CAPITOLO PRIMO

— Servizio di bordo! — esclamò l'alfiere in fila con Miles, quattro teste più avanti. I suoi occhi brillarono d'eccitazione nel correre al resto degli ordini, sul sottile foglio di plastica frusciante che aveva fra le mani. — Sono destinato all'Incrociatore Imperiale Commodoro Vorhalas, come ufficiale di prima nomina addetto alle armi. Subito a rapporto allo scalo spaziale della Base Tannery per il trasferimento in orbita. — E con un saluto scattante d'orgoglio e una contorsione poco militaresca si scostò per lasciare via libera all'uomo che lo seguiva, fischiettando fra i denti tutta la sua soddisfazione.

— Alfiere Plause. — L'anziano sergente seduto alla scrivania riuscì a esibire un'espressione superiore e annoiata allo stesso tempo, mentre con deliberata lentezza sollevava fra il pollice e l'indice la busta successiva. Da quanto tempo, si chiese Miles, svolgeva quel lavoro all'Accademia Militare Imperiale? Quante centinaia, o migliaia, di giovani ufficiali erano passati sotto il suo sguardo indifferente nel momento supremo della loro carriera? Possibile che finissero per sembrargli tutti uguali, dopo qualche anno? Le stesse uniformi verdi, nuove e impeccabili. Gli stessi nuovi e impeccabili rettangoli di plastica azzurra dei gradi, appena applicati agli alti colletti rigidi. Le stesse espressioni ambiziose provenienti dalle scuole di lusso che sfornavano i funzionari del Servizio Imperiale, con la testa piena di sogni e visioni di gloria militare. Noi non marciamo verso il futuro: lo prendiamo all'arrembaggio.

Plause si fece da parte, premette il pollice sul sigillo a impronta digitale e aprì anch'egli la sua busta.

— Be'? — chiese Ivan Vorpatril, l'alfiere davanti a Miles nella fila. — Non tenerci in sospeso.

— Scuola di lingue — disse Plause, continuando a leggere.

Plause parlava alla perfezione tutte e quattro le lingue in uso su Barrayar. — Come studente o istruttore? — domandò Miles.

— Studente.

— Ah. Lingue galattiche, allora. E poi si farà avanti il Servizio Segreto. Sarai destinato su altri pianeti, poco ma sicuro — pronosticò Miles.

— Non necessariamente — disse Plause. — Potrebbero sbattermi fra quattro pareti di cemento chissà dove, a programmare computer finché mi si consumeranno gli occhi. — Ma sul suo volto splendeva una luce di speranza.

Caritatevolmente Miles non gli ricordò l'aspetto più sgradevole del Servizio Segreto: prima o poi si finiva per lavorare sotto il Capo della Sicurezza Imperiale, Simon Illyan, l'uomo che non dimenticava niente. Ma forse a un novizio come Plause sarebbe stato risparmiato il contatto personale con quell'aspro individuo.

— Alfiere Lobachick.

Lobachick occupava il secondo posto assoluto nella lista di persone zelanti che Miles avrebbe potuto stilare; di conseguenza non fu sorpreso quando appena aperta la busta lo vide sorridere con acre entusiasmo. — Sicurezza Imperiale. Corso avanzato di tecniche di sorveglianza e prevenzione attentati.

— Oh, guardia del corpo di palazzo, allora — commentò Ivan con interesse, sbirciando da sopra la spalla del compagno.

— È un privilegio — aggiunse Miles. — Di solito Illyan accoppia i novellini con gente che ha vent'anni di servizio e lunghe file di medaglie sul petto.

— Forse l'Imperatore Gregor ha chiesto a Illyan qualcuno della sua età — ipotizzò Ivan, — tanto per migliorare il panorama. A me quei fossili dalla faccia di pietra, che Illyan gli mette attorno, rovinerebbero la digestione. Non fargli vedere che hai il senso dell'umorismo, Lobachick: lo riterrebbe un punto a tuo sfavore.

Se era così, rifletté Miles, Lobachick non avrebbe rischiato di perdere il posto.

— Pensate che starò a contatto con l'Imperatore? — chiese Lobachick a Miles e a Ivan, con un'occhiata nervosa.

— Probabilmente ti toccherà stare a guardarlo ogni giorno mentre fa colazione — disse Ivan. — Povero ragazzo. — Si riferiva a Lobachick o a Gregor? A Gregor, decise Miles fra sé.

— Voialtri Vor, che lo conoscete… che tipo è?

Prima che la scintilla negli occhi di Ivan si trasformasse in una battuta maliziosa, Miles s'affrettò a intervenire: — È molto franco e spontaneo. Ti troverai bene.

Lobachick si avviò verso la porta, all'apparenza almeno un po' rassicurato, rileggendo il suo foglio d'ordini.

— Alfiere Vorpatril — chiamò il sergente. — Alfiere Vorkosigan.

L'alto e robusto Ivan prese la busta che gli veniva consegnata; Miles ebbe la sua, ed entrambi si spostarono fuori dalla fila.

Ivan tirò fuori il foglio di plastica. — Ehilà! Sono richiesto dal Quartier Generale Imperiale a Vorbarr Sultana. Per tua informazione, mio caro, hai di fronte il futuro aiutante di campo del Commodoro Jollif, Reparto Operazioni. — S'inchinò cerimoniosamente e ripiegò il foglio. — Comincio domattina, in effetti.

— Oh-oh — disse l'alfiere che era stato destinato al servizio di bordo, ancora eccitato e fremente. — Ivan diventerà una perfetta segretaria, allora. Ma stai attento quando il generale Lamitz ti farà sedere sulle sue ginocchia, cocco. Ho sentito dire…

Ivan gli allungò uno scherzoso pugno nello stomaco. — Invidia, sordida invidia. Io potrò permettermi gli agi di un civile: orario dalle sette alle cinque, appartamento in città e ragazze… bene quest'ultimo, devo puntualizzare, di cui purtroppo tu farai a meno, lassù sulle navi. — La sua voce era allegra e indifferente, ma gli occhi non riuscivano a nascondere la delusione. Ivan avrebbe voluto essere destinato sulle navi. Tutti l'avevano desiderato.

Anche Miles. Servizio a bordo. E alla fine un comando, come mio padre, e come mio nonno, e il padre di mio nonno… Un desiderio e una preghiera, un sogno… ed esitò ancora un poco, per autodisciplina, per paura, per concedersi un ultimo momento di rosee speranze. Poi appoggiò il pollice sul sigillo e aprì la busta, con deliberata precisione. Alcuni permessi di viaggio, un solo foglio di plastica… la sua compostezza durò solo i cinque secondi che gli occorsero per assorbire il breve paragrafo scritto su di esso. Congelato dallo stupore sbatté le palpebre e lo rilesse di nuovo.

— Allora cosa bolle in pentola, ragazzo? — chiese Ivan, da sopra una sua spalla.

— Ivan — disse Miles con voce rauca, — sono io che ho una amnesia, oppure di corsi di meteorologia non ce ne hanno mai fatto fare neppure uno, fra le materie scientifiche?

— Ricordo qualcosa, alle lezioni di Matematica pentaspaziale. E a Xenobotanica. — Ivan si grattò pensosamente la mandibola. — Anche a Geologia e valutazione del terreno. Be', c'è stato quel corso sul clima atmosferico, il primo anno.

— Sì, ma…

— Insomma, si può sapere cosa ti hanno fatto, stavolta? — chiese Plause, pronto a offrirgli tanto le sue congratulazioni quanto le condoglianze, a seconda del caso.

— Sono stato nominato Capo dell'Ufficio Meteorologico alla Base Lazkowski. Dove diavolo è la Base Lazkowski? Non l'ho mai sentita nominare!

Il sergente seduto alla scrivania si volse, con un sogghigno improvvisamente satanico. — Io sì, signore — disse. — Si trova su un'isola chiamata Kyril, dalle parti del circolo polare artico. Base d'addestramento invernale per la fanteria. Quelli di servizio lassù la chiamano Campo Cessofreddo.

Fanteria? - si stupì Miles.

Ivan, perplesso e aggrondato, inarcò le sopracciglia. — In fanteria? Tu? Questo non mi sembra giusto.

— Già, neppure a me — disse debolmente lui. E lo invase la gelida consapevolezza dei suoi handicap fisici.

Anni di arcane torture mediche avevano ormai quasi corretto le gravi deformità con cui Miles era venuto al mondo. Quasi. Rattrappito come un ranocchio durante l'infanzia, ora poteva almeno camminare in posizione eretta. Le sue ossa, un tempo friabili come il gesso, avevano assunto robustezza. Da omuncolo rachitico era riuscito a crescere fino a raggiungere il metro e cinquanta di altezza, anche se verso la fine s'era trattato di scegliere fra la lunghezza delle sue ossa e la loro capacità di resistenza, e i dottori erano stati dell'opinione che gli ultimi dieci centimetri fossero un errore di cui si sarebbe pentito. Miles s'era già fatto spezzare le gambe abbastanza volte da essere d'accordo con loro, ma la sua decisione era stata presa: qualunque cosa, pur di non sembrare un mutante… e della forza delle ossa gli importava poco: se un aspetto decente poteva consentirgli di lavorare al servizio dell'Imperatore, lui avrebbe cercato di far dimenticare la sua debolezza. I dottori non avevano saputo dargli torto.

Dovevano esserci migliaia di posti nel Servizio dove la sua statura e la sua fragilità non avrebbero avuto alcuna importanza. Aiutante di campo, ad esempio, o traduttore, o in un Reparto Informazioni. O perfino ufficiale alle armi imbarcato su una nave, ai computer della centrale di tiro. Questo dovevano averlo saputo, sicuramente c'era chi poteva capirlo. Ma… la fanteria? Qualcuno stava facendo un gioco sleale. O si trattava di un errore. Non sarebbe stata la prima volta. Esitò alcuni lunghi secondi, col foglio stretto in pugno, poi si diresse alla porta.

— Dove stai andando? — gli domandò Ivan.

— A parlare col maggiore Cecil.

Ivan si accigliò ancor di più. — Ah, sì? Buona fortuna.

Era un sorrisetto quello che il sergente nascose dietro la busta successiva, sollevandola con la punta delle dita come se fosse contaminata? — Alfiere Draut — chiamò. La fila si spostò avanti di un altro posto.


Il maggiore Cecil era seduto sul bordo della scrivania di un suo impiegato e stava consultando qualcosa su uno schermo, quando Miles apparve sulla soglia dell'ufficio e salutò facendo sbattere i tacchi per richiamare la sua attenzione.

L'uomo si girò e lo vide; guardò il suo orologio. — Ah, meno di dieci minuti. Ho vinto la scommessa. Pagami — disse, restituendogli il saluto. L'impiegato tolse di tasca un portafoglio sottile, lo rese ancor più sottile estraendone una banconota da un marco, piegò gli angoli della bocca in un triste sorriso e la consegnò al superiore senza commenti. L'espressione dell'ufficiale era divertita soltanto in superficie; accennò col capo verso la porta; l'impiegato raccolse la striscia di plastica che il computer aveva stampato e uscì dalla stanza.

Il maggiore Cecil era sulla cinquantina, snello, equilibrato e con due occhi attenti. Molto attenti. Benché non fosse il Capo del Personale, titolo che spettava a un ufficiale di grado superiore, Miles aveva capito già molto tempo addietro che lì era solo lui a prendere le decisioni. Dalle sue mani passavano anche praticamente tutti gli incarichi a cui erano destinati gli allievi una volta usciti dalla scuola. Miles lo considerava aperto e disponibile, un insegnante e uno studioso prima ancora che un militare. Un'intelligenza arguta, il buonsenso e la dedizione al suo lavoro erano doti che lo avevano sempre indotto a fidarsi di lui. Fino a quel momento.

— Signore… — disse. Poi agitò il foglio degli ordini con un gesto vibrante di frustrazione. — Che cosa significa questo?

Negli occhi di Cecil c'era ancora una luce divertila mentre ripiegava e intascava la banconota da un marco. — Mi sta chiedendo di leggerlo per lei, Vorkosigan?

— Signore, io chiedo di… — Miles s'interruppe, strinse i denti e moderò il tono della voce. — Signore, avrei alcune domande circa la mia destinazione.

— Ufficio Meteorologico, Base Lazkowski — recitò il maggiore Cecil.

— Non è un… uno sbaglio, allora? Non mi è stato consegnato il foglio di qualcun altro?

— Se sopra c'è il suo nome, è sua anche la destinazione.

— Lei è… voglio dire, si rende conto che di meteorologia non ne so niente, a parte il corso sul clima del primo anno?

— Me ne rendo conto — annuì il maggiore, imperturbabile.

Miles tacque qualche istante. Ma se Cecil aveva fatto uscire l'impiegato, era un chiaro segno che la discussione poteva essere franca. — È una specie di punizione? Di cosa mi sono reso colpevole, signore?

— Via, via, alfiere — disse Cecil, con ostentata flemma, — a me sembra un incarico del tutto normale. Si aspettava forse qualcosa di straordinario? Il mio lavoro consiste nel soddisfare, coi candidati a nostra disposizione, le attuali richieste di personale. Tutte le richieste, ovviamente.

— Questa avrebbe potuto essere soddisfatta da qualsiasi scuola per l'addestramento professionale. — Miles fece uno sforzo per non inasprire il tono, ma aveva stretto i pugni. — E ancora meglio. Non è necessario un cadetto dell'Accademia per quel posto.

— Sì, è vero — fu d'accordo il maggiore.

— E allora perché io? — sbottò Miles. Stavolta la voce gli uscì più alta di quel che avrebbe voluto.

Cecil sospirò, massaggiandosi la schiena. — Perché ho notato, Vorkosigan, tenendo un occhio su di lei… e lei è il più tenuto d'occhio fra i cadetti passati fra queste mura, a parte l'Imperatore Gregor…

Miles rispose al suo sguardo annuendo seccamente.

— … che malgrado le brillanti capacità dimostrate in alcune cose, in altre lei ha confermato una debolezza cronica. E non mi riferisco ai suoi problemi fisici che tutti, a parte me, ritenevano tali da impedirle di portare a termine perfino il primo anno di studi. Devo dire che è stato sorprendentemente abile nell'evitare le conseguenze dei più pesanti corsi di addestramento…

Miles scrollò le spalle. — La sofferenza è sofferenza, signore. Io non me la vado a cercare.

— Già. Ma le debolezze di cui sto parlando si localizzano… come potrei dire… fra i problemi della subordinazione. Lei tende a discutere il parere dei superiori.

— Nossignore, non è vero! — esclamò Miles, indignato. Poi chiuse la bocca.

Cecil lasciò balenare un sogghigno. — Come volevasi dimostrare. Inoltre lei ha l'irritante abitudine di rivolgersi agli ufficiali di grado elevato quasi che fossero, uh… — Fece una pausa, di nuovo alla ricerca della parola giusta.

— Uguali? — azzardò Miles.

— Bestiame — lo corresse seccamente Cecil, — bestiame che lei mira a pungolare e dirigere a suo piacimento. Lei è un manipolatore di natura, Vorkosigan. Da ormai tre anni la osservo, e ho avuto modo di vederle mettere in atto delle dinamiche di gruppo affascinanti. Che lei sia o no al comando, in qualche modo alla fine è sempre la sua idea che viene presa e portata avanti.

— Vuol dire che sono stato… irrispettoso, signore? — Miles sentì un vuoto allo stomaco.

— Al contrario. Data la sua provenienza, è anzi notevole che lei sopprima così bene quella certa, uh, vena di arroganza. Tuttavia, Vorkosigan — e qui Cecil divenne finalmente serio, — l'Accademia Imperiale non è il Servizio Imperiale. Lei è riuscito a ottenere la stima dei suoi compagni perché qui si apprezza puramente l'ingegno. Ed è stato prescelto da ogni squadra a cui servisse uno stratega per la stessa ragione grazie a cui viene lasciato fuori quando occorrono doti fisiche: questi giovani bramano onori e vittorie. Ogni volta possibile. Costi quel che costi.

— Se non usassi il cervello non potrei sopravvivere, signore!

Cecil si strinse nelle spalle. — Non le do torto. Ciò malgrado dovrà imparare anche a dare ordini a uomini che non usano molto il cervello. E a ricevere ordini da loro!

«Questa non è una punizione, Vorkosigan, e non corrisponde alla mia idea di uno scherzo. Da una mia scelta può dipendere non solo la vita di un ufficiale alla prima esperienza, ma anche quelle degli innocenti sottoposti a cui lo infliggo. Se sbaglio i calcoli e sopravvaluto le capacità di un uomo, metto in pericolo sia lui che quanti gli stanno accanto. Ora, fra sei mesi il Cantiere Imperiale Orbitale dovrebbe varare, salvo ritardi e imprevisti, il Principe Serg.

Miles trattenne il fiato.

— Vedo che afferra l'idea — annuì Cecil. — La più aggiornata, veloce e micidiale astronave che Sua Maestà Imperiale abbia mai mandato nello spazio. E quella col maggiore raggio d'azione. Andrà lontano. E resterà lontano, in crociere più lunghe di quante ne siano mai state fatte. Di conseguenza quelli che faranno servizio a bordo si staranno sui piedi a vicenda per periodi più lunghi che in passato. L'Alto Comando, in effetti, sta prestando molta attenzione ai profili psicologici del personale in lista d'imbarco.

«Adesso mi ascolti bene. — Cecil si protese avanti. Miles fece lo stesso, d'istinto. — Se lei tiene pulito il suo fascicolo personale per almeno sei mesi in un posto così scomodo e isolato… in altre parole, se riesce a farcela con Campo Cessofreddo, io darò per scontato che saprà cavarsela in tutte le altre normali difficoltà del Servizio. E sosterrò la sua domanda d'imbarco sul Principe. Ma se fa tanto di sgarrare, né io né altri potremo fare niente per lei. È nuotare o affogare, alfiere.

Volare, pensò Miles. Io voglio volare. - Signore… fino a che punto è davvero un cesso questa base?

— Sciocchezze. Non si lasci fuorviare da un soprannome scherzoso, alfiere Vorkosigan — disse Cecil, pietosamente.

Certo. Ma non è un nome che lei darebbe alla sua tenuta di campagna. - Sì, signore. Però… in fanteria? I miei limiti fisici non dovrebbero essere d'ostacolo, se tenuti nel debito conto, ma non posso far finta che non esistano. In caso contrario mi converrebbe cascare in qualche buca fin dall'inizio, finire all'ospedale e far risparmiare tempo a tutti quanti. — Dannazione, perché mi hanno fatto occupare un prezioso posto nella più costosa scuola di Barrayar per tre anni, se volevano solo mandarmi a crepare in un buco sperduto? - Voglio dire, ho sempre supposto che questi limiti sarebbero stati presi in considerazione.

— Quella di ufficiale meteorologico è una specializzazione tecnica, alfiere — lo rassicurò il maggiore. — Nessuno la costringerà ad ammazzarsi sui percorso di guerra carico di uno zaino da campo. Dubito che esista un ufficiale disposto a spiegare all'ammiraglio perché un Vorkosigan viene rispedito a casa in una bara. — La sua voce si fece improvvisamente fredda. — Una bara che non occuperebbe molto spazio sull'aereo. Adatta a un mutante.

Cecil non aveva pregiudizi; lo stava solo mettendo alla prova. Sempre prove. Miles abbassò la testa. — Potrei esserlo, come potrebbero esserlo quelli che discenderanno da me.

— Ci ha pensato, vero? — Lo sguardo di Cecil assunse una luce speculativa, e di vaga approvazione.

— Da anni, signore.

— Mmh. — Il maggiore ebbe l'ombra di un sorriso, poi saltò giù dalla scrivania e gli porse la mano. — Buona fortuna, allora, Lord Vorkosigan.

Miles gliela strinse. — Grazie, signore. — Piegò il foglio e rimise nella busta i permessi di viaggio.

— Qual è la sua prima tappa? — domandò Cecil.

Un'altra prova. Doveva essere un riflesso connaturato in lui. Miles fu svelto a rispondere: — L'archivio dell'Accademia.

— Ah!

— Per una copia del manuale del Servizio Meteorologico. E altro materiale necessario.

— Molto bene. Comunque, l'ufficiale che lei deve sostituire starà sul posto per un breve periodo, finché lei non si sarà orientato.

— È un vero sollievo saperlo — disse Miles, con convinzione.

— Non stiamo cercando di renderle le cose impossibili, alfiere.

Solo maledettamente sgradevoli. - È un sollievo sapere anche questo, signore. — Il saluto con cui Miles si accomiatò fu quasi degno di un buon subordinato.


Miles fece l'ultimo tratto del percorso per l'isola Kyril a bordo di una grossa navetta atmosferica automatica, insieme a un annoiato pilota di riserva ed a ottanta tonnellate di rifornimenti. Aveva trascorso la maggior parte di quel viaggio solitario sfogliando freneticamente il materiale meteorologico di cui disponeva. E poiché il programma di volo aveva subìto lunghi ritardi per il carico nelle due ultime tappe, quando la navetta rullò sulla pista della Base Lazkowski poté consolarsi con la constatazione che era riuscito a studiare molto più del previsto.

I portelli della stiva si aprirono, lasciando entrare la debole luce di un sole che indugiava stancamente presso l'orizzonte. La brezza di fine estate poteva vantare cinque gradi abbondanti sopra il punto di congelamento dell'acqua. I primi militari che Miles vide furono una squadra di uomini in tuta da fatica nera, addetti ai carrelli, al comando di un caporale dall'aria pigra che sali a farsi consegnare le bolle di carico dal pilota. Dallo sguardo con cui si sprecò a constatare la presenza di un passeggero, Miles dedusse che l'incaricato di accogliere il nuovo ufficiale meteorologico non era lui. Scrollò le spalle e si avviò giù per la scaletta.

Un paio degli uomini in tuta nera che lo guardavano mentre si avvicinava ai carrelli commentarono la sua comparsa a bassa voce in greco barrayarano, un dialetto minore di origine terrestre alquanto mutato nei secoli dell'Era dell'Isolamento. Stanco del viaggio, e seccato dalle espressioni fin troppo eloquenti che vedeva sulle loro facce, Miles decise che avrebbe ignorato quel che dicevano semplicemente facendo finta di non capire. Del resto, come Plause gli aveva fatto notare, il suo accento greco era esecrabile.

— Ehi, guarda un po' questo tipo. Un bambino in divisa.

— Diavolo, che ci stavano mandando un ufficialetto di basso grado l'avevo sentito dire. Ma non credevo così basso.

— Non è un bambino. Sembra un nano di qualche genere. L'ostetrica deve averlo lasciato cadere nella lavatrice. All'inferno… ehi, è un dannato mutante!

Con uno sforzo Miles evitò di voltarsi verso di loro. Sempre più fiduciosi di non essere capiti, i due non si preoccuparono di abbassare la voce.

— Se è così, perché gli hanno messo addosso l'uniforme, eh?

— Bah! Magari è la nostra nuova mascotte.

Le vecchie paure genetiche erano così subdolamente inserite nella cultura, così stratificate a ogni livello sociale, che venivano fuori nelle battute e nelle osservazioni spicciole senza che la gente si rendesse neppure conto di ferire e di offendere. E spesso riemergevano con risultati dolorosi. Miles sapeva bene d'esser sempre stato protetto dal rango di suo padre, ma a persone d'aspetto insolito e meno socialmente fortunate potevano accadere cose molto spiacevoli. Solo due anni prima nella Città Vecchia, un quartiere di Vorbarr Sultana, era accaduto un episodio drammatico: un accattone zoppo era stato accusato d'essere un mutante da un gruppo di ubriachi, e castrato con una bottiglia rotta. Che ciò avesse destato reazioni scandalizzate e dure condanne era ritenuto un sintomo di «progresso». Ma nello stesso quartiere dei Vorkosigan c'erano stati casi di infanticidio, di cui uno recente. Sì, il rango sociale o militare aveva la sua importanza. Miles intendeva mettersi al sicuro il più possibile, prima che quelle paure trovassero modo di sfogarsi su di lui.

Sbottonò il colletto del parka per lasciar vedere meglio i gradi da ufficiale sul colletto e si rivolse al caposquadra, che tornava ai carrelli. — Senta, caporale, ho ordine di mettermi a rapporto dal luogotenente Ahn, l'ufficiale meteorologico della Base. Dove posso trovarlo?

Attese che l'altro portasse la mano al berretto nel saluto che gli spettava, ma la mano stentava a muoversi; il caporale lo guardava dall'alto in basso con aria incerta. Alla fine parve rendersi conto che se Miles aveva gradi da ufficiale, era un ufficiale.

Con un gesto torpido eseguì il saluto. — Mi scusi, uh, signore. Cosa stava dicendo?

Miles gli restituì il saluto e ripeté la domanda, con voce piatta e controllata.

— Uh, il luogotenente Ahn, sicuro. Di solito sta rintanato… cioè, di solito è nel suo ufficio. Nell'edificio dell'amministrazione. — Il caporale ruotò un braccio in direzione di un prefabbricato a due piani che emergeva dietro file di magazzini seminterrati in fondo alla pista di tarmac, a circa un chilometro da lì. — Non può sbagliare. È la costruzione più alta della Base.

Miles notò che l'edificio si distingueva dagli altri più che altro per il vasto assortimento di antenne che sporgevano dal tetto. Bene, sospirò fra sé.

E ora: caricare la sua sacca da viaggio su uno di quei carrelli e pregare che lo seguisse all'alloggio che gli era stato assegnato, dovunque fosse? O poteva permettersi d'interrompere il loro lavoro e ordinare che un carrello gli desse un passaggio fino a destinazione? Ebbe una breve visione di se stesso in piedi sulla prora di uno dei veicoli, come il capitano di una nave intento a sorvegliare un mare senza onde e diretto al suo destino… insieme a mezza tonnellata di biancheria di ricambio, casse di attrezzature termiche, fasci di tubature antigelo e rotoli di cavi elettrici. Decise di mettersi la sacca in spalla e andare a piedi.

— Grazie, caporale. — Si avviò nella direzione indicata, fin troppo conscio della sua andatura sbilenca e delle protesi, celate sotto i pantaloni, a cui era affidato il compito di sostenere la muscolatura delle gambe nel suo sforzo. La distanza si rivelò più lunga di quel che gli era parso, ma prestò attenzione a non fermarsi e a non vacillare finché non ebbe girato l'angolo del primo magazzino della fila.

La Base sembrava deserta. C'era da aspettarselo. Il grosso della sua popolazione era costituito dalle reclute di fanteria che venivano per l'addestramento, in due turni ogni inverno. In quel periodo c'era soltanto il personale stabile, e Miles avrebbe scommesso che per la maggior parte prendeva le ferie d'estate, approfittando di quella pausa di tranquillità. Quando arrivò di fronte all'Amministrazione non aveva ancora incontrato un'anima.

Lo schermo della pianta dell'edificio, a quanto informava il foglio scritto a mano applicato al monitor, era fuori uso. Miles girò a destra nell'unico corridoio del pianterreno e vagò alla ricerca di un ufficio, uno qualsiasi purché occupato. Quasi tutte le porte erano chiuse, e attraverso il vetro si vedevano soltanto locali vuoti e luci spente. In un ufficio la cui targa diceva "Contabilità Generale" sedeva un uomo in tuta nera da fatica, coi gradi rossi di luogotenente sul colletto, completamente assorto in un video su cui sfilavano colonne di cifre. Stava imprecando fra i denti.

— Scusi. Per favore, dov'è l'ufficio meteorologico? — disse Miles all'interfono della porta.

— Sopra. — Il luogotenente alzò un pollice verso il soffitto, senza distogliere lo sguardo dallo schermo, e continuò a imprecare. Miles si allontanò in punta di piedi per non disturbarlo.

Salì le scale e al primo piano trovò infine una porta chiusa, senza interfono, su cui un'etichetta scolorita gli confermò che il posto era quello. Depose la sacca, si tolse il parka e lo ripiegò su di essa. Poi controllò la sua uniforme. Quattordici ore di viaggio avevano rovinato l'impeccabile piega della spessa stoffa verde, ma era riuscito a salvarla dalle macchie di cibo, fango e olio lubrificante, e le sue scarpe erano rimaste alla larga da ogni pozzanghera. Si levò il berretto e lo impugnò nel modo prescritto, esattamente all'altezza della cintura. Aveva attraversato metà del pianeta, e atteso metà della vita, per quel momento. Alle sue spalle c'erano tre anni di studio e di addestramento militare che l'avevano preparato ad essere un ufficiale al servizio di Sua Maestà. E tuttavia negli anni dell'Accademia c'era sempre stata una vaga atmosfera di finzione, un sapore di stiamo-soltanto-facendo-pratica; adesso, finalmente, era faccia a faccia con la realtà del Servizio, assegnato a un vero incarico. E la prima impressione poteva essere determinante, soprattutto nel suo caso. Inalò un lungo respiro e bussò, con mano ferma.

Al di là del battente una voce soffocata borbottò qualcosa che Miles non capì. Un invito? Aprì la porta e oltrepassò la soglia.

Con la coda dell'occhio notò la presenza di numerosi schermi e periferiche di computer che occupavano la metà inferiore della parete destra, ma il calore che gli investì la faccia lo bloccò come se avesse urtato in un sipario invisibile: l'aria della stanza aveva almeno la temperatura del sangue. E l'unica illuminazione era quella che proveniva dagli schermi. Scorgendo un movimento alla sua destra, Miles si volse ed eseguì un saluto impeccabile. — Alfiere Miles Vorkosigan, signore, a rapporto come ordinato — annunciò. Strinse le palpebre, scrutò meglio nella semioscurità e non vide nessuno.

Il movimento era venuto dal basso. Seduto per terra, le spalle poggiate al supporto di una consolle, c'era uomo sulla quarantina dalla barba non rasata, vestito solo con la biancheria intima. L'uomo considerò la presenza di Miles con un sorriso e sollevò verso di lui una bottiglia piena a metà di liquido ambrato. — Salu… ugh, ragazzo. Ti voglio bene — farfugliò, e cadde lentamente di lato.

Miles restò a guardarlo in silenzio per alcuni lunghi pensosi secondi.

L'uomo cominciò a russare.


Dopo aver abbassato la temperatura, essersi tolto la giacca dell'uniforme e steso una coperta sul luogotenente Ahn (perché era lui), Miles si concesse una mezz'ora di pausa per esaminare quello che sarebbe stato il suo regno. Una cosa era chiara: per sapere che razza di operazioni si svolgevano in quell'ufficio avrebbe dovuto chiederlo. A parte le immagini inviate in diretta da un satellite, c'erano apparecchiature che all'apparenza ricevevano e registravano dati da una dozzina di mini-stazioni per l'analisi del clima sparse intorno all'isola. Se esistevano o erano mai esistiti manuali per le procedure obbligate, lì non c'erano, neppure nella memoria dei computer. Dopo aver doverosamente ponderato se fosse onorevole nei confronti di un uomo che russava disteso sul pavimento, Miles decise che l'unica era aprire i cassetti della scrivania di Ahn.

Scoprire alcuni fatti precisi lo aiutò a vedere in una prospettiva più chiara lo spettacolo che aveva davanti. Il luogotenente Ahn, così sembrava, dopo vent'anni di servizio era ormai giunto a poche settimane dall'età minima per la pensione. Dalla sua ultima promozione era trascorso molto, molto tempo. E ancor di più dal suo ultimo trasferimento: era il solo addetto all'ufficio meteorologico dell'isola Kyril, e svolgeva quell'incarico da quindici anni.

Questo povero diavolo è stato sbattuto su questa specie di iceberg quando io avevo sei anni, calcolò Miles, e si sentì rabbrividire. Difficile dire, considerati i vari aspetti della faccenda, se i problemi alcolici di Ahn ne erano stati la causa oppure andavano elencati fra gli effetti. Comunque, se il giorno dopo fosse stato abbastanza sobrio da spiegargli come tirare avanti, il resto erano fatti suoi. Se invece non avesse mostrato questa propensione, Miles poteva pensare a una dozzina di metodi, compreso anche qualcuno non troppo piacevole, per tirargli fuori ciò che voleva sapere, ubriaco o no. L'essenziale era che Ahn gli desse almeno un orientamento tecnico; poi, per quanto importava a lui, poteva restare in coma finché non l'avessero fatto rotolare su un carrello e imbarcato su un aereo.

Deciso così il fato di Ahn, Miles si rimise la giacca, sistemò il suo bagaglio dietro la scrivania e uscì a dare un'occhiata al posto. Da qualche parte, nella gerarchia di comando, doveva esserci qualche individuo abbastanza sobrio e sano di mente che stava facendo il suo lavoro, altrimenti la base non avrebbe potuto funzionare neppure nei momenti di minore attività. Oppure erano i caporali e i manovratori di carrelli a portare avanti le cose? Miles cominciò a chiedersi se per sapere dov'era il suo alloggio avrebbe dovuto aggirarsi per i magazzini in cerca di qualche volonteroso rimasto sul posto di lavoro.

Era nell'atrio in fondo alle scale quando una figura umana apparve sulla porta d'ingresso, stagliandosi scura contro la luce esterna. Saltellando avanti con meccanica precisione la figura si rivelò per quella di un uomo alto e robusto in pantaloncini corti, maglietta a mezze maniche e scarpe da ginnastica. La sua faccia era quella dura e decisa di chi è orgogliosamente reduce da una corsa di una dozzina di chilometri, magari interrotta da un paio di pause ristoratrici da cinquanta flessioni l'una. Capelli grigio acciaio, occhi grigio acciaio: l'aspetto era quello di un sergente particolarmente abile nel rendersi odioso anche alle reclute più zelanti. Si arrestò di botto e abbassò lo sguardo su Miles, esprimendo la sua sorpresa con l'espressione accigliata di chi detesta qualsiasi sorpresa.

Miles allargò saldamente i piedi al suolo, alzò la testa e gli restituì uno sguardo altrettanto truce. L'individuo sembrava del tutto incurante dei gradi che gli vedeva sul colletto. Esasperato lui sbottò: — Le persone responsabili sono andate tutte quante in vacanza, oppure è rimasto qualcuno a dirigere questo maledetto posto?

Gli occhi dell'uomo mandarono scintille, come se l'acciaio avesse incontrato una pietra focaia, e quello sguardo fece accendere una luce d'allarme nel cervello di Miles, benché un infelice momento troppo tardi. Ehi, guarda un po' questo tipo! riecheggiò come un isterico riflesso dentro di lui il commento che l'aveva accolto al suo sbarco dall'aereo. Sissignore, sono la vostra nuova mascotte! E con ciò? gridò una voce stridula dentro di lui. Miles soppresse la tentazione di lasciarsi uscire quelle parole di bocca. Sul volto di granito che si vedeva di fronte non c'era la minima traccia di una pur vaga propensione all'umorismo.

Con una smorfia acre che gli fece dilatare le narici, il comandante della Base gratificò Miles di uno sguardo sprezzante e ringhiò: — Sono io che lo dirigo, alfiere.


Densi banchi di nebbia provenienti dal mare, lontano e mormorante, stavano invadendo l'isola quando Miles poté finalmente avviarsi verso il suo nuovo alloggio. Gli edifici riservati agli ufficiali erano immersi in un'oscurità grigiastra così umida e fredda che sembrava solidificare l'aria. Miles decise che era un presagio.

Oh, Dio. Quello sarebbe stato un lungo, lungo inverno.

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