«Gli uomini che arrischiano tutto lo fanno nella speranza di un equo guadagno.»
Il giovanotto in fondo al banco del bar non indossava abiti Western. Se non avesse avuto niente addosso, non sarebbe stato altrettanto vistoso, almeno in The El Cantina Bar di Goodtime, Nevada. L’El, come lo chiamavano i clienti abituali, era il ritrovo degli sgargiantissimi ospiti di tre ranch di lusso. C’erano le donne ovoidali e infelici del Merry Widow Rancho (in attesa di divorzio); gli uomini ovoidali e infelici del Triple-Tumplebug Ranch (in attesa di divorzio); e i vecchi queruli e sonnolenti, senza un particolare sesso, del Golden Sunset Retirement Ranch (in attesa di morire). Tra i loro colori orchidea, turchese e rossovioletto, tutte le sfumature di un tramonto dipinto, l’abito grigio e gualcito e il camice biancosporco da laboratorio di Cal spiccavano come gli escrementi di un uccello.
A furia di chiedere passaggi verso la California, era arrivato fin lì prima che il sole, la sabbia, il vento, l’asfalto lucido e il fumo dei camion lo avessero costretto a rifugiarsi al coperto.
«Un altro?» chiese il barista, alzando la bottiglia. Il suo nome, ricamato a lettere viola sul taschino della camicia color corniola, era Slim. Il cliente senza etichetta annuì solennemente.
«Ne prendo un altro. E se ne versi un altro anche per lei, Slim.»
«Oh, grazie, Carl. Alla sua.»
«Mi chiamo Cal. Senta, Slim, mi dica, chi sono tutti quei vecchi vicino al muro?»
Slim gli spiegò cos’erano i «ranch per pensionati.» «Vengono qui di tanto in tanto per divertirsi un po’, con i loro accompagnatori.» Indicò un gruppo di uomini e di donne, giovani e dall’aria annoiata, al centro del banco del bar: portavano tutti cappelli neri da cowboy e camicie di seta ocra. Sul dorso di ogni camicia era ricamato un sole che tramontava, o che sorgeva, irradiando raggi neri. I nomi degli accompagnatori erano ricamati in nero all’altezza del cuore.
«Un’altra cosa. Come mai, qui dentro, sembra fatto tutto di ruote da carro e di barili? I tavoli e i lampadari e… Da dove vengono tutte quelle ruote da carro?»
Slim si spostò lungo il banco, sorridendo, per andare a servire due donne di mezza età.
«Oh, Slim, che bestia!» strillò la donna magra dalla camicia nera e lavanda. «Sono ore che aspettiamo!»
La sua amica, piccola e rotondetta vestita di fiammante arancione, disse che Slim era un cattivo ragazzo, e aggiunse che non sapeva se voleva un Daiquiri ghiacciato o no da un ragazzo così cattivo. Non era proprio cattivo? chiese alla sua compagna.
Sullo schermo del televisore a colori apparve una sfilata nel Texas: schiere di cow-girl vestite d’azzurro cielo, con gli stivaletti bianchi che si muovevano come pistoni in passi sincroni e scalcianti. Gli uomini che venivano dal Triple Tumblebug si inumidirono le labbra e cominciarono a ridacchiare.
Cal bevve ancora. Entrarono due forestieri dalla carnagione olivastra. Il più piccolo era alto come Cal, il più grosso era un gigante. Portavano abiti in stile Palm Beach, con le spalle imbottite e cappelli di panama dalla tesa stretta. I loro occhi, comunque, sembravano in ombra. Cal li avrebbe scambiati per poliziotti, se non avesse visto che bevevano, e per giunta whiskey tolto dallo scaffale più alto. C’era qualcosa di familiare, nell’uomo più grosso…
«Un altro, Carl?» Slim gliene versò un altro, prelevò un adeguato quantitativo di moneta dal mucchietto che Cal aveva davanti e aggiunse un altro scontrino alla pila bene ordinata. Un aumento… o era una diminuzione di entropia… oppure era entalpia? Cal cercò di ricordare il dottor Trivian e la Valutazione della Termodinamica, ma i suoi pensieri correvano in ellissi…
Guardo i vecchi lungo la parete, che sonnecchiavano sopra il cribbage o le tabelle del Monopoli e le birre. Di tanto in tanto, qualcuno si svegliava leggermente, diceva qualcosa di stizzito, e poi si riappisolava senza aspettare la risposta.
Il più alto dei due nuovi arrivati, aveva voltato la schiena, ma il più basso si era materializzato a fianco di Cal. «Mi scusi, signore,» disse timidamente. «Il mio amico e io abbiamo fatto una scommessa. Io dico che lei è un medico, e lui sostiene che guida un camion frigorifero pieno di carne. Le dispiacerebbe dirmi chi ha ragione?»
Cal sorrise con modestia perversa. «Per la verità, sono un biofisico. Quindi mi sembra che ci sia andato più vicino lei.»
«Molto interessante.» Lo sconosciuto si esplorò un orecchio con il grosso indice. «Immagino che ne sappia parecchio di matematica, eh?»
«Bingo!» strillò un vecchio di sesso imprecisato, che sedeva davanti a una tavola da cribbage.
Con una certa riluttanza, Cal ammise di avere una vaga conoscenza del Calcolo.
«Capisco. Be’, la ringrazio di avermi fatto vincere la scommessa.» Lo sconosciuto si allontanò, prima che Cal potesse chiedergli come si chiamava il suo compagno più alto. Gli venne in mente «Tennessee», e anche un paio di scarpe da tennis. Per il momento, Cal optò per Dennis Shoe.
Poi si accorse che tutto questo lo stava gridando quando Slim si girò verso di lui e gli sorrise. «Ruggisca un po’ più piano, Carl, vecchio amico.»
«Hai barato!» squittì qualcuno lungo la parete. «Da dove viene fuori quell’albergo, eh? Dimmelo un po’!»
«Bada a come parli,» rispose una voce tremante. «Io ho Via dei Giardini e Parco della Vittoria, e per Dio, devi pagarmi l’affitto!»
«Per favore,» disse una vecchia dalla camicia scarlatta. «Andy può tirare di nuovo, no?»
Si rovesciò un bicchiere di birra. «Ecco, guarda cosa mi hai fatto fare! Tutte le carte degli Imprevisti rovinate!»
«Te lo faccio vedere io chi è che bara!» strillò un vecchietto dall’alto sombrero bianco e dalla camicia di un rosa carico. Il suo gozzo andava convulsamente in su e in giù, sopra il fazzolettone da collo verde. «Tieni!» Balzò in piedi e strappò via la coperta dalle ginocchia dell’avversario, facendo cadere alcune schede. «Ahah!» gridò. «Colto sul fatto, eh? Ecco qui che fine avevano fatto tutte le stazioni, eh?»
Il colpevole, un uomo che sembrava un pappagallo arancione e blu, raccolse un segnalino squadrato di legno rosso e glielo tirò contro. «Prenditi il tuo albergo e vai all’inferno!» ululò. Arraffò la tabella e la rovesciò, spazzando via alberghi, case, dadi e segnalini. «Hai barato anche tu!»
«…tirare di nuovo, no, Edna?»
«Barato! Ah! Imbroglione!»
«Te lo dò io il baro, per Dio!» strillò l’uomo dentro al sombrero. Impugnò un bastone e cominciò a mulinarlo intorno. «Mi avete imbrogliato tutti! Mi avete imbrogliato tutti!»
Al banco del bar ci fu un certo movimento nel gruppo degli accompagnatori. Un giovanotto si girò sullo sgabello. Sopra il taschino, Cal gli lesse il nome. «Dott. Michaels.» Attraversò la sala in tre balzi e strappò il bastone dalla mano del vecchio.
«Andiamo, Toby. Andiamo Toby, è solo un gioco,» disse.
Il vecchio roteò gli occhi e piagnucolò: «Mi state imbrogliando tutti!»
Il dottore estrasse dalla fondina la pistola nera dal calcio di madreperla, appoggiò la canna sul braccio di Toby e premette il grilletto.
I due sconosciuti dalla carnagione olivastra s’infilarono la mano dentro la giacca.
Toby si rilassò visibilmente, e il suo borbottio si affievolì. Il dottor Michaels tirò indietro la pistola. Cal vide che era di plastica nera. Poteva sembrare un giocattolo, se non fosse stato per quelle due dita di ago lucente che sporgevano dalla canna. Il dottore fece rientrare l’ago e infilò l’arma nella fondina.
«Scusate il fastidio,» disse, sogghignando alla folla in generale. I due forestieri estrassero le mani dalle giacche e risero scioccamente. Il dottor Michaels e un altro accompagnatore calarono il vecchio privo di sensi in una sedia a rotelle. Cal vide che anche quella aveva ruote da carro.
«E lei cosa sarebbe?» disse a Cal una donna vestita di violaceo. «Il dottorino di campagna? A cosa serve quel camice bianco?»
«In Giappone,» cercò di dire lui, «il bianco è il colore del lutto.»
«In Sapone,» disse invece, «il banco è l’odore di prosciutto.»
Le labbra imporporate della donna sorseggiarono il cocktail. Con evidente soddisfazione, lei disse: «Non mi racconti frottole! Lei non è mica un dottore! È solo un facchino del mercato delle carni. Perché non se ne torna alle sue zampe di porco?»
Cal scosse il capo, poi si guardò i piedi, cercando di capire cosa avesse inteso dire la donna. «Perché non…»
«Che schifo!» urlò quella, spruzzando in giro saliva. «Che schifo! Tutto eguale a mio marito! Cribbio, era un vero mascalzone! Si sporcava le camicie apposta! Veniva a casa con le scarpe sudicie e girava per tutte le stanze. Buttava quella lurida cenere in tutti i portacenere di casa. Be’, ne ho avuto abbastanza di quel porco e ne ho abbastanza anche di lei!»
Il cocktail della donna era gelido e schiumoso di panna. L’impatto costrinse Cal a indietreggiare alla cieca di qualche passo. Rimbalzò contro un tavolo e cadde. Dall’alto, delle facce lo guardarono, rosse e arrabbiate. Quattro o cinque voci blaterarono tutte insieme, quello lì le dava fastidio, signora? quel giovanotto ubriaco dovrebbe essere sotto le armi, mica a far finta d’essere un dottore. Un numero imprecisato di mani rimise in piedi Cal.
«È quasi ora che se ne vada, Carl, vecchio amico,» borbottò Slim, girandolo verso la porta.
«Mi chiamo Cal,» implorò lui. «Le farebbe piacere se io la chiamassi Scim, eh?»
«Ah, la mettiamo così, allora?» Slim pestò un pugno sulla testa di Cal e l’afferrò per la collottola: l’altra mano si infilò dietro la cintura. «L’avevo capito che avrebbe creato guai, nel momento che è entrato.»
La porta volò verso di loro.
Cal sfrecciò attraverso la porta, rimbalzò a quattro zampe, e poi rotolò e si fermò contro un muro di mattoni.
Il vicolo era inondato dal chiaro di luna. Cal rimase sdraiato per un po’, cercando di orientarsi. Vide un certo numero di bidoni della spazzatura, un manifesto che annunciava una Quadriglia delle Sedie a Rotelle dal Golden Sunset Ranch, e un suo piede privo di scarpa.
Si alzò a fatica e si aggirò zoppicando fino a quando trovò la scarpa perduta. Quando ebbe finito di vomitarci dentro, se la infilò.
Camminare su due gambe era difficile, perciò Cal avanzò a quattro zampe verso l’ingresso del vicolo. I due sconosciuti vestiti secondo lo stile di Palm Beach lo stavano aspettando. Senza una parola, lo raccattarono e lo scaraventarono sui sedili posteriori di una macchina. Benché fosse troppo buio per vederci bene, Cal era sicuro che si trattava di una Cadillac berlina, nera. L’uomo più basso salì accanto a lui, mentre l’altro si infilava al volante. Ricordava decisamente a Cal qualcuno dei suoi compagni di scuola di due settimane prima. Ma chi? Non Barthemo Beele. E neanche Mary Junes…
«Dove andiamo?» chiese, sforzandosi di tirarsi su a sedere. Lo sconosciuto lo respinse sul sedile e sfoderò una pistola.
«Per la verità, signore, l’abbiamo rapita. Il Professore ci ha dato ordine di sequestrare un matematico.»
«Che professore? Io voglio vedere la quadrisedia che balla a rotiglia.»
«Si metta questo sugli occhi, prego.» L’uomo gli consegnò una fascia di stoffa nera.
«Anche quella pistola lì ci ha l’ago dentro?»
Gli altri risero abbondantemente. «Giusto,» ringhiò l’autista. «Un ago per farti dormire… per un pezzo. A meno che preferisci il grande sonno, è meglio che tu faccia quello che ti diciamo noi. In questo racket noi facciamo sul serio: chi perde non becca niente, chiaro?»
C’era qualcosa di familiare in quella voce, pensò Cal; ma ormai la benda era a posto. Partirono.
Cinque minuti più tardi, dopo una serie complicata di giravolte, si fermarono e i due lo spinsero a un edificio.
«Bene, bene, bene,» tuonò una voce cordiale. «Abbiamo già compagnia, eh? Credo che questo sia il nostro matematico.» Cal immaginò un capo gangster con il sigaro in bocca che si stropicciava le mani. «Toglietegli la benda e guardiamolo in faccia.»
La benda fu tolta e Cal si trovò davanti a una bionda florida dalla faccia simpatica, con una cuffia in testa e una camicia da notte di flanella. Sembrava uscita da un quadro fiammingo, ma per la verità, al posto della candela aveva in mano una bottiglia di scotch e un bicchiere. «Benvenuto a Castel Rackrent!» tuonò. «Vuol bere qualcosa?»
A Cal si contrasse lo stomaco. «Io non… non credo. Lei è… il Professore?»
«Me? Ahah, benedetto, andiamo, io sono Daisy, fidanzata del Professore e sua ex segretaria. Quello è il Professore.»
La bionda si tirò da parte, rivelando un uomo magro e fragile, seduto sul divano. I capelli radi, color pomice, erano disposti in strisce polverose sulla calvizie. Sembrava impegnatissimo a scrivere con una penna d’oca su di un vecchio librone sciupato, così enorme che gli nascondeva gran parte del corpo, anche se Cal vedeva le gambe penzolanti che non toccavano il pavimento.
«Lieto di conoscerla,» disse Cal.
«Lieto di…» gracidò l’altro. Ma Daisy gli si mise di nuovo davanti come un sipario, e quello si azzitti.
«Il suo vero nome è Brian Gallopini,» disse Daisy, versandosi un bicchiere di liquore. «Ma nel mondo della malavita tutti quelli che hanno un’istruzione universitaria vengono chiamati ‘Professore’, vede.»
«Allora non lo è davvero?»
La bionda bevve il suo quarto di litro e se ne versò un altro. «Oh, sì, è professore davvero. Di letteratura del diciottesimo secolo. O lo era. Io ero la sua segretaria. Decidemmo di scappare e di metterci a fare i gangster, quando lui ebbe la sua idea… ma questa è un’altra storia. Mi chiamo Daisy le Duc e, se è furbo, lei deve resistere alla tentazione di chiamarmi ‘Daisy Duck’, perché quello è il nome di Paperina.» Per un attimo la gaiezza svanì dal suo sorriso, poi ritornò a piena forza. «Adesso completerò le presentazioni, così lei potrà pulirsi la terra e il sangue dalla faccia, e potremo vederla bene.
«Questi due sono i collaboratori delle attività criminose del Professore: Mr. John Beaumains, conosciuto come Jack lo Squartarore, per ragioni che nessuno riesce a indovinare, e ‘Harry lo Scimmione’, il cui vero nome è…»
«Harry Stropp!» L’esclamazione sfuggì dalle labbra di Cal, che proprio in quel momento s’era voltato e aveva riconosciuto il suo rapitore.
Harry, poiché era veramente lui, sbirciò sbalordito la faccia incrostata di sporcizia e di sangue. «Calvin Potter!» gridò. «Che cosa ci fai tu qui?»
«Potrei rivolgerti la stessa domanda. Harry, ti sei dato a una vita di crimine?»
Dalle spalle di Daisy si levò una voce stridente. «Sono queste combinazioni a provar l’esistenza di ciò che viene chiamato Destino, e che presiede al nostro universo ‘casuale’. Ne prenderò nota nel mio diario.» La penna d’oca scricchiolò.
«Non preoccuparti,» disse Harry con voce bassa e confidenziale, «anche se mi hai portato via Mary Junes. Oh, per un po’ ci sono rimasto male, lo ammetto, ma ormai mi è passata. Ci sono tante altre mele sull’albero.»
«Bene,» ridacchiò Daisy. «Non teniamo Mr… Potter, vero? Mr. Potter in piedi per tutta la notte. Domattina dobbiamo partire tutti molto presto per Las Vegas. Quindi penso sia meglio che le spieghi perché l’abbiamo sequestrata.
«Il Professore ha ideato un sistema complesso e infallibile per vincere alla roulette. Da un punto di vista simbolico, ci prepariamo a espugnare Las Vegas. Questo sistema non può fallire. Entro la settimana prossima, dovremmo avere le chiavi della città, da un punto di vista pratico.»
«Ma io cosa c’entro?»
«Esattamente!» pigolò il Professore. «Cosa c’entra lei? Sembra che il mio sistema sia perfetto in teoria… cioè, nel complesso è perfetto. Ma i calcoli per piazzare ogni puntata sono troppo complessi per noi. Ed è qui che entra in scena lei, il nostro genio matematico.»
«Sono molto lusingato, naturalmente, ma…»
«Portalo via, Harry,» disse Daisy, con un gesto imperioso. «Chiudilo nel bagno, per stanotte, e stai di guardia alla porta.»
«Ma…»
«Tu, muoviti.» Harry trascinò Cal fino al bagno, lo scaraventò dentro, e lo chiuse a chiave.
Non c’erano finestre. Cal cominciò a camminare avanti e indietro, studiando gli infissi, in attesa che gli altri si addormentassero. Poi si chinò e bisbigliò al buco della serratura:
«Harry! pst! perché non mi lasci uscire? Fammi questo favore, ti prego.»
Harry rise, e la sua risata pareva un rauco latrato. «Fare un favore a te? Questa è grande. E dopo tutto quello che tu hai fatto a me.»
«Senti, Harry, ti chiedo scusa per…»
«Oh, non fraintendermi. Di Mary Junes non m’importa più niente. Niente. L’ho dimenticata. Voglio dire, ci sono tanti altri biscotti nella scatola. Ma… fare un favore a te! Questa è proprio grande.»
Cal si raggomitolò dentro la vasca da bagno e cercò di dormire. Di tanto in tanto, Harry emetteva un altro latrato strozzato. «Cribbio! Questa è proprio grande. Fare un favore a lui!»
La mattina dopo i cinque partirono per Las Vegas. Cal non venne bendato, e poté quindi vedere che il motel dove aveva trascorso la notte si trovava proprio di fronte a The El Cantina Bar.
Mentre lui covava i postumi della sbronza, gli altri quattro incominciarono un’animata conversazione sulla natura dell’universo, interpretata tramite l’opera della coincidenza.
Daisy sosteneva che nella coincidenza si deve vedere la mano della Divinità. Ricordò numerosi casi di date di nascita simultanee, di albinismo, di persone colpite dal fulmine o dalle meteore, e gli strani risultati degli esperimenti del dottor Rhine.
Jack ammise che non aveva torto. Harry riconobbe che le coincidenze, a quanto pareva, capitavano davvero.
Brian Gallopini rispose che sarebbe stato blasfemo imputare alla Divinità le frane nelle miniere, le collisioni di aerei in volo che uccidevano i bambini, gli smarrimenti degli assegni delle assicurazioni da parte delle povere vedove.
Harry continuò a sostenere che gli incidenti capitavano davvero.
Daisy si richiamò alla narrativa del secolo decimottavo. Citò varie coincidenze in Tom Jones e in Humphrey Clinker. Se quelle erano opere degli autori (Fielding e Smollet), perché le coincidenze della Vita non dovevano avere un Autore (Dio)?
«Tuoni e fulmini!» imprecò Brian. «Stai cercando forse di dirmi, o donna, che tu ed io altro non siam che marionette, mosse dal capriccio d’un buffone di romanziere? Puah! Tu puoi creder ciò che più t’aggrada, ma sappi che io son un libero agente. Io comando alla mia mano di muoversi, ed essa si muove. Vedi?» Ed eseguì.
Daisy rise. «Sì, ma solo perché eri destinato a comandarle di muoversi. Tu sei comandato dall’Autore di Tutto.»
Ma il Professore piombò in un tetro silenzio e rifiutò di rispondere. Ormai si cominciavano a scorgere alcuni degli edifici più alti e dei cartelloni pubblicitari più grandi di Las Vegas.
Il Professore offrì a Cal una presa di tabacco da fiuto Bergamot, poi incominciò a spiegargli il suo ingegnoso sistema per puntare alla roulette.
«Ogniqualvolta il giocatore perde la posta,» disse, concitato, «la raddoppia alla puntata susseguente. Poiché è giocoforza che ogni serie casuale obbedisca alle leggi immutabili del Destino, la prima puntata vincente dovrà più che compensar d’un sol colpo tutte le di lui precedenti perdite.»
Cal gemette tra sé, ma non disse niente, ricordando che era un ospite… e prigioniero.
«Gli è un sistema complesso, ma infallibile,» concluse Gallopini. «Eppurtuttavia rivela l’ordinato funzionamento dell’universo. E l’universo è ordinato. Affermar che non sia è credere nella magia. Tanto dir varrebbe che l’uomo di quell’insegna avviarsi potrebbe a camminare nel deserto.»
L’insegna che aveva indicato era una immagine gigantesca d’un cercatore minerario, sopra a un casinò. In una mano l’uomo teneva una ciotola di pepite, mentre l’altra si muoveva in su e in giù, in un gesto di richiamo. Era una delle insegne più famose della città, e di notte si vedeva a parecchi chilometri di distanza.
Sotto gli occhi del gruppo inorridito, sembrò che l’uomo muovesse un passo. Daisy urlò, con la sua profonda voce di baritono, mentre il Professore sbiancava come una parrucca incipriata del Settecento.
«Ah, non è niente. Sta solo cascando. Forse l’abbattono,» disse. Videro l’insegna afflosciarsi e disintegrarsi, con un certo sollievo. Una coincidenza sconvolgente, ma non sovrannaturale. Gli altri si tranquillizzarono, ma Cal rimase irrigidito a fissare l’orizzonte.
«Credo di sapere quello che succede,» mormorò. In lontananza, un’altra insegna crollò, mentre le piccole scatole grige le brulicavano sopra, come formiche. «È meglio che giriamo la macchina e che filiamo a tutta velocità nella direzione opposta.»
«Non dica asinaggini!» esclamò il Professore. «Io son qui giunto per far la mia fortuna, e certo non mi volgerò in fuga al suo comando. Freni la lingua, signore!»
«Torna indietro! Ti prego!» disse Cal a Harry, che stava al volante.
«Per fare un favore a te, immagino,» fece quello, beffardo.
«Ascoltatemi. In questa città si sta aggirando una cosa… un’arma segreta sfuggita al controllo. Non so come abbia fatto ad arrivare fin qui, ma sembra proprio che si sia impadronita di Las Vegas. Ne sono sicuro. Credetemi, rischiamo la vita se entriamo in città.»
«Bubbole e fanfaluche!» scattò il Professore. «Io non le credo, signore. Ma, acciò che lei non possa accusarmi d’esser io iniquo, potremmo arrestarci ad un telefono e chiamar laggiù. Potremmo così prenotar le stanze, e nel contempo dimostrare che l’assurda sua teoria non ha il benché minimo fondamento. Fermati a quel telefono laggiù, Harry. Fermati, ho detto!»
Ma la macchina passò oltre la cabina. Anzi, aumentò di velocità. «Non riesco a tenerla,» disse Harry. «È come se le avesse preso qualcosa. Lo sterzo è bloccato, e c’è una specie di… di cavo che ci tira avanti.»
Erano ormai abbastanza vicini alla città per vedere la distruzione, e torme di sagome a forma di scatola che brulicavano sulle facciate sventrate degli edifici e sulle insegne.
«Cosa facciamo?» urlò Daisy.
«Non possiam far nulla,» disse sottovoce il fidanzato, battendo le dita sul coperchio della tabacchiera. «Parrebbe che noi si debba continuamente accelerare sin quando urteremo qualcosa e probabilmente morremo. Tu puoi prepararti ad incontrare il tuo Autore, mia cara. Ora, poiché forse ancor ci resta un minuto o due, propongo che Mr. Potter ci dica alcunché di codesta prodigiosa macchina.»