8

Abitua il fanciullo alla buona condotta,

e pur invecchiando, non l’abbandonerà.

Proverbi 22,6


Ci furono altre fustigazioni, ma poche. Nel nostro reggimento Hendrick fu l’unico a essere frustato in seguito a una sentenza della corte marziale, le altre furono tutte punizioni amministrative, come la mia. Per le frustate era necessario percorrere tutto l’iter fino al comandante del reggimento, cosa che un ufficiale di grado inferiore trovava spiacevole, per usare un eufemismo. Quando si raggiungevano le altre istanze, poi, va detto che il maggiore Malloy preferiva di gran lunga espellere uno dei suoi ragazzi, “scartato per cattiva condotta”, piuttosto che far erigere il palo delle fustigazioni. In un certo senso, la punizione amministrativa è una specie di complimento: significa che i tuoi superiori pensano che, per quanto al momento sembri improbabile, esiste la possibilità che tu possieda le caratteristiche necessarie per diventare un soldato e un cittadino.

Io fui il solo a beccarmi la punizione amministrativa massima: nessuno degli altri si prese più di tre frustate. Nessuno arrivò vicino come me a indossare gli abiti civili riuscendo a cavarsela per un pelo. Si tratta di un dubbio privilegio. Io non lo raccomando a nessuno.

Ci fu però un caso assai peggiore del mio, o di quello di Hendrick, un caso sconvolgente. Una volta fu eretta la forca.

Ora, cerchiamo di essere chiari. Quel caso in realtà non aveva niente a che fare con l’Esercito. Il crimine non aveva avuto luogo al campo Arthur Currie, ma l’ufficiale che aveva accettato quel ragazzo nella Fanteria spaziale mobile avrebbe dovuto rivoltarsi nella tuta per il rimorso.

Il ragazzo disertò solo due giorni dopo essere arrivato all’Arthur Currie. Assurdo, certo, ma in quel caso non c’era una sola cosa che non fosse assurda. Perché non aveva dato le dimissioni? La diserzione è una delle infrazioni più gravi, tuttavia l’Esercito non chiede la pena di morte per punirla, a meno che non avvenga in circostanze particolari: di fronte al nemico, per esempio, o quando si trasforma da un modo sbrigativo per dare le dimissioni in un crimine che non può restare impunito.

L’Esercito non fa nessuno sforzo per ritrovare i disertori e riportarli indietro. Sembrerà assurdo, invece è logico. Siamo tutti volontari, siamo nella Fanteria spaziale mobile perché lo vogliamo, siamo orgogliosi di essere fanti spaziali, e il corpo è orgoglioso di noi. Se un uomo non la pensa così dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli, non lo voglio al mio fianco quando l’atmosfera si riscalda e cominciano i guai veri. Se resto ferito, voglio intorno a me uomini pronti a raccogliermi perché loro sono Fanteria spaziale mobile, io sono un Fanteria spaziale mobile, e la mia pelle ha lo stesso valore della loro. Non voglio soldati che tirano a campare e se la squagliano quando i compagni sono nei casini. È molto più sicuro avere un fianco scoperto che trovarsi accanto un soldato che cova in cuor suo la “sindrome del coscritto”. Perciò, se se ne vanno, tanto meglio per tutti. Scomodarsi a cercarli per riportarli al campo è solo una perdita di tempo e denaro.

Naturalmente, molti tornano di loro spontanea volontà, magari dopo anni, nel qual caso l’Esercito, invece di impiccarli, somministra loro cinquanta brave frustate e poi li lascia liberi. Secondo me, per un uomo deve essere logorante sapersi fuggiasco quando tutti gli altri sono cittadini o residenti legali. Alla lunga ci si stanca, anche se la polizia ha altro da fare che cercarli. I malvagi fuggono anche quando nessuno li insegue. La tentazione di costituirsi, prendersi quelle benedette frustate e da quel momento tornare a respirare da uomo libero deve diventare assillante.

Ma quel ragazzo non si presentò. Era scomparso da quattro mesi e penso che i suoi stessi commilitoni non si ricordassero affatto di lui, dato che era rimasto al campo solo due giorni. Era un nome senza volto, un certo N.M. Dillinger che tutte le mattine veniva chiamato e segnato assente: niente di più.

Poi, Dillinger uccise una bambina.

Fu processato e condannato da un tribunale civile. Emerse però che era un soldato non congedato dall’Esercito, quindi l’Esercito andava informato subito. E infatti il nostro generale comandante intervenne immediatamente. Dillinger ci venne restituito, visto che la legge e la giurisdizione militare hanno la precedenza su quelle civili.

Perché il generale se ne fece carico? Perché non lasciò che se la sbrigasse lo sceriffo locale?

Forse per darci un esempio?

Niente affatto. Sono sicurissimo che il nostro generale non pensava affatto che qualcuno dei suoi ragazzi avesse bisogno di un simile esempio per astenersi dall’uccidere bambine. Anzi, oggi sono convinto che se fosse stato possibile ci avrebbe risparmiato volentieri quello spettacolo odioso.

Imparammo sì una lezione, sebbene allora nessuno vi facesse cenno: una di quelle lezioni che richiedono molto tempo per essere apprese, ma che diventano poi una seconda natura. La Fanteria spaziale mobile si prende sempre cura dei suoi uomini, comunque siano.

Dillinger apparteneva a noi, risultava ancora iscritto nei nostri registri. Anche se non lo volevamo, anche se non avremmo mai dovuto averlo tra noi, anche se saremmo stati felici di ripudiarlo, era pur sempre un soldato del nostro reggimento. Non potevamo ignorarlo e lasciare che se ne occupasse uno sceriffo qualunque. Se è necessario, un uomo che sia un vero uomo spara al proprio cane e non dà l’incarico a un estraneo che potrebbe farlo soffrire inutilmente.

Lo schedario del reggimento diceva che Dillinger ci apparteneva, perciò era nostro dovere prenderci cura di lui.

Quella sera marciammo fino allo spiazzo di parata a passo lentissimo (sessanta passi al minuto, un ritmo difficile da mantenere quando si è avvezzi a farne centoquaranta), mentre la banda suonava il Canto funebre per gli illacrimati. Poi Dillinger fu portato fuori, vestito da Fanteria spaziale mobile come noi, e la banda eseguì Danny Deever mentre gli venivano tolte tutte le insegne, perfino il berretto e i bottoni, lasciandolo in un abito marrone e azzurro chiaro che non era più una vera uniforme. I tamburi mantennero un ritmo sostenuto, e poco dopo tutto era finito.

Dopo essere stati passati in rivista, tornammo all’accampamento al piccolo trotto. Non credo che quella volta qualcuno sia svenuto o se ne sia andato con una sensazione di malessere. Tuttavia la sera mangiammo tutti pochissimo e la mensa non era mai stata tanto silenziosa. Ma, per macabro che fosse stato (era la prima volta che io vedevo la morte, ed era così per molti di noi), lo spettacolo dell’impiccagione non ci produsse il senso di dolorosa sorpresa che era seguito alla fustigazione di Ted Hendrick. Voglio dire che nessuno di noi si sentiva nei panni di Dillinger. A nessuno veniva da pensare: “Potrebbe toccare a me”. A prescindere dalla faccenda della diserzione, Dillinger aveva commesso almeno quattro crimini da pena capitale. Anche se la sua vittima non fosse morta, sarebbe stato impiccato ugualmente per uno qualsiasi degli altri tre: rapimento, ricatto, mancata assistenza.

Non provavo comprensione per lui, e continuo a non provarne. L’antico adagio “Capire significa perdonare” è una balla bella e buona. Certe cose, più le capisci, più ribrezzo ti fanno. La mia compassione andava tutta alla piccola Barbara Anne Enthwaite che io non avevo mai conosciuto, e ai suoi genitori, che non avrebbero rivisto mai più la loro bambina.

Quella sera, quando la banda ripose i suoi strumenti, iniziammo un lutto di trenta giorni per Barbara e per il disonore che ci aveva sfiorati: i nostri colori rimasero abbrunati, non eseguimmo musica alla rivista, non cantammo durante le marce. Solo una volta sentii un tale che si lamentava, e subito un altro fante gli chiese se voleva una scarica di pugni. Certo, non era stata colpa nostra, ma il nostro compito era anche quello di proteggere le bambine come Barbara, non di ucciderle. Il nostro reggimento era stato disonorato: dovevamo riabilitarlo. Sentivamo profondamente il peso della vergogna, e dovevamo dimostrarlo.

Quella notte cercai di immaginare come sarebbe stato possibile impedire che certi fatti succedessero. Naturalmente, oggi non accadono quasi più, ma anche uno ogni tanto è già troppo. Non trovai nessuna risposta soddisfacente. Quel Dillinger! Aveva una faccia uguale a quella di tutti gli altri, la sua condotta e i suoi precedenti non potevano essere tanto diversi dalla norma, se era arrivato al campo Arthur Currie. Forse era una di quelle personalità patologiche di cui si legge talvolta, che difficilmente, purtroppo, possono essere individuate in tempo.

Allora, se non era possibile impedire che un fatto simile capitasse una volta, bisognava almeno impedire che si ripetesse. C’era un modo solo, e l’avevamo usato.

Se Dillinger si rendeva conto di quello che stava facendo nel commettere quel crimine (il che sembrava incredibile), allora aveva avuto ciò che si meritava. Peccato solo che non avesse sofferto come la povera Barbara. Anzi, in pratica, non aveva sofferto affatto.

Ma supponendo, come pareva più probabile, che fosse stato tanto pazzo da non essersi mai reso conto del male che procurava, che cosa fare, in questo caso?

Be’, ai cani idrofobi si spara, no?

Sì, però la follia è una malattia vera e propria.

Mi sembrava che esistessero soltanto due possibilità. O Dillinger non poteva essere recuperato, e in questo caso era meglio che morisse per il bene suo e degli altri, o poteva essere curato e ricondotto alla ragione. In questa seconda ipotesi, secondo me, se fosse rinsavito al punto da reinserirsi nella società, la consapevolezza dell’orrore che aveva commesso da “malato” non lo avrebbe forse spinto al suicidio? Come avrebbe potuto continuare a vivere?

E se, per esempio, fosse fuggito prima di “guarire” e avesse commesso un altro crimine? E poi magari un terzo? Come spiegare l’accaduto ai genitori disperati? Con i precedenti che il colpevole aveva, poi.

Non trovavo che una sola risposta.

Poi mi venne in mente una discussione fatta in classe durante il corso di storia e filosofia morale. Il signor Dubois stava parlando dei disordini che avevano preceduto il crollo della Repubblica Nordamericana, nel tardo Ventesimo secolo. Stando alle sue parole, nel periodo immediatamente precedente alla “catastrofe”, i crimini come quello commesso da Dillinger erano comunissimi, all’ordine del giorno. Il terrore aveva regnato non solo nel Nordamerica, ma anche in Russia, nelle isole britanniche e in altri luoghi. Comunque, aveva raggiunto il culmine proprio nel Nordamerica, poco prima del crollo finale.

— Le persone normali — aveva detto Dubois — non osavano avventurarsi di sera in un parco pubblico. C’era il rischio di essere aggrediti da bande di adolescenti armati di catene, di coltelli, di armi fatte in casa se non addirittura di rivoltelle, di essere perlomeno feriti, quasi certamente rapinati, probabilmente riportando danni permanenti… o perfino uccisi. Le cose andarono avanti così per anni, proprio nel periodo che precedette la guerra tra l’Alleanza russo-anglo-americana e l’Egemonia cinese. L’omicidio, l’uso delle droghe, le aggressioni, le violenze e i vandalismi erano all’ordine del giorno. E tutto ciò non succedeva soltanto di notte nei parchi, ma anche alla luce del giorno per strada, nelle scuole, sui campi sportivi. Ma i parchi erano notoriamente luoghi pericolosi che le persone oneste evitavano quando faceva buio.

Avevo cercato di immaginare come cose del genere potessero accadere nella nostra scuola. Impossibile! E neppure nei nostri parchi. Un parco era fatto per lo svago, non per essere aggrediti. Quanto a rischiare addirittura di essere uccisi…

— Signor Dubois, ma non c’era la polizia? I tribunali? — chiesi.

— Polizia ce n’era più di oggi. E anche tribunali. Ma non erano mai sufficienti.

— Proprio non capisco! — Se un ragazzo della nostra città avesse commesso una cattiva azione, anche molto meno grave di quelle… misericordia! Lui e il padre sarebbero stati frustati insieme, sulla pubblica piazza. Ma ormai, di crimini non ne vengono più commessi nemmeno per sbaglio.

Poi il signor Dubois aveva aggiunto: — Definisci un “minore delinquente”.

— Mah, uno di quei ragazzi… quelli che un tempo picchiavano la gente.

— Sbagliato.

— Come? Ma il libro dice che…

— D’accordo, il libro dirà così, ma una gamba non diventa una coda solo perché la si chiama in quel modo. “Minore delinquente” è una contraddizione di termini; definisce solo il problema del soggetto e la sua incapacità di risolverlo. Hai mai allevato un cucciolo?

— Sì, professore.

— E sei riuscito a insegnargli i giusti comportamenti?

— Be’… sì. Con il tempo. — Era proprio per la mia lentezza nell’educarli che la mamma aveva sempre dichiarato che i cani non dovevano entrare in casa.

— Benissimo. Quando il tuo cucciolo faceva qualcosa di sbagliato, ti arrabbiavi?

— Come? No, non lo faceva apposta, era solo un cucciolo.

— E cosa facevi?

— Lo sgridavo, lo… gli facevo mettere il naso dentro e lo sculacciavo.

— Però lui non poteva capire quello che dicevi, vero?

— No, ma poteva capire dal tono che ero arrabbiato con lui.

— Ma se hai appena detto che non ti arrabbiavi!

Il signor Dubois aveva uno strano modo, molto irritante, di confondere le idee all’interlocutore. — No, ma dovevo fargli credere di essere arrabbiato. Doveva pure imparare, no?

— Concesso. Però, dopo avergli fatto capire che disapprovavi il suo comportamento, come potevi essere tanto crudele da sculacciarlo? Hai detto che la povera bestia non sapeva di avere commesso qualcosa di sbagliato. Eppure gli infliggevi un castigo. Giustificati! O sei forse un sadico?

Non sapevo che cosa fosse un sadico, allora, ma conoscevo bene i cuccioli. — Signor Dubois, è necessario! Lo si rimprovera per fargli capire che ha sbagliato, lo si obbliga a metterci il naso dentro perché sappia dove sta il problema, e lo si sculaccia perché si guardi bene dal farlo un’altra volta. Tre cose che bisogna fare subito! Non serve a niente punirlo più tardi, con il solo risultato di confondergli le idee. E anche se si agisce in tempo, non basta una sola lezione. Bisogna stare attenti, coglierlo ancora sul fatto e sculacciarlo anche più forte. Poi, un po’ alla volta, capisce. Ma se uno si limita a sgridarlo, perde il suo tempo e non conclude niente. — Avevo anche aggiunto: — Ma forse lei non ha mai allevato cuccioli.

— Invece ne ho avuto molti. Ne sto educando un certo numero in questo periodo e con gli stessi tuoi metodi — rispose. — Ma torniamo ai “minori delinquenti”. I più accaniti erano in media più giovani di voi, e spesso iniziavano la loro carriera di fuorilegge in età ancora più tenera. Teniamo presente quel cucciolo. Dunque, spesso questi ragazzi venivano colti sul fatto. La polizia ne arrestava moltitudini ogni giorno. Erano sgridati? Sì, e spesso in modo pesante. Venivano messi, per così dire, “con il naso dentro”? Raramente. Il loro nome era in genere tenuto segreto, come in molti posti prescriveva la legge per i criminali sotto i diciotto anni. Venivano sculacciati ben bene? Neanche per sogno! Molti non avevano mai preso una lezione del genere nemmeno da bambini, dato che in quei tempi era diffusa la convinzione secondo cui le punizioni corporali avrebbero causato nel bambino danni fisici e psichici permanenti.

(Ricordo che in quel momento avevo realizzato che mio padre doveva essere completamente all’oscuro di tale teoria.)

— A scuola, le punizioni corporali erano proibite dalla legge — aveva continuato Dubois. — La fustigazione era una pena in uso solo in una piccola provincia, il Delaware, dove peraltro veniva applicata solo per pochissimi crimini. Era considerata un “castigo crudele e insolito”.

Dubois stava riflettendo ad alta voce: — Non capisco le obiezioni ai castighi crudeli e insoliti. Ora, mentre un giudice è opportuno che sia incline alla benevolenza per quanto riguarda la finalità del suo operato, la pena in sé dovrebbe causare una sofferenza al colpevole, altrimenti la punizione viene a mancare. Il dolore fisico è il meccanismo base che si è sedimentato in noi attraverso milioni di anni di evoluzione e per avvertirci quando qualcosa minaccia la nostra sopravvivenza. Perché la società dovrebbe rifiutare un meccanismo di sopravvivenza così altamente perfezionato? Eppure, quel periodo era condizionato da una quantità incredibile di credenze prescientifiche e pseudopsicologiche. Quanto alla definizione “insolita”, la punizione deve essere tale, altrimenti non ha ragione d’essere. — Dubois aveva fatto un cenno a un altro ragazzo. — Tu… Che cosa accadrebbe se un cucciolo venisse picchiato ogni ora?

— Mah… probabilmente diventerebbe violento!

— Probabilmente. Quello che è certo è che non imparerebbe niente. Quanto tempo è passato da quando il preside di questa scuola ha dovuto sferzare un alunno?

— Mi pare… circa due anni. Quel ragazzo che rubava…

— Non ha importanza. La cosa rilevante è che sono già passati due anni. Questo significa che la punizione è così “insolita” da essere significativa, istruttiva, ammonitrice. Tornando a quei giovani criminali, probabilmente da bambini non avevano mai preso qualche sacrosanto ceffone, e certo non vennero mai frustati per i loro crimini. Di solito si procedeva così: alla prima infrazione grave, un ammonimento e una sgridata senza nemmeno il processo. Dopo diverse infrazioni gravi una condanna alla reclusione, generalmente sospesa, per affidare i più giovani alla tutela di qualcuno. Un ragazzo poteva venire arrestato e processato diverse volte prima di essere punito, e la pena consisteva nella semplice reclusione insieme ad altri come lui, dai quali spesso imparava a commettere crimini peggiori. Se durante il periodo trascorso in un istituto correzionale si comportava benino, poteva sfuggire perfino a quella mite sanzione e ottenere la libertà vigilata, la “libertà sulla parola” per usare la terminologia dell’epoca. Questo incredibile stato di cose poteva durare per anni, e intanto i suoi crimini aumentavano di numero e violenza, senza altra punizione che non fosse qualche noioso e inutile soggiorno in uno di quegli istituti di reclusione. Poi, all’improvviso, e per legge, esattamente il giorno del suo diciottesimo compleanno, questo cosiddetto minore delinquente diventava un criminale adulto, e spesso, nel giro di qualche settimana o di qualche mese, finiva nella cella della morte ad aspettare l’esecuzione. Tu…

Dubois aveva di nuovo indicato me. — Supponiamo che ti fossi limitato a sgridare il tuo cucciolo, che non l’avessi mai punito permettendogli di sporcare per tutta la casa e chiudendolo di tanto in tanto nella cuccia in giardino, per poi lasciarlo libero di nuovo con l’avvertimento di non sporcare più. Poi, un bel giorno, ti accorgi che ormai è un cane adulto, ma che ancora non ha imparato la buona creanza, e di conseguenza vai a prendere il fucile e gli spari. Commento, prego.

— Ma no! Sarebbe stata la maniera più assurda di educare un cane. Nessuno farebbe così.

— D’accordo. Lo stesso vale per un bambino. Di chi sarebbe stata la colpa?

— Mia, immagino.

— Siamo sempre d’accordo. Ma non c’è niente da immaginare, è così.

— Signor Dubois — era saltata su una ragazza — perché a tempo opportuno non rifilavano qualche ceffone ai bambini o somministravano una buona dose di frustate ai più grandi che le meritavano, una lezione di quelle che non si dimenticano? Naturalmente, parlo di quelli che commettevano infrazioni proprio gravi. Perché non lo facevano?

— Non lo so — aveva risposto il serio professore. — Senza dubbio il metodo sperimentato per secoli per consolidare la virtù sociale e il rispetto della legge nelle menti dei giovani non attraeva una classe prescientifica e pseudoprofessionale che si autodefiniva degli “operatori sociali” o, qualche volta, degli “psicologi dell’infanzia”. Forse lo giudicavano troppo semplice, visto che era alla portata di tutti, e pensavano che bastasse impiegare solo pazienza e fermezza per istruire un cagnetto. A volte mi sono chiesto se non provassero compiacimento nell’alimentare il disordine a forza di psicologia sballata, ma è improbabile. Quasi sempre gli adulti agiscono in nome di motivi nobili, qualunque sia la loro condotta.

— Incredibile! — aveva detto la ragazza. — Neanche a me piaceva essere sculacciata, come non piace a nessun bambino, ma quando me le meritavo, mia madre me le suonava, eccome! L’unica volta che ricevetti una nerbata a scuola, me ne presi un’altra appena arrivai a casa. Però io non mi aspetto certo di essere trascinata davanti a un giudice e condannata alla fustigazione. Se uno si comporta bene, queste cose non gli capitano. Non vedo niente di sbagliato nel nostro sistema. È molto meglio che non potere uscire di casa per paura di rimetterci la pelle. Questo sì che è orribile!

— Siamo d’accordo. Ragazza mia, i tragici errori che quelle generazioni compivano in buona fede, in contrasto con quello che si proponevano di fare, avevano radici molto profonde. Primo, non avevano una teoria scientifica della moralità. Sì, avevano una teoria della moralità a cui cercavano di attenersi, e infatti le loro motivazioni meritano rispetto. Ma si trattava di una teoria sbagliata, in parte frutto di cervelli fumosi inclini alla speculazione artificiosa, in parte frutto di ciarlataneria razionalizzata. Più ci mettevano impegno, più sconfinavano nell’assurdo. Vedi, partivano dal principio secondo cui l’uomo sarebbe in possesso di un istinto morale.

— Ma, professore… Io credevo che… ce l’hanno tutti! Io ce l’ho.

— No, mia cara, tu possiedi una coscienza indotta, una coscienza molto ben indotta. L’uomo non ha istinto morale. Perlomeno, non è innato. Tu non lo possedevi quando sei nata, io nemmeno. Un cucciolo non ce l’ha. Noi acquisiamo il senso morale, quando l’acquisiamo, attraverso l’esercizio, l’esperienza e il lavoro della mente. Quegli infelici minori delinquenti ne erano sprovvisti dalla nascita, proprio come noi, e non ebbero mai la possibilità di acquisirlo: le loro esperienze non glielo consentirono. Che cos’è il senso morale? È un’elaborazione dell’istinto di conservazione, dell’istinto di sopravvivenza che, quello sì, è insito nella natura umana. Ogni altro aspetto della nostra personalità deriva da lì. Tutto quello che contrasta con l’istinto di conservazione agisce prima o poi per eliminare l’individuo, e quindi scompare nelle generazioni che seguono. Questa verità è matematicamente dimostrabile, verificabile ovunque: è l’eterno imperativo che controlla tutto quanto facciamo.

“Ma l’istinto di sopravvivenza — aveva continuato Dubois — può essere incanalato verso obiettivi molto più ampi e complessi del cieco impulso del singolo individuo a restare in vita. Ragazza mia, quello che tu hai erroneamente definito ’istinto morale’ è la verità che le persone più anziane hanno continuato a instillarti, e cioè il concetto che la sopravvivenza può avere imperativi più forti del tuo personale istinto di conservazione.

“Uno di questi imperativi, per esempio, è la sopravvivenza della tua famiglia. O dei tuoi figli, quando ne avrai. O della tua nazione, se riesci a innalzarti di tanto sulla scala degli imperativi. E così via, allargando sempre il campo. Una teoria della morale che sia veramente scientifica, deve avere radici nell’istinto di sopravvivenza di ogni individuo, e unicamente in quello. E deve descrivere correttamente la gerarchia della sopravvivenza, individuare le motivazioni di ciascun livello, risolvere tutti i conflitti.

“Oggi, disponiamo di una simile teoria, e siamo in grado di risolvere qualsiasi problema morale, a ogni livello: autoconservazione, amore della famiglia, dovere verso il proprio paese, responsabilità nei confronti della specie umana. Stiamo perfino sviluppando un’etica rigorosa per quanto riguarda le relazioni extraumane. Ma tutti i problemi morali possono essere illustrati da una sola massima: ’Nessun uomo può amare più di una gatta che muore per difendere i suoi gattini’. Una volta capito il problema che la gatta deve affrontare, e il modo in cui l’ha risolto, sarete in grado di autoanalizzarvi e capire fino a che punto della scala morale siete capaci di salire.

“Quei giovani delinquenti si erano fermati al gradino più basso. Nati con l’istinto di conservazione, come tutti, la più alta moralità che riuscirono a raggiungere fu una specie di vacillante lealtà verso un gruppo di pari, la banda di strada. I benpensanti tentarono di ’fare appello ai loro sentimenti migliori’, di ’toccare i loro cuori’, di ’risvegliare il loro senso morale’. Sciocchezze! Quei ragazzi non avevano ’sentimenti migliori’, l’esperienza aveva insegnato loro che ciò che facevano era il modo per sopravvivere. I cuccioli non avevano ricevuto sculacciate al momento opportuno, di conseguenza tutto quello che facevano con piacere e sortiva buoni risultati risultava ai loro occhi ’morale’.

“La base di ogni moralità è il dovere, un concetto legato alla collettività dalla stessa relazione che l’egocentrismo intrattiene con l’individuo. Nessuno predicò a quei ragazzi il senso del dovere, in un linguaggio che potessero intendere, e cioè per mezzo di sonori ceffoni. Invece, la società in cui vissero parlava loro incessantemente di diritti. I risultati avrebbero dovuto essere facilmente prevedibili, dato che un essere umano non possiede diritti naturali di nessun genere.”

Il signor Dubois aveva fatto una pausa. Qualcuno abboccò all’amo. — Professore? Ma allora come la mettiamo con la vita, la libertà e la ricerca della felicità?

— Ah, sicuro, i “diritti inalienabili”! Ogni anno qualcuno mi cita quello splendido brano di poesia. Diritto alla vita? Quale diritto alla vita possiede un uomo che sta annegando nel Pacifico? L’oceano non ascolta le sue invocazioni. Che diritto alla vita ha un uomo che deve morire se vuole salvare i suoi figli? E se sceglie di salvare la propria vita, lo fa in nome del diritto? Se due uomini stanno per morire di fame e l’unica alternativa è il cannibalismo, a quale dei due spetta di mangiare l’altro in quanto il suo diritto a vivere risulta inalienabile? E si tratta proprio di un diritto? Quanto alla libertà, gli eroi che la conquistarono misero in gioco la loro vita per conseguirla. La libertà non è mai inalienabile; deve essere riscattata di regola con il sangue dei patrioti, altrimenti inevitabilmente sfuma. Di tutti i cosiddetti “diritti umani inalienabili”, la libertà è quello che ha meno probabilità di essere acquisito a buon mercato, e non è mai gratuito.

“E il terzo diritto? La ricerca della felicità? Sarà anche inalienabile, ma non è un diritto. È semplicemente una condizione universale che i tiranni non possono eliminare e i patrioti non possono riscattare. Gettatemi in un carcere sotterraneo, legatemi al palo del supplizio, incoronatemi re dei re, e io posso ugualmente inseguire la felicità fin tanto che mi resta un alito di vita. Ma né gli dei, né i santi, né i sapienti, né i maghi potranno assicurarmi che la raggiungerò.”

Dubois si era rivolto ancora a me. — Come ti ho detto, “minore delinquente” è una contraddizione di termini. “Delinquente” significa mancante ai propri doveri. Ma il dovere è una virtù da adulti, e infatti un giovane diventa adulto quando acquisisce il concetto di dovere, e lo pone prima dell’amore per se stesso, istinto con cui è nato. Non è mai esistito, né ci potrà mai essere, un vero minore delinquente. Ma poiché la definizione è questa, diremo che per ogni minore delinquente ci sono sempre uno o più delinquenti adulti, persone che hanno raggiunto la maggiore età, che non sanno qual è il loro dovere o pur sapendolo non sono riusciti ad agire appropriatamente. Fu questo punto debole a distruggere quella che per molti versi era stata una civiltà ammirevole. I giovani teppisti che imperversavano per le strade erano i sintomi di una grave malattia. I cittadini di quel periodo (tutti erano tali) esaltarono la loro mitologia dei diritti e persero completamente di vista i doveri. Nessuna nazione così costituita può durare.


Mi chiesi come il colonnello Dubois avrebbe classificato Dillinger. Era un minore delinquente che meritava pietà anche se bisognava eliminarlo, o era un delinquente adulto che suscitava soltanto collera? Io non lo sapevo e non lo saprò mai. Di un’unica cosa ero certo: Dillinger non avrebbe mai più ucciso bambine. E questo mi stava bene. Andai a dormire.

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