attraverso le pareti fino a spegnersi.


Gil fissò a lungo il tavolo, ed i suoi occhi notarono automaticamente centinaia di particolari, concentrandosi poi sui suoi appunti circa la manutenzione dei ponti nel Quattordicesimo Secolo. Rialzò il capo e guardò lo Stregone che stava bevendo calmo la sua birra di fronte a lei.

«Cosa mi dici del Vuoto?», chiese.

«Quando ti parlai a Gae,» rispose Ingold, «compresi che i nostri mondi dovevano essere in stretta connessione in quel periodo. Una connessione così stretta che, a causa di quella frattura psichica, colui che sogna potrebbe letteralmente percorrere la linea che divide i mondi e guardare dall’uno nell’altro. È un evento estremamente raro e purtroppo temporaneo: si è realizzata una possibilità su un milione… Comunque è una situazione che in questa emergenza viene tutta a mio vantaggio…»

«Ma perché è successo adesso, e soltanto al momento della crisi?», chiese Gil appoggiandosi al tavolo, e la luce della lampada riverberò attraverso il velo ricamato delle larghe maniche del suo chimono. «E perché è successo proprio a me?»

Ingold capì subito dal tono della voce di Gil la sua paura di essere diversa, unica, non del tutto umana. Quando rispose, la sua voce assunse un tono gentile.

«Non c’è nulla di fortuito, né esistono eventi totalmente casuali. Ma non possiamo con questo conoscere le ragioni di tutto.»

La ragazza nascose un sorriso.

«È una risposta da Stregone… semmai ne ho sentita una.»

«Vuoi dire che chi sa, ama parlare sempre a doppi sensi?»

Il suo sorriso era malizioso.

«È uno dei rischi del nostro lavoro.»

«E quali sono gli altri?»

«Ce n’è soltanto un’altro: una deplorevole tendenza ad intrometterci…»

Gil sorrise insieme a lui. Poi divenne seria e chiese:

«Ma se tu sei uno Stregone, come mai hai bisogno del mio aiuto? Quale aiuto potrei darti che tu non potresti trovare più facilmente da solo? Come potrei aiutarti contro il Nero? E poi, cos’è il Nero?»

Ingold la guardò in silenzio per qualche istante, giudicandola e saggiando la profondità di quegli occhi blu la cui luce nascondeva una tensione ed una profondità maggiori di quelle dell’oceano. Il suo viso era diventato di nuovo serio, immobile, e le rughe sembravano quasi scolpite nella sua pelle.

«Tu sai!», rispose.

La ragazza alzò lo sguardo e scorse con la mente le gigantesche porte di bronzo che scaraventavano i loro monolitici battenti; vide anche delle ombre che la rincorrevano, simili ad uno spettrale branco di lupi. Parlò senza incrociare gli occhi dell’anziano Stregone.

«Non so cosa sono.»

«Nessuno lo sa», rispose lui, «tranne, forse, Lohiro, il Capo di Quo. È una domanda alla quale non avrei mai voluto dover cercare una risposta, un enigma che avrei preferito non dover risolvere… Cosa posso dire del Nero, Gil? Cosa, che tu non sappia già? Essi sono i Signori della Notte, strappano la carne dalle ossa, il sangue dalla carne, l’anima da ogni corpo vivente, e lo lasciano vagare senza più alcuna coscienza verso la morte per inedia… Cavalcano l’aria nell’oscurità, cacciano nell’oscurità. … Soltanto il fuoco, la luce, ed una luna splendente, riescono a tenerli lontano. Capisci cosa sono?»

Gil scosse la testa, ipnotizzata dal labirinto caldo delle sue parole, imprigionata dal bagliore di quello sguardo, e dall’orrore e dal ricordo di altri più spaventósi orrori che vi scorse.

«Ma tu sai…», sussurrò.

«Dio volesse che non sapessi nulla!», sospirò Ingold, guardando ben oltre le mura della casa di Gil. Quando tornò a guardarla, la sua solita baldanzosa sicurezza era tornata nei suoi occhi senza alcuna traccia del dubbio, della paura e della ripugnanza per ciò che conosceva.

«Io… io li ho sognati…»

Gil incespicò nelle parole; per lei era diventato improvvisamente difficile raccontare quel vecchio sogno a qualcuno che sapeva.

«Prima ancora di averli visti, prima di aver saputo cosa fossero, ho sognato di una… una volta… una cantina… C’erano archi in tutte le direzioni. Il pavimento era nero e liscio come vetro. Nel mezzo di quel pavimento c’era un pezzo di granito nuovo e ruvido perché mai nessun passo lo aveva calpestato… Tu hai detto che essi vennero… dal profondo della terra…»

«In verità,» disse lo Stregone fissandola con una aperta curiosità, «sembrerebbe che tu abbia percepito il loro arrivo molto prima di chiunque altro. Questo può significare qualcosa, anche se adesso non ne posso essere sicuro… Si, era il Nero o, piuttosto, il passaggio chiuso per uno dei suoi Nidi. Sotto quel pezzo di granito — e so bene di cosa stai parlando — si nascondono scale che conducono a profondità sotterranee ed inimmaginabili. Fu con le scale che tutto ebbe inizio. Le scale ci sono sempre state; si trovano rappresentazioni che le raffigurano nelle più antiche cronache, addirittura incise su lastre di pietra preistoriche. Vi sono vasti pavimenti di pietra nera e, al loro centro, scale che scendono nel cuore più profondo degli abissi. Nessuno è mai sceso per quelle rampe — almeno nessuno, se lo ha fatto, ne è mai risalito — e nessuno ha mai saputo chi le abbia costruite. Si sussurra che furono i Titani di un tempo o gli stessi Dei della Terra; documenti quasi disfatti dal tempo ne parlano come di luoghi terrificanti, pieni di Magia. Per molto tempo furono considerati luoghi fortunati, favoriti dagli Dei, e la vecchia religione costruì templi su di essi, templi intorno ai quali nacquero le prime città del genere umano. Ma tutto ciò accadde migliaia di anni fa. I villaggi divennero paesi, poi città vere e proprie. Grandi popoli si unirono: gli Stati e i Regni si diffusero lungo le ricche valli del Fiume Marrone, sulle sponde del Mare Rotondo e dell’Oceano Occidentale, oltre che nelle giungle e nei deserti di Alketch. La civiltà fiorì e portò ì suoi frutti: la Stregoneria, l’arte, la moneta, la cultura… la guerra… Le registrazioni di quell’epoca sono così misere, da risultare quasi inesistenti: ne rimangono solamente pochi frammenti, polvere di cronache, specialmente nella Biblioteca di Quo. E il ridicolo ricordo di una civiltà che raggiunse grandi altezze e ricchezza, e dove vi era sublime bellezza e saggezza insieme ad immonda decadenza, una società che si imparentò dapprima con la Stregoneria, poi con la Chiesa e con i grandi codici della legge civile.

«Sono del tutto certo» riprese Ingold dopo un istante di pausa, «che almeno un genere di tradizione esisteva allora riguardo ai Neri: in quella lingua esisteva un termine per indicarli. Sueg… Nero… Isueg… una forma arcaica rappresentata da una sola parola. Essi però dovevano essere solo vaghe ombre che si agitavano minacciose oltre i confini di leggende ancora più antiche: la paura sottile ed insidiosa di qualcosa di terribile… E, se mai ci fu una simile tradizione, nessuno la collegò a quella delle Scale. Così essi rimasero inastati negli abissi del tempo, un antico mistero seppellito nel cuore stesso della civilizzazione.

«Non abbiamo nessuna documentazione attendibile della distruzione dell’antico mondo; sappiamo solo che accadde in poche settimane. Sappiamo anche che cosa colpì quegli antichi uomini: una folgore distruttrice di puro orrore. Ma l’orrore e la confusione furono così violenti da non lasciare alcuna traccia, nessun documento. Dal momento poi che la difesa contro i Neri implica generalmente l’uso del fuoco come arma, abbiamo sicuramente perso quel poco che avremmo potuto conoscere della loro venuta. Sappiamo soltanto che vennero… ma non sappiamo perché.

«Incapace di volare,» la voce dello Stregone si era fatta stanca, «il genere umano fuggì e si rinchiuse nei Torrioni fortificati dietro le cui massicce mura venne condotta una misera esistenza: strisciare di giorno e lavorare i campi, nascondersi di sera non appena calava il sole… Per trecento anni il Caos assoluto e il terrore l’hanno fatta da padroni sulla Terra, perché non si sapeva nulla del momento o del luogo dal quale il Nero sarebbe tornato. La civiltà si sgretolò, e della sua grande luce, non rimasero altro che tizzoni fumanti.

«Poi,» Ingold spalancò le mani mostrandole vuote come fa un prestigiatore, «il Nero non venne più! Se questo avvenne gradualmente o d’improvviso, non è dato saperlo perché, a quel tempo, soltanto poche persone erano abbastanza colte per tenere delle registrazioni precise. Dapprima piccoli villaggi sorsero al di fuori delle mura dei castelli, poi ne apparvero di nuovi sulle rovine delle antiche città i cui nomi sono stati dimenticati con il passare degli anni. Ci furono guerre, cambiamenti, e tutto questo avvenne in un lungo lasso di tempo. Le vecchie storie e le canzoni via via furono dimenticate, e la tradizione sbiadì…»

«Tremila anni sono lunghi Gil. Tu, che sei una studiosa di storia, sapresti dirmi esattamente cosa avvenne tremila anni fa?»

Gil rimase un attimo ad inseguire con la memoria quello che sapeva delle antiche civiltà. Maratona? Stonehenge? Le invasioni dell’Egitto da parte degli Hyksos?…

In quanto esperta del Medioevo, aveva solamente una pallida idea di ciò che era avvenuto prima di Costantino. Cosa sembreranno queste cose ad uno come Joe Doakes — pensò tra sé — che non è mai stato all’Università e che, tra l’altro, detesta la storia? Persino un avvenimento tragico e spaventoso come la Peste, che aveva pesantemente e violentemente inciso sulla civiltà occidentale, era soltanto un nome per l’otto per cento della popolazione… e si trattava di cose avvenute appena seicento anni prima…

Ingold annuì. Aveva raggiunto il suo scopo.

Gil si chiese come avesse fatto a sapere che si occupava di storia, ma lo Stregone riprese a parlare senza lasciarle il tempo di continuare a pensare.

«Per anni sono stato l’unico a sapere tutto, persino qualcosa dei racconti più antichi che trattano dei Neri… Sono così venuto a conoscenza del fatto che i Neri non erano completamente svaniti. Anzi non erano nemmeno diminuiti di numero. Ho sentito anche cose che mi hanno indotto a credere nel loro ritorno. Il padre di Eldor mi mandò in esilio per averne parlato: pensai che fosse di strette vedute perché l’allontanare me non avrebbe certo allontanato il pericolo, ma forse pensò che io stessi mentendo per qualche mio tornaconto personale. Eldor invece mi credette. Senza i suoi preparativi, credo che saremmo stati di certo spazzati via la prima notte della loro ricomparsa!»

«Ed ora?», chiese Gil a bassa voce.

«Ora?» I segni della stanchezza erano pesantemente incisi sul volto dello Stregone adesso che la notte stava finendo. «Non possiamo fare altro che resistere nel Palazzo di Gae. Il nucleo principale dell’esercito, sotto il comando del Cancelliere del Regno, Alwir, il fratello della Regina, è stato mandato a Penambra, dove le incursioni hanno sortito gli effetti peggiori. Di sicuro essi ritorneranno in città tra pochi giorni ma, a meno di un miracolo, sarà troppo tardi per impedire una catastrofe. Ho cercato invano di mettermi in contatto con il Consiglio degli Stregoni nella Città Nascosta di Quo, ma temo che anche loro adesso siano sotto assedio. Si sono ritirati dietro le difese del Potere e dell’Illusione ma, anche se spero ancora che riescano a resistere abbastanza a lungo da permettere a Lohiro di inviarci qualche aiuto, non vorrei che questa speranza possa mettere a repentaglio la vita dei miei amici. I difensori del Palazzo adesso hanno bisogno di me, Gil, ed anche se non posso fare molto, non tralascerò nulla d’intentato pur di salvarli. E qui intervieni tu: per questo ho bisogno del tuo aiuto!»

La ragazza lo guardò senza capire.

«Cercando di ritardare la catastrofe, potrò fare a meno di fuggire,» continuò Ingold col suo tono pacato, «ma ho bisogno di allontanare il figlio di Eldor dal mondo da cui provengo, ed è mio dovere portarlo in un luogo sicuro lontano dagli artigli del Buio, il che posso fare solo trasportandolo attraverso il Vuoto. Io però posso transitare con una relativa facilità mentre, di norma, il passaggio provoca un trauma fisico piuttosto pesante in un adulto. Per un bambino di sei mesi, anche se sotto la mia protezione, potrebbe essere estremamente dannoso dover andare avanti e indietro nello stesso giorno. Dovrò fermarmi per un poco nel tuo mondo, prima di poter tornare ancora in un luogo più sicuro del mio, insieme a lui.»

Fuori della finestra cominciarono ad apparire le prime luci dell’alba.

Gil sorrise.

«Tu hai bisogno di un posto dove rifugiarti!»

«Certo. Ho bisogno però di un posto isolato e senza troppe comodità, un posto dove trascorrere il tempo necessario in tranquillità. Ne conosci uno?»

«Potresti venire qui», propose Gil.

«No», disse Ingold scuotendo decisamente il capo.

«Perché?»

Lo Stregone esitò prima di rispondere.

«È troppo pericoloso,» si lasciò sfuggire alla fine. Si alzò dalla sedia e si diresse verso il rettangolo chiaro della finestra spingendo di lato la tenda e guardando giù nel cortile del palazzo. Il riflesso verde delle luci sull’acqua della piscina si rispecchiò sul suo volto e sui segni delle tante battaglie affrontate dallo Stregone. «Troppe cose potrebbero accadere, e non ho molta fiducia nel destino, Gil. I miei poteri sono molto limitati nel tuo mondo; se qualcosa non dovesse andare per il verso giusto, non ho nessuna voglia di dover spiegare la mia presenza e quella del bambino alle autorità locali…»

Gil si fece immediatamente un quadro mentale di Ingold, vestito come un barbuto giocatore di qualche gioco di ruolo con la sua spada al fianco dinanzi a qualche panciuto poliziotto o, peggio, circondato da una pattuglia della Polizia Stradale. No, non era possibile rischiare un incontro del genere. Non adesso, e con quella posta in gioco!

«C’è un luogo dove si va di solito per cavalcare,» disse, dopo un attimo di riflessione.

«Si?»

Ingold tornò indietro dalla finestra lasciando ricadere la tenda dietro di sé.

«Una ragazza con la quale andavo a scuola vive vicino a Barstow: è nel deserto, nell’Est. Ho trascorso un paio di settimane là non più di due estati orsono. Aveva qualche cavallo, e di solito cavalcavamo sulle colline nei dintorni. Ricordo che tra gli aranceti su una delle colline c’era una piccola capanna. Ci riparammo lì un pomeriggio durante una tempesta. Non era granché, ma c’era acqua corrente ed una stufa a kerosene. Però è isolata come hai chiesto.»

Ingold annuì.

«Si», mormorò tra sé. «Si: dovrebbe andare.»

«Io posso occuparmi del cibo e delle coperte», continuò la ragazza. «Dimmi soltanto quando ci andrai.»

«Non lo so ancora», rispose lo Stregone. «Ma farò in modo che tu lo sappia al momento opportuno.»

«Va bene.»

Sebbene fosse di solito piuttosto sospettosa, Gil non provò alcun desiderio di fargli altre domande, ma non si sentì sorpresa. Provava un istintivo senso di fiducia nei confronti dello Stregone, neanche lo conoscesse da molti anni. Ingold allungò una mano attraverso il tavolo ed afferrò la sua.

«Grazie!», disse. «Tu sei una straniera per il mio mondo, e non ci devi niente. È gentile da parte tua aiutarci!»

«Ehi!», protestò Gil. «Non devi pensare a me come una straniera. Io il tuo mondo l’ho visto, e ho visto anche il Buio! Ho anche quasi incontrato Re Eldor!»

Si fermò confusa: ricordò di colpo, provandone vergogna, l’amicizia che legava lo Stregone al Re, e c’erano fin troppe possibilità che quest’ultimo morisse nel giro di una settimana.

Ingold non diede nessun peso alle sue parole, pur accorgendosi del rossore che copriva le guance di Gil.

«So che Eldor sarebbe contento di fare la tua conoscenza, e poi tu avrai sempre la sua gratitudine e la mia per…»

Un rumore proveniente dagli ultimi scampoli di buio lo fece trasalire, e si zittì alzando la testa per ascoltare.

«Chi è?», sussurrò Gil.

Ingold si girò a guardarla.

«Temo di dover andare,» disse gentilmente. La sua voce era sempre stata tranquilla, e raramente ne era trasparsa una qualsiasi preoccupazione. Avrebbe potuto, con lo stesso tono, fare le sue scuse a causa di un precedente impegno per il té con la Regina di Numenor? Gil però sapeva che qualcosa stava accadendo aldilà del Vuoto, nel palazzo fortificato di Gae.

Lo Stregone si alzò per andarsene, e la sua spada ruppe la linea dritta del mantello. Gil non poté impedirsi di pensare al pericolo in agguato dall’altra parte del Vuoto, e lo afferrò per un braccio. Con una voce più sottile e commossa di quanto volesse, gli sussurrò:

«Stai attento…»

Il sorriso di risposta di Ingold fu luminoso come il sole.

«Grazie mia cara, puoi stare tranquilla: sono abituato da sempre a farlo…»

Poi fece pochi passi verso il centro della cucina ed alzò le mani come per scostare una tenda. Fatto ciò, sguainò la spada, e Gil scorse una luce fredda infiammare la lama, mentre lo Stregone si dileguava nella nebbia e nel fuoco dei labirinti dell’Universo.

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