«Ella era un’immagine di delizia,
quando brillò la prima volta alla mia vista.
… Ed ora scorgo con occhio imparziale
la pulsazione stessa della macchina.»
«Scusate il ritardo, gente.» Louie Guthridge Wompler, vicepresidente incaricato delle pubbliche relazioni, entrò nella sala delle riunioni saltellando sulle suole a carro armato. Sorrise agli altri tre membri del consiglio di amministrazione, ma quelli non parvero neanche accorgersene.
«Dov’eri?» chiese il presidente, Grandison Wompler. Le sue guance cascanti tremavano per l’irritazione. «Dobbiamo discutere di cose importanti.»
«Scusami, Papà.» Louie si buttò su una sedia a destra del padre. «Stavo lavorando un po’ sui miei muscoli ‘lati’. Sai, latissimus dorsi? È qui.» E si indicò l’ascella con un dito tozzo.
«Stiamo sciogliendo la società, figliolo.»
«Vedi, sto trovando una definizione molto pulita… Sciogliere la società? Ma perché, Papà? Perché?»
Grandison batté sul tavolo il mazzuolo con un rumore che sembrò un colpo di pistola. «La seduta è aperta,» borbottò.
«Cos’è ’sta storia, Papà?» insistette Louie, irraggiando suo padre con un accattivante sorriso alla Harold Teen.
«Figliolo,» cominciò il vecchio, poi si interruppe. Stava cercando un’espressione che Louie fosse in grado di afferrare. Benché avesse quarantun anni, qualche volta sembrava che fosse uscito da poco dall’adolescenza. Anzi adesso, mentre si baloccava con un estensore a molla e un barattolo di compresse di Proteine Sooper, Louie sembrava addirittura puerile… e suo padre aggrottò la fronte a quel pensiero.
I due uomini non sembravano neanche padre e figlio. Il presidente era alto, abbronzatissimo e robusto, e verso la mezza età aveva messo su un po’ di carne, acquisendo uno spessore dignitoso. Il volto era massiccio e serio, con la mascella austera e le folte sopracciglia scure. Ma intorno alla sua bocca c’erano le rughe lasciate dal riso, e gli occhi neri erano festonati di grinze miti. Senza un filo grigio tra i capelli, Grandison («Granny») Wompler dimostrava dieci anni di meno dei suoi sessantacinque.
Louie, che alcuni chiamavano «Louie il Womp,» era pallido e porcino. Riusciva in qualche modo a sembrare una copia ad acquerello di suo padre, uscita di bucato. I capelli biondi, vagamente ondulati, gli occhi lattiginosi e la carnagione che sembrava pasta per fare il pane gli avrebbero dato un’aria esaurita, se non fosse stato per la sua mole immensa. C’era qualcosa di atletico nelle spalle curve di Louie e nel suo ventre tondo; sembrava un uomo che avesse ricevuto parecchi colpi in faccia. Il naso era appiattito, e tutti i suoi lineamenti erano un po’ spianati, un po’ confusi.
Non portava cravatta, e sotto la stoffa bianca della camicia si scorgeva in trasparenza la scritta «CLUB DELLE PROTEINE SOOPER.» Il suo sorriso, mentre attendeva che il padre proseguisse, era puro e insignificante come una serie di intaccature su vetro, e altrettanto costante.
«Figliolo, non so come spiegartelo…»
«Lascia provare a me, Granny,» Gowan Dill, l’ilare e novantenne direttore della produzione, si rivolse a Louie e disse: «Tuo padre vuol dire che abbiamo agganciato il nostro carro a una stella cadente.»
«Il solito declino estivo, ecco tutto,» fece lagnoso Louie, sempre sorridendo. «Sotto Natale le vendite riprenderanno.»
«Per Natale saremo tutti falliti!» ringhiò suo padre. «Falliti!»
«Declino estivo o…»
«No, figliolo. La verità è che siamo finiti. Nessuno vuole più le Bambole che Camminano di Wompler.»
Le mani nodose di Grandison tremarono leggermente nel sollevare una bambola dal suo involucro di carta velina e nel metterla in piedi. La bambola cominciò a camminare sul piano lucido della tavola, miagolando a ogni passo. Un carillon, dentro la testa, suonava sommessamente la Marcia dei soldatini di legno.
Nessuno sapeva che cosa fosse capitato in realtà a Shelley Belle. Era stata avvolta nella carta velina, per così dire, e messa in disparte, insieme ad altri e più felici ricordi degli Anni Trenta (Al Jolson, i film di Bank Nite, la roadster Cord, l’orchestra di Paul Whiteman), come se fosse stata davvero una solare bambola dai capelli d’oro. Come nessuno voleva ricordare i veri Anni Trenta (le file per le minestre, le file per il pane, le file per i posti di lavoro), nessuno voleva ricordare la vera storia di Shelley (cresciuta, sposata, divorziata, risposata, tentativo di suicidio, particine nei film di Alfred Hitchcock). Sarebbe rimasta sempre come l’avevano vista per la prima volta, nel 1935, agitare i riccioli e sorridere con grande sfoggio di fossette a W.C. Fields o a Wallace Beery. In tutta l’America, le massaie tenevano ben strette le razioni gratuite e restavano a bocca aperta. Mentre quella bimbetta di cinque anni scrollava le spalle e ballava il tip-tap al suono della Marcia dei soldatini di legno, loro facevano schioccare la lingua sbalordite. Non era meravigliosa? Non era il tesoro più grazioso e adorabile e delizioso che esistesse? Non era una bambola viva?
Bambola. Quella parola era esplosa nel cervello di Grandison Wompler mentre assisteva a una proiezione di Heidi al cinema Belmont. Era balzato in piedi e aveva cominciato a bestemmiare allegramente, fino a quando il direttore, Ned Lambert, s’era sentito in dovere di buttarlo fuori. Granny non se l’era presa. Non gli era dispiaciuto neppure di perdersi lo Spin-O-Cash. Cos’erano, per lui, cento dollari d’argento? Dentro gli ribolliva un progetto da un milione di dollari. Andò diritto a casa e scrisse, al centro d’un foglio di carta: «BAMBOLE = DOLLARI».
Perché non fabbricare bambole come Shelley Belle, lì nella sua cittadina natale, e perché non distribuirle in tutta la nazione… in tutto il mondo? Per Dio, avrebbe guadagnato un milione di dollari, e nello stesso tempo avrebbe reso famosa Millford.
C’era stato qualche inconveniente, con il passare del tempo. Aveva già incominciato la produzione quando un’ingiunzione del tribunale gli aveva proibito di far uso del nome «Shelley Belle.» Ma Grandison aveva già creato il mercato; non aveva più bisogno del nome. In poco tempo le Bambole che Camminano di Wompler erano diventate famose per conto proprio; la sua fortuna era fatta.
Persino durante la guerra gli era andata bene. L’impianto principale venne convertito alla produzione di proiettili di mitragliatrici, mentre le presse a caldo sfornavano i copriborraccia. La società aveva vinto due premi «E». Louie si era arruolato nell’esercito ed era stato decorato della Croce del Quartiermastro. Sembra che avesse acquistato più copriborraccia di qualunque altro quartiermastro. A padre e figlio era dispiaciuto vedere che il nemico s’era arreso così in fretta.
Nel 1946 le Bambole di Wompler avevano ripreso a camminare, ma ormai rendevano molto meno. Le vendite scendevano, scendevano, via via che la gente dimenticava Shelley Belle, invecchiata e alcolizzata. Ora, vent’anni dopo, la fabbrica si era fermata. Come diceva Gowan Dill, tra strizzate d’occhio e fragili gomitate, «La produzione è arrivata in fondo, ragazzi. Il reparto occhi è chiuso. Neanche una testa rotola più sulla catena di montaggio. Tanto vale che prendiamo il resto delle nostre bambole e…»
«E le buttiamo via, lo so,» disse con voce stanca Grandison. «Lo so, lo so, lo so.» Fissava con occhi vitrei la bambola che si allontanava da lui.
La bambola aveva immensi occhi azzurri e riccioli dorati, rigidi, a salamino. Indossava un abitino pieghettato rosso-bianco-azzurro con tante stelline d’argento, e un cappellino tondo. Le ginocchia rosee segnate dalle fossette, si scorgevano appena tra la frangia argentea della gonna e gli stivali bianchi con intarsi argentei.
«Miao, miao, miao, miao, miao,» diceva.
«A me sembra bellissima, Papà,» disse devotamente Louie. Era rimasto con il pugno bloccato dentro al barattolo delle compresse di Proteine Sooper. Non gli era venuto in mente che non era il caso di infilare la mano in un barattolo stringendo un estensore. «Mi sembra un ottimo prodotto.»
«Ma non lo vuole nessuno, figliolo. Le bambine non vogliono più le Bambole che Camminano di Wompler. Vogliono le Barby. Bambole che possono vestire secondo la moda.» La sua voce si caricò di furore; diventò paonazzo sotto l’abbronzatura. «Bambole che non sono neanche capaci di muovere un passo!»
«Ehi, Papà, ho un’idea! Perché non fabbrichiamo anche noi una bambola da vestire?»
«Perché non ne sappiamo niente di moda, ecco perché. Le cucitrici di Mrs. Lumsey non sanno cucire altro che piegoline e stelline.»
«E copriborraccia,» gracchiò Dill, agitando i polsini.
Nessuno sorrideva. Grandison guardava la bambola che camminava, e sembrava sul punto di piangere; ma era un uomo forte. Louie fissava, sbigottito, la propria mano intrappolata. Moley, il presidente della seduta, si stava afflosciando sulla sedia, accingendosi a dormire.
«Mandiamo la compagnia al campeggio!» azzardò Dill. Nessuno gli rispose. «Ah, be’,» sospirò. «Proviamo a pensare.»
La bambola, sempre miagolando, arrivò in fondo al tavolo e cadde. Ci fu il tonfo d’una faccia di guttaperca contro il pavimento.
«La fine di una grande era,» mormorò con voce rauca il presidente.
Pensarono. Louie faticava a concentrarsi. Avrebbe voluto essere fuori, a fare un po’ di podismo, o semplicemente ad abbronzarsi. Voleva studiare un po’ il suo karaté. Voleva andare a casa per vedere se la posta gli aveva portato il libro che aveva ordinato: Diciassette sistemi NUOVI per uccidere un uomo a mani nude. E il libro sulla lotta Sumo.
Il guaio dei libri era che non davano la sensazione di uccidere a mani nude. Ed era anche il guaio di abitare a Millford. Non c’era nessun istruttore a portata di mano. Louie voleva imparare tutti i sistemi giapponesi di autodifesa. Voleva imparare a uccidere un uomo con lo Zen… senza neanche toccarlo, dicevano. E poi c’era il Kabuki, e c’era il terribile Origami. Oh cribbio!
Continuò a guardare fuori dalla finestra in cerca d’ispirazione, fino a quando passò sfrecciando un’auto, del colore blu dell’aeronautica. Gli ricordò gli esercizi isometrici. Poi, in qualche cantuccio del proencefalo rudimentale di Louie, un minuscolo circuito si chiuse.
«Ci sono!» gridò. «Ho un’idea!»
Dill gemette. «Basta con le idee!» disse. «Non abbiamo ancora finito di pagare quell’idea della macchina per il caffè.»
L’ultimo prodotto del genio di Louie era stata l’idea di vendere il caffè agli operai con un distributore automatico che aveva comprato e installato nella mensa, a 25 cents la tazza. Per aumentare i profitti, aveva continuato a riciclare i fondi di caffè. In questo modo, aveva pensato, il distributore si sarebbe pagato da solo. Gli operai si erano dichiarati d’accordo. Che il distributore si pagasse pure da solo.
«No, questa è un’idea con i fiocchi. State a sentire. Perché non ci facciamo dare del danaro dal governo?»
«Perché non…» ripeté suo padre, senza comprendere.
«Credo che abbia trovato davvero qualcosa, Granny!» urlò Dill. «Perché non ci facciamo dare del danaro dal governo?»
«Oh, sì, davvero,» disse Moley, raddrizzandosi sulla sedia e aprendo un po’ gli occhi. «È proprio un’idea. Perché non…»
«Perché non ci facciamo dare un po’ di danaro dal governo?» disse Louie eccitatissimo. E si sforzò per completare quel pensiero. La sua mano imprigionata nel vetro si agitò impaziente. «Dal governo… per la ricerca!»
La teste calve annuirono. «Per la ricerca, sicuro!»
«Ma non dovremmo fabbricare qualche prodotto necessario al governo?» chiese Grandison, perplesso. «Qualcosa di vitale per la difesa della nostra nazione? Qualcosa d’importante per il suo benessere? Il governo non getta via il danaro così, vero?»
Quando gli altri ebbero finito di ridere, Dill posò sulla manica di Grandison una mano esile come una zampa d’uccello. «Tu sei un sognatore all’antica, Granny,» gracchiò, ridacchiando. «Forse lo sono anch’io. Dobbiamo rivolgerci a questo ragazzo, per trovare delle vere idee. I tempi sono cambiati, sai. Questa è l’era dell’astronauta. Nei tempi andati, lo ammetto, bisognava fabbricare una corazzata o una piscina municipale… qualcosa di utile. Ma dimmi: da un punto di vista pratico, a cosa serve spedire un uomo sulla Luna?»
«Be’, credo…»
«A niente! Non ha nessuna utilità terrestre!» gracchiò Dill. «Ma, sul serio, il governo spende milioni, zilioni, per mandare un uomo sulla Luna. D’altra parte, se hai qualche idea vera e pratica da vendergli, è meglio che lasci perdere.»
«È giusto!» urlò Louie, balzando in piedi e cominciando a camminare su e giù per la stanza. «Ricordate quella volta che cercai di vendere al governo la mia idea dell’inchiostro invisibile? Latte, era, puro e semplice latte. Le spie potevano adoperarlo per scrivere i messaggi, come inchiostro invisibile. Poi lo bollivi e lo scritto appariva come per magia. Sottoposi la mia idea al Pentagono, ti ricordi, Papà?» Tornò a buttarsi sulla sedia. «Non hanno mai risposto alla mia lettera,» aggiunse con voce più sommessa.
«Il fatto è,» proseguì Dill, battendo sulla tavola la mano rinsecchita, «che se possiamo presentare al governo un progetto completamente, irrimediabilmente inutile, ci concederanno uno stanziamento per la ricerca pura.»
«E come fai a saperlo?»
«Lo so, come so che il presidente della Commissione per le Spese Industriali è il senatore Dill… mio cugino, capite?»
Grandison non si era ancora abituato all’idea. «Ma… ma su che cosa potremmo fare delle ricerche? Non abbiamo gli impianti necessari.»
«A quello pensano tutto loro, non preoccuparti,» sorrise Dill. «Laboratori di cemento armato, rifugi antiatomici, i Marines di guardia, tutto quello che vuoi. La sola cosa che dobbiamo fare è escogitare un progetto.»
«Che ne direste di un robot?»
«Niente da fare,» scattò Dill. «Abbiamo bisogno di qualcosa che sembri più semplice, in modo che gli altri membri della commissione non ci trovino niente da obiettare, ma che in realtà sia così difficile che noi possiamo impiegarci degli anni. Come un aereo più grosso e più sicuro, per esempio.»
«Ma cosa ne direste comunque di un robot?» insistette Louie.
Ignorando l’agitarsi frenetico del barattolo sotto al suo naso, Moley disse: «Allora, perché non costruiamo una macchina che sia capace di riprodursi? Ho letto di un’idea del genere su Life, proprio l’altro giorno. Una macchina che si riproduce… sembra abbastanza facile, no?»
«Ma a cosa serve?» chiese Grandison. «Oltre a fare duplicati di se stessa, che funzioni ha?»
«Un robot,» dichiarò sottovoce Louie, «potrebbe istruirmi nel combattimento Kabuki corpo a corpo.»
«Non hai ancora capito, Granny,» disse Dill, scrollando il capo con fare paterno. «Non serve a niente. Ed è precisamente questo che vuole il governo. Quello che vogliamo noi.»
«Penso che tu abbia ragione,» disse Grandison. E sospirò. «Mi sembra così disonesto.»
«Creeremo migliaia di nuovi posti di lavoro… gli scienziati, i Marines di guardia, i funzionari governativi che seguiranno la nostra attività.»
«Lo so, lo so: ma noi ci guadagneremo?» scattò il presidente.
«Milioni.»
Votarono subito. Furono tutti «sì,» intorno al tavolo, fino a Louie.
«Sì, credo,» borbottò. «Ma, ehi, Papà, cosa ne diresti di un robot? Eh, cosa ne diresti…»
Grandison tese il braccio e spaccò il barattolo con il mazzuolo. L’estensore a molla scattò, spargendo intorno schegge di vetro e pillole marroni, e liberando dalla prigionia le dita grassocce di Louie il Womp.
«Mozione accolta.»