«Fermo là, Marocco.»
Mentre aspettava il suo nuovo collega, Suggs ammazzava il tempo scrivendo un’altra cartolina alla moglie. Ne scelse una con gli incantatori di serpenti al mercato di Dar El Fna. «Cara Madge,» scrisse. «Mi diverto sempre molto, anche se tu e Susie mi mancate tanto. Con affetto, Bubby.»
Si chiese se era il caso di aggiungere che a Marrakech le trattative per le assicurazioni andavano per le lunghe (l’attività di assicuratore era la sua copertura), ma decise di non farne niente. Probabilmente Madge pensava che lui se la stesse spassando con le ragazze dell’harem. E sarebbe stato davvero così, se Suggs non avesse avuto una paura pazza delle malattie veneree. Ricordava ancora troppo bene i documentari della CIA sulla sifilide terziaria e sulla gonorrea avanzata…
Un brontolio nello stomaco ricordò a Suggs che il Vicino Oriente aveva in serbo altri malanni per gli incauti. Adesso era pentito di non aver portato con sé una scorta di generi alimentari. Quel giorno Suggs aveva fatto quindici corse al bagno, e le aveva segnate sul suo diario con una specie di torva soddisfazione.
Non sapeva con certezza quale dei passeggeri in arrivo fosse il nuovo collega, ma alla fine puntò sul giovanotto magro con la visiera, che si stava liberando di una torma di ragazzini.
«Lei è Green?» mormorò Suggs, passandogli accanto.
«Eh?»
Suggs gli passò accanto di nuovo. «Lei è Mr. Green?»
«Oh, lei deve essere Mr. Gray.»
«Esatto. Però i miei amici mi chiamano Suggs. B. Suggs. Perché quella visiera?» Suggs si girò per squadrare apertamente il nuovo collega. «Qual è la tua copertura? Immagino che potresti dire di essere un allevatore di pecore, venuto a cercare qualche raro capo da riproduzione.»
«Mi chiamo Beele, Barthemo Beele. Sono ai suoi ordini, Mr. Suggs, ma…»
«Solo Suggs, prego.»
«Suggs, io non so che genere di corruzione dilaghi in questa città, ma vorrei fare del mio meglio per stroncarla. Sai cosa mi è appena capitato? Uno di quei bambini ha cercato di vendermi qualcosa che, ne sono sicuro, era una droga!»
Suggs prese la valigia di Beele e si avviò verso la carrozzella. Quando si furono seduti, diede al cocchiere il nome dell’albergo e si girò verso il nuovo agente per impartirgli saggi consigli. «Non badare a quei piccoli straccioni. Te li trovi sempre intorno e cercano di venderti le sorelle, l’hashish, i fratelli, le madri, il kif e via discorrendo. Ti ci abituerai.»
«Abituarmici! Spero proprio di no! È una vergogna e un delitto! Non hanno un ispettore scolastico, da queste parti? Quei bambini dovrebbero essere a scuola. Ho intenzione di scoprire i capi della malavita che stanno dietro a questa storia. Ma, come dicevo, qui il responsabile sei tu…»
Suggs scrollò con forza la testa e indicò il cocchiere. Per un po’ si scrutarono l’un l’altro in un silenzio infranto solo dallo scalpiccio del cavallo lungo un viale scenografico d’alberi di mandarini, e dai brontolii dolorosi dell’addome di Suggs.
Beele si vedeva di fronte un uomo abbronzato, dal collo taurino, dai capelli un po’ grigi tagliati a spazzola e dai lineamenti regolari che era difficile tenere a mente. Suggs dimostrava una quarantina d’anni e sembrava un ingegnere petrolifero; non c’era niente che lo distingueva dagli uomini comuni, tranne gli occhi freddi e opachi e una sottile cicatrice bianca sulla fronte. Dunque quello era l’aspetto degli uomini della CIA al lavoro!
Si chiese come se la sarebbe cavata lui, nella CIA. Occorrevano intelligenza, coraggio, curiosità e onestà? Barthemo ne aveva da vendere… ma aveva anche quel qualcosa d’indefinibile che distingue l’agente della CIA da tutti i comuni mortali?
Quando Barthemo Beele aveva due anni, era stato abituato a servirsi di uno sgabello con vasino che veniva tenuto in un armadio, davanti al quale pendeva una tenda. Quel piccolo segreto, con la sua aura di vergogna, lo aveva interessato tanto che si sentiva spinto a sollevare la stoffa e a guardarlo una dozzina di volte al giorno. In seguito si era reso conto che la sua curiosità aveva avuto origine da quell’episodio. Infatti, il piccolo «Themo» aveva preso la sciagurata abitudine di sollevare tutte le stoffe pendenti per guardare sotto. E dopo aver sollevato la gonna d’una visitatrice, moglie di un vescovo, «Themo» aveva ricevuto la prima solenne battuta della sua vita.
Eppure, come se il suo motto fosse Video, ergo sum, Barthemo aveva continuato a sollevare le stoffe pendenti ed a guardarci sotto, e non sapeva resistere alla tentazione di farlo. Era capace di alzare l’angolo di una tovaglia e di fissare le gambe del tavolo, affascinato, arrossendo per il senso di colpa e di uno strano piacere che non sapeva definire.
Era diventato un ragazzino magro dedito ai pettegolezzi, che aveva la mania di formare delle società segrete insieme agli amici, e di scrivere sulle staccionate quelle che sperava fossero parole oscene: VERGOGNA, ORGANISMO e soprattutto AMORE. Un giorno, per caso, sollevò una coperta e sotto ci trovò due organismi che facevano l’amore: sua madre e un uomo che non era suo padre.
Barthemo si affrettò a raccontarlo al padre, il quale lo ringraziò per l’informazione prendendolo a sculaccioni e chiudendolo in camera sua per un giorno intero. Quando pensò che il bambino avesse imparato la lezione, Beele padre si calmò e lo fece uscire… a condizione che badasse agli affari suoi. In effetti, Barthemo a quell’epoca si faceva già degli affari: vendeva informazioni alla polizia. Per compensi che andavano da cinque cents a un quarto di dollaro, diceva quali membri di quali società segrete rubavano le gomme da motocicletta ai benzinai e le riviste agli empori. In seguito, contro compensi più consistenti, passava informazioni sui furti di automobili e sui topi d’appartamento. Continuò così anche alle medie superiori, quando i suoi doveri di cronista scolastico gli portavano via gran parte del tempo libero. Quando partì per il college, la polizia gli fece un dono in danaro, e gli disse che era «Il miglior piccolo spione che abbiamo mai avuto.»
Un giorno, pensò Beele mentre la carrozzella procedeva per Boulevard Mohammed V, un giorno lui avrebbe scritto un libro in difesa degli informatori della polizia: Mi chiamavano spione. «Perché,» avrebbe scritto, «coloro che rischiano la vita smascherando assassini, ladri, spacciatori di droga, e tutti gli elementi corrotti e viziosi della nostra società, coloro che compiono il loro dovere di cittadini (poiché la mancata denuncia di un reato è un reato a sua volta) sono considerati dalla società con odio e disgusto?»
In quanto a Suggs, si vedeva davanti un giovanotto magro e nervoso, sul quale la visiera, con il cartellino STAMPA infilato nella banda elastica, sembrava un’inutile affettazione. Suggs si divertì a immaginare coperture più adeguate per Beele. Con un lindo abito scuro e una valigetta ventiquattr’ore, avrebbe potuto passare, forse, per un commesso viaggiatore dell’IBM. Oppure poteva farsi crescere la barba, così sarebbe sembrato uno di quegli eccentrici dei Corpi della Pace… un branco di fanatici comunisti. Fanatismo, ecco: quell’aria da giovane-vecchio, la freddezza della sua faccia e il piglio del vero fantico… quello era Beele. Suggs si chiese cosa ci sarebbe voluto per indurre Beele a uccidere un uomo. Quel ragazzo poteva diventare un killer passabile, con un’adeguata istruzione da parte di Suggs: magari niente di speciale, come Killer. Suggs si chiese quanto tempo sarebbe passato prima che lui fosse costretto a uccidere Beele.
«A proposito,» disse. «Non azzardarti a mangiare niente o a bere l’acqua di qui. Sto cercando di farmi mandare un carico di viveri e di acqua dall’America. La roba che hanno qui ti ammazza.»
«Dissenteria?»
Quasi per rispondergli, lo stomaco di Suggs brontolò. Ma poi si accorse che non era il suo stomaco: era quello di Beele.
Il giovane annuì, tetro. «Ce l’ho anch’io. Deve essere stato quel sandwich e quel caffè che ho preso prima di partire dagli Stati Uniti.»
Mentre Beele firmava il registro e riempiva il modulo della polizia al banco dell’albergo, Suggs prese una cartolina con gli incantatori di serpenti al mercato di Dar El Fna. «Cara Madge,» scrisse. «Mi diverto sempre molto, anche se tu e Susie mi mancate tanto. Con affetto, Bubby.» La consegnò al sorridente concierge, e ricevette in cambio la chiave della sua camera e una grossa lettera arrivata per via aerea. Era dell’avvocato di Madge. Non c’era bisogno di aprirla.
«Non è giusto!» bisbigliò, cacciandosi la lettera in tasca. «Farmi causa di divorzio proprio adesso! Be’, non ho tempo di preoccuparmene, ecco tutto.» Però si morse le labbra, pensando alle possibili conseguenze che la cosa poteva avere per la sua carriera. Nella CIA, gli uomini con problemi coniugali non venivano promossi.
Appena nella stanza, Beele si abbandonò su un divano mentre Suggs andava avanti e indietro, spiegando la loro missione. Prese un lungo coltello a lama curva e ci giocherellò mentre parlava.
«I francesi stanno per lanciare un nuovo missile da queste parti… Non sappiamo ancora dove. Lo chiamano Le Bateau Ivre, e ho scoperto il nome dell’astronauta… un giovane pilota dell’aviazione francese che si chiama Marcel Brioche. Mi è costata uno dei miei uomini migliori, questa informazione.» Le budella cominciarono a brontolare tra dolori cocenti, e Suggs riprese a camminare come una belva in gabbia.
«So che il lancio avverrà presto, ma non so in quale posto nei dintorni di Marrakech hanno nascosto l’astronave. Perciò il nostro primo obiettivo consisterà nello scoprire la data e il luogo esatto del lancio.
«I francesi hanno due buone ragioni per tenerlo segreto. Innanzitutto,» e si spuntò le unghie con il coltello, «hanno un nuovo supercarburante, migliore di tutti quelli che abbiamo realizzato noi fino ad ora. Noi lo vogliamo, e lo vuole anche la Russia. Solo che noi ci teniamo di più ad averlo, e ti spiegherò perché. È roba così ‘calda’ che i soli ugelli che la reggono sono fatti d’un materiale chiamato reuttite. E l’unico posto al mondo dove si trova la reuttite è…»
«Nel Nevada!» esclamò Beele. Poi, pensando alle scatole lucenti che aveva visto il giorno prima, si chiese se la reuttite c’era davvero ancora, nel Nevada. «Ne facevano le reticelle per le lampade a gas e…»
«Già, già, vedo che sei già stato informato. Be’, i francesi da anni continuano a comprare segretamente vecchie reticelle per lampade a gas, preparandosi a questo coup.
«Il che ci porta alla seconda ragione per cui tengono segreta la missione.» Suggs decapitò un’altra unghia. «Pensiamo che stiano cercando di mandare un uomo sulla luna. E questo significa che se ne faranno forti… con conseguenze atroci per il resto del mondo. Capisci cosa voglio dire?»
Il ragazzo lo guardò meditabondo. «No, credo proprio di non capire,» ammise.
Suggs ringhiò. «Cosa ti succede, sei scemo o cosa? La Francia sulla Luna significa qualcosa di più di un semplice tricolore sul Mare Nubium. Significa che la Francia diventerà padrona della Terra! Ti piacerebbe diventare schiavo della Repubblica Francese, eh? Immagina come si ridurrebbe il mondo: tutti i ristoranti appestati dall’aglio e tutte le strade intasate da quelle automobiline di latta. Ti costringeranno a mangiare le lumache anziché cibo decente, come una bistecca con patatine fritte. Non potrai nemmeno procurarti più una Coca-cola… ti costringeranno a bere quel loro vino schifoso! Musei d’arte da froci! Birra imbevibile! Sigarette che si sbriciolano! Niente deodoranti maschili!»
Suggs girò su se stesso e scagliò il coltello contro la porta. Nonostante la forma goffa, la lama ruotò su se stessa e si piantò fremendo nel legno. «Ecco quello che penso io dei Mangiaranocchie!» gracchiò l’uomo.
«E cosa dobbiamo fare, impedire il lancio alla Luna?» chiese Beele quando trovò il coraggio di respirare.
«Solo come estrema risorsa. C’è un altro sistema, credo. Il razzo che hanno progettato dovrebbe avere una capsula biposto, ma partirà un francese solo. Ora, noi dobbiamo convincerlo a portare con sé uno di noi, in modo che possiamo ‘studiare gli effetti del nuovo carburante’ e avanzare ulteriori diritti sulla Luna. Il guaio è che i russi stanno cercando di fare lo stesso. In città ce ne sono due, Vovov e Vetch.»
«Dovrebbe essere facile convincerlo a mettersi con noi, anziché con quelli,» opinò Beele. «Non vedo cosa si può trovare a ridire, quando si tratta di scegliere tra la democrazia e il totalitarismo.»
«Già, già, e il capo ha autorizzato un pagamento per un quarto di milioni di dirham, anche,» disse Suggs, pensieroso. «Cinquantamila dollari, sarebbero. Spero che Mosca non offra di più.»
«Corromperlo? Hai intenzione di corromperlo?»
Suggs fissò con aria incredula il suo nuovo assistente, chiedendosi se era possibile essere tanto ingenuo. Le sue meditazioni vennero interrotte da un urgente, bruciante messaggio dei suoi intestini.
Quella sera andarono in un piccolo motel alla periferia della città, affacciato sui Monti dell’Atlante, per vedere Marcel Brioche. Era un giovanotto simpatico dal bel volto immobile, che indossava l’uniforme di gala dell’Aeronautica francese. Un’ombra di sorpresa e di irritazione gli passò sul viso, ma poi sorrise.
«Buonasera, Monsieur Suggs,» disse. «Stavo giusto per andare fuori a cena. Per cosa voleva vedermi?» Stava ritto sulla soglia, e non li aveva invitati a entrare.
«Se conosce il mio nome, forse sa anche cosa voglio,» scattò Suggs.
«Calma, calma. Non ho tempo per le schermaglie. I miei amici possono arrivare da un momento all’altro…»
«Sarò breve, Brioche. Noi rappresentiamo il governo degli Stati Uniti, come lei sa già, senza dubbio. Siamo disposti a trattare…»
«Io no. Bon soir.»
«Aspetti. Le chiediamo solo di portare con sé uno dei nostri uomini, come osservatore. Non abbiamo nessuna intenzione di interferire con il suo volo sulla Luna… se collabora con noi. Sappiamo che l’astronave può ospitare due persone. Che male c’è a prendere a bordo un… un autostoppeur?»
«Un autostoppista? Parliamo inglese, se non le spiace: e un inglese molto chiaro. Lei mi chiede perché non ci tengo a collaborare con il suo governo. Benissimo, glielo dirò.
«Quando ho sentito parlare per la prima volta di Le Bateau Ivre, tre anni fa, stavo per sposarmi. L’astronave era stata progettata per portarci tutti e due in luna di miele. Ma due anni fa, quando i lavori di costruzione dell’astronave erano progrediti al punto che era impossibile rinunciarvi, lei mi lasciò.»
«Mi dispiace,» disse Barthemo Beele. «Capisco quello che prova. Anche mia moglie mi ha appena piantato.»
«Che strana coincidenza! Io ho appena ricevuto gli atti del divorzio,» ridacchiò Suggs. «Ma sono cose che capitano. Perché non si è trovato un’altra ragazza?»
«Lasci che le racconti quello che è successo. L’uomo per cui la mia fidanzata mi aveva lasciato era un ufficiale di collegamento dell’aeronautica americana presso la NATO a Parigi. Ha avuto una breve relazione con lei e poi l’ha scaricata. Ufficiale di collegamento… drôle, eh? Aveva avuto un breve legame con lei, capisce?» L’astronauta aveva gli occhi pieni di lacrime. Tuttavia non piangeva: sorrideva minacciosamente. «La mia fidanzata si è buttata dalla Torre Eiffel. Vuole sapere perché non l’ho rimpiazzata? La risposta è ovvia, direi. Nessuna potrà mai sostituirla. Ah, ecco qui i mei amici.»
Brioche indicò un taxi che si stava fermando davanti al motel. A bordo c’erano Vetch e Vovov. Brioche calzò i guanti bianchi.
«Ma lei non capisce!» esclamò Beele appassionatamente. «Noi nazioni libere dobbiamo collaborare nello spazio, non farci concorrenza! Dobbiamo unirci per battere la Russia totalitarista.»
«Direi che lo spazio è abbastanza grande per contenere tre grandi nazioni,» mormorò il francese, con un blando saluto militare.
«Cosa ne direbbe di duecentocinquantamila dirham, Brioche?» chiese Suggs, disperatamente.
«Non mi offendo solo perché so come stanno sempre le cose, per voi americani. Cercate sempre di comprare l’onore degli altri. E lo fate, naturalmente, perché voi non ne avete. Bonsoir, messieurs.»
Si allontanò con un gesto noncurante, lasciando aperta la porta della sua stanza. «Non è ancora finita!» gli urlò dietro Suggs. I due agenti russi avevano sorrisi che arrivavano da un orecchio all’altro, quando il loro taxi prese a bordo il terzo passeggero.
«Ci vediamo, Suggs,» esclamò Vovov, facendo un gesto osceno.
Vetch, un ometto dalla barba da erudito e i modi pensosi, se ne stava zitto, lasciando che fosse Vovov a parlare. Vovov riusciva a parlare sempre, allegro e persuasivo, anche quando, come adesso, aveva la bocca piena di toast e caviale. Parlava in inglese, su richiesta di Brioche.
«Caviale e champagne!» gorgogliò Vovov. «Caviale e champagne! L’uno proveniente dalle gelide viscere dello storione del Baltico, l’altro dalle pallide, temperate, ombrose colline della Francia. Si accordano perfettamente, come si accordano Francia e Russia. Ognuno è di per sé perfetto, ma la combinazione è…» Poiché non trovò le parole adeguate, afferrò un altro toast caldo e lo spalmò di caviale.
«Gli americani,» disse, riempiendosi la bocca e soffocandosi un po’. «Gli americaniff sono porciff! Porciff!»
«Eh?» L’astronauta in realtà non gli prestava attenzione, e lasciava sgassare il suo champagne. Ne aveva già bevuto troppo e, come sempre, lo faceva precipitare tra i pensieri malinconici dell’unica persona con la quale avrebbe voluto bere champagne.
«Ffsuini! Sono tutti… mi scusi… suini!» disse Vovov.
«Suini? Sì, esattamente.» Brioche pensò all’uomo che aveva tolto la vita alla sua amata… il suino che si chiamava generale Grawk.
Solerte, il cameriere che era fierissimo del suo scarso inglese portò loro dell’altro champagne. «Encore bouteille de suino, messieurs?» E lo versò prima che potessero rifiutare.
«Gli americani non conoscono l’amore,» proseguì Vovov. «Loro hanno solo i supermarket e le superstrade. Fabbriche e vita di massa. Puah!» E spalmò il caviale. «Qual è la loro arte? Il fumetto. I canti dei lavoratori negri, rubati e cantati dagli sfruttatori bianchi. I film western. Non è bastato loro di sterminare i poveri indiani, no, dovevano anche glorificare il loro genocidio. L’indiano deve continuare a cadere dal suo cavallo, per soddisfare la sete di sangue dei decadenti imperialisti. Bah! Mi ricordo un film, La battaglia di Comanche Arroyo, dove facevano la stessa sequenza un sacco di volte: si vedeva un indiano che continuava a cadere morto da cavallo. Speravano che il loro pubblico depravato non lo notasse.»
«Era quel film con John Wayne?» chiese Brioche, interessato.
«No, credo che fosse… me lo sono scordato. Ma vede, era quello dove il colonnello vuole restare a tenere il forte, ma il capitano, quello giovane che è innamorato della moglie del colonnello… Be’, lui…»
«Oui, oui, je… lo ricordo benissimo!» esclamò l’astronauta. «E poi il capitano porta uno squadrone verso Comanche Arroyo, anche se sa che sarà la morte certa, che verranno tutti massacrati, perché sa che in questo modo darà al forte il tempo necessario per mandare a cercare i rinforzi!»
«Ricorda le sue ultime parole?» Vovov cominciò a piangere, mentre riempiva di nuovo i bicchieri di champagne. «’È la cosa di gran lunga migliore che io abbia mai fatto, e ora andrò a ricevere la ricompensa più grande’. Ah, anche un uomo forte si sente commuovere, di fronte a un discorso così.»
«Ah, sì. Un film meraviglioso.»
Dopo alcuni minuti di silenzio assorto, Vetch parlò. «A costo di rovinare il nostro piccolo festival cinematografico,» disse in tono asciutto, «devo pregarla di ritornare all’argomento principale della nostra conversazione. E cioè, Marcel Brioche, è disposto a portare con sé un osservatore russo nel suo viaggio alla Luna? Non le offriamo un compenso, un prezzo materiale… questo modo di comportarsi lo lasciamo agli americani. No, noi possiamo offrirle solo la consapevolezza di contribuire al rovesciamento dell’imperialismo e all’espropriazione degli espropriatori.»
Brioche scosse il capo. «No, non posso aiutarla. Io sono per la Francia, solo per la Francia. L’unica persona che avrei voluto portare sulla Luna con me… è lontana, lontana, al di là della Luna, ormai. Andrò da solo.»
Si alzò e si congedò, chiuso in un desolato silenzio.
In russo, Vetch disse: «Ho paura che dovremo ucciderlo. Peccato che non lavori dalla parte giusta. È un tipo onesto.»
Notò che Vovov stava guardando nel vuoto, con gli occhi rossi e un’espressione vacua dipinta sul viso. Vetch gli diede una gomitata.
«Non prendertela così,» disse. «Ricordati, siamo agenti segreti. Non possiamo permetterci di fare amicizia con i nostri commensali, proprio perché può darsi che dobbiamo ucciderli. Un agente non ha amici. Dobbiamo essere pronti a sacrificare chiunque…»
«Ssst!» disse Vovov, la faccia larga contratta per l’irritazione. «L’avevo quasi ricordato… il nome dell’attrice che faceva la parte della moglie del colonnello. Era Virginia Mayo? No…»