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Voialtri pensate che questo maledetto corpo di spedizione sia una specie di poppatoio per lattanti. Be’, non è così! Visto?

Osservazione attribuita a un caporale greco sotto le mura di Troia, 1194 a.C.


La Rodger Young trasporta un solo squadrone ma è sovraffollata, la Tours ne trasporta sei e rimane ancora posto libero. È dotata di tubi in grado di scaricarli tutti insieme e sufficiente spazio di riserva per trasportare il doppio della truppa e farla partire in due lanci successivi. In queste condizioni, si sa, diventa affollatissima: si mangia a turni, si appendono amache nei corridoi e nelle camere di lancio, l’acqua viene razionata, si espira quando gli altri aspirano e si passa il tempo a infliggersi gomitate involontarie. Per fortuna, mentre ero a bordo il carico non fu raddoppiato.

Comunque, la Tours possiede anche portata e velocità sufficienti per trasportare tutta quella truppa, più l’armamento necessario, in qualsiasi punto dello spazio federale e in buona parte del “territorio” dei ragni. Con la propulsione Cherenkov, la Tours può coprire la distanza di quarantasei anni-luce, dal Sole a Capella, diciamo, in sole sei settimane.

Naturalmente, un’astronave da trasporto per sei squadroni sembra piccola, se la paragoniamo a un vagone spaziale o a un transatlantico di linea. Si tratta, in qualche modo, di un compromesso. In genere, la Fanteria spaziale mobile preferisce le piccole unità leggere, dotate di maggiore manovrabilità. Se fosse per la Marina, invece, disporremmo soltanto di vagoni spaziali. Per governare una corvetta ci vuole un numero di uomini uguale a quello richiesto per governare uno di quei bestioni grandi abbastanza da accogliere un reggimento. Certo, la manutenzione e le faccende domestiche diventano più faticose, ma a queste possono provvedere i soldati. Alla fine dei conti, quegli scansafatiche della Fanteria spaziale mobile non fanno altro che sbafare, dormire e lustrare i bottoni d’uniforme, quindi è bene che lavorino un po’ anche loro. Così pensa la Marina.

Anzi, la vera opinione della Marina è ancora più drastica: l’Esercito è superato, perciò tanto vale abolirlo.

Non che la Marina lo dica ufficialmente, intendiamoci, ma parlate con un suo ufficiale in licenza incline a darsi delle arie: vi farà una testa così. A sentirli, possono combattere qualsiasi battaglia, vincerla e mandare giù qualcuno dei loro a occupare il pianeta conquistato in attesa che arrivi un corpo diplomatico a rilevarli.

Riconosco che le loro armi più moderne possono scaraventare un pianeta fuori dall’universo. Non l’ho visto fare con i miei occhi, ma ci credo. Prima o poi, noi fanti saremo superati come il Tyrannosaurus rex. Per il momento, però, noi scimmioni siamo in grado di fare certe cose che l’astronave più moderna non potrebbe neanche sognarsi di portare a termine. Comunque, se un giorno il governo non dovesse avere più bisogno di questi piccoli servizi, senza dubbio ce lo manderà a dire.

La verità è che né la Marina né la Fanteria spaziale mobile potranno mai dire l’ultima parola. Un uomo non può diventare maresciallo dello spazio se prima non ha comandato sia un reggimento sia una nave ammiraglia: cioè, passa attraverso la Fanteria spaziale mobile, si fa le ossa, e poi diventa ufficiale di Marina (credo che il piccolo Birdie avesse in progetto proprio questo), oppure prima diventa un pilota astronauta e poi se ne va a passare un po’ di tempo al campo Arthur Currie.

Naturalmente, davanti a uno che ha fatto tutt’e due le cose, mi levo tanto di cappello.

Tornando alla Tours, come molte navi da trasporto ha un equipaggio misto. Per me, il cambiamento più strabiliante consisteva nel trovarmi a nord della paratia 30. La barriera che separa i quartieri femminili da quei tipacci rozzi che si radono tutti i giorni non è necessariamente la paratia numero 30, ma si chiama sempre così per tradizione, su qualsiasi nave mista. Al di là della paratia si trovava il locale di guardia, con il resto dei quartieri femminili che arrivava fino a prua. Sulla Tours, il locale di guardia serviva anche da mensa ufficiali, e tra un pasto e l’altro anche da sala ricreativa per le marinaie e da sala di riposo per le loro ufficialesse. Gli ufficiali maschi avevano un locale riservato, detto “sala da gioco”, a poppavia della trenta.

A parte il fatto più che ovvio che l’operazione lancio e recupero richiede i piloti migliori (cioè le donne), c’è un altro motivo molto importante per il quale le ufficialesse di Marina vengono assegnate alle navi trasporto: la loro presenza ha un ottimo impatto sul morale delle truppe.

Mettiamo da parte per un momento le tradizioni della Fanteria spaziale mobile. Potete pensare a qualcosa di più assurdo del lasciarsi catapultare fuori da una nave spaziale, sapendo che appena toccherete terra non troverete altro che l’inferno scatenato e forse la morte? D’altra parte, se qualcuno deve per forza fare una cosa tanto stupida, conoscete un modo migliore per indurlo a tale atto ricordandogli continuamente che l’unica ragione per la quale gli uomini combattono è una realtà presente che vive e respira?

Su una nave mista l’ultima cosa che un soldato sente prima del lancio (e forse in vita sua) è una voce femminile che gli augura buona fortuna. Se non vi sembra abbastanza importante, vuol dire che avete dato le dimissioni dalla specie umana.

La Tours aveva quindici ufficiali di Marina, otto donne e sette uomini, poi c’erano otto ufficiali di Fanteria spaziale mobile, compreso (sono lieto di dirlo) il sottoscritto. Ora, non dico che sia stata la paratia 30 a farmi iscrivere al corso ufficiali, ma il privilegio di mangiare insieme alle signore è più allettante di qualsiasi aumento di paga. Il capitano Deladrier era presidente della mensa, e il mio comandante, il capitano Blackstone, ne era il vicepresidente, ma questo non per via del grado. Sopra di lui c’erano ben tre ufficiali di Marina, ma come comandante delle forze da sbarco Blackstone era, de facto, secondo soltanto alla comandante dell’astronave.

I pasti erano molto formali. Aspettavamo nella sala da gioco finché suonava il gong, poi entravamo preceduti dal capitano Blackstone, e restavamo in piedi dietro le nostre sedie. La comandante entrava, seguita dalle sue signore, e come lei arrivava vicino alla tavola, il capitano Blackstone si inchinava e diceva: — Signora presidentessa, signore… — E lei rispondeva: — Signor vicepresidente, signori… — e a questo punto ogni commensale maschio spostava la sedia per la dama che sedeva alla sua destra.

Quel cerimoniale serviva a ricordare che il pasto era un avvenimento mondano, non una conferenza di ufficiali, anche se venivano usati gradi e titoli, e solo le ufficialesse più giovani, e io tra gli ufficiali della Fanteria spaziale mobile, venivamo chiamati “signore” e “signorina”. C’era però un’eccezione che mi trasse in inganno.

Durante il primo pasto che consumai a bordo, sentii chiamare “maggiore” il capitano Blackstone, sebbene dai gradi che aveva sulle spalle fosse evidente che si trattava di un capitano. Più tardi ebbi la spiegazione del mistero. Su una nave non possono esserci due capitani, perciò il capitano dell’Esercito viene elevato di un grado durante gli incontri mondani piuttosto che commettere l’impensabile, e cioè rivolgerglisi con il titolo riservato all’unico e solo monarca. Se un capitano della Marina si trova a bordo in veste non di comandante, donna o uomo che sia, viene chiamato “commodoro” anche se il comandante della nave è un semplice tenente.

La Fanteria spaziale mobile osserva questa regola evitando di rivolgere la parola al proprio capitano durante gli avvenimenti mondani e infischiandosene quando si trova nei propri alloggiamenti.

A tavola, il capitano Deladrier siede a un’estremità e il comandante delle forze di terra all’altra, la guardiamarina più giovane alla destra del comandante e il sottoscritto alla destra di Deladrier. Naturalmente, sarei stato molto più felice di sedere alla destra della guardiamarina più giovane, che tra l’altro era incredibilmente carina, ma la disposizione dei posti era studiata proprio per rompere le uova nel paniere: non riuscii nemmeno a scoprire il nome di quella graziosa collega.

Sapevo che, come ufficiale maschio con il grado giù basso, toccava a me sedere alla destra del capitano Deladrier, ma ero inconsapevole del fatto che toccasse a me aiutarla a sedersi. Durante il mio primo pasto a bordo lei aspettò, e tutti restarono in piedi, finché il terzo ufficiale non mi diede di gomito. Non mi ero mai sentito tanto imbarazzato in vita mia da quando avevo avuto un disgraziatissimo incidente al parco giochi, e vissi un momento orribile anche se la comandante Jorgenson si comportò come se non fosse successo niente.

Quando la comandante si alza, il pasto è finito. La Jorgenson era molto comprensiva a questo riguardo, ma una volta rimase seduta solo pochi minuti, e il capitano Blackstone si seccò. Si alzò anche lui, e disse forte: — Comandante…

Lei si fermò. — Sì, maggiore?

— Comandante, vi dispiacerebbe dare ordine affinché io e i miei uomini possiamo mangiare nella sala da gioco?

La risposta fu gelida: — Certamente, maggiore. — Da quel giorno mangiammo nell’altra sala. Ma nessuno degli ufficiali di Marina venne mai al nostro tavolo.

Il sabato successivo, la comandante, assai insolitamente, esercitò il privilegio di passare in rivista la Fanteria spaziale mobile a bordo. A ogni modo, si limitò a passare lungo le file schierate, senza fare commenti. Non era cattiva, in fondo, e quando perdeva la sua aria severa, aveva un sorriso caldo e simpatico. Il capitano Blackstone aveva ordinato al sottotenente Graham di obbligarmi a studiare matematica. La comandante venne a saperlo e disse a Blackstone di mandarmi da lei ogni giorno per un’ora, dopo colazione: durante quell’ora mi impartiva lezioni di matematica riprendendomi severamente quando commettevo qualche errore.

I nostri sei squadroni formavano le due compagnie di un battaglione ridotto. Il capitano Blackstone comandava la Compagnia D (le guardie nere di Blackie) e il battaglione ridotto. Il nostro comandante di battaglione, maggiore Xera, era con la Compagnia A e B a bordo della Normandy Beach, la gemella della Tours, forse a mezzo universo di distanza. Il maggiore Xera ci guidava solo quando l’intero battaglione operava contemporaneamente, nei restanti casi si limitava a scambiare missive e rapporti con il capitano Blackie. Altre questioni venivano comunicate direttamente alla flotta, alla divisione o alla base: il nostro Blackie disponeva di un sergente maggiore, un vero mago, che si occupava di non confondere le carte e lo aiutava a dirigere sia la compagnia sia il battaglione ridotto quando eravamo in azione.

Le questioni amministrative sono tutt’altro che semplici in un Esercito frazionato su centinaia di astronavi disseminate su una distanza di parecchi anni-luce. Sulla vecchia Valley Forge, sulla Rodger Young e adesso sulla Tours, io appartenevo sempre allo stesso reggimento, il Terzo (i cuccioli viziati), della Prima divisione (Polaris) di Fanteria spaziale mobile. Si trattava di due battaglioni formati dai superstiti dell’Operazione ragnatela, tutta gente che non conoscevo, se si eccettua il fante scelto Bamburger.

Avrei potuto anche essere assegnato come ufficiale effettivo al Terzo reggimento fino alla pensione e non vedere mai in faccia il mio comandante di reggimento. I Rompicollo di Rasczak, per esempio, avevano un comandante di compagnia che però era responsabile anche del primo plotone (i calabroni) imbarcato su un’altra corvetta. Di questo comandante di compagnia io avevo ignorato anche il nome, finché non l’avevo visto scritto in calce ai documenti che avevo consegnato al corso ufficiali. C’è una leggenda che narra di un plotone smarrito. Questo plotone era entrato in RR (ovvero ricreazione e riposo) in quanto la corvetta su cui erano imbarcati necessitava di qualche intervento in cantiere. Il comandante di compagnia era appena stato promosso e gli altri squadroni e plotoni erano stati trasferiti su altre unità da guerra per motivi tattici. Ora non ricordo bene che cosa ne fosse stato del tenente che comandava quel plotone, ma l’RR è il momento ideale, per convenzione, per trasferire un ufficiale (il che, in teoria, dovrebbe avvenire dopo che un altro ufficiale è arrivato a rimpiazzarlo ma i sostituti scarseggiano sempre).

Morale della favola, si dice che quel plotone abbia trascorso un anno intero di RR tra le delizie di Churchill Road, alla base di Sanctuary, senza che nessuno si accorgesse della sua mancanza.

Io non ci credo, però potrebbe succedere.

La scarsità cronica di ufficiali si ripercuoteva sensibilmente sulle incombenze che dovevo svolgere nelle guardie nere di Blackie. La Fanteria spaziale mobile ha una percentuale minima di ufficiali rispetto a qualsiasi altra arma dell’Esercito. Ciò è dovuto soprattutto al cuneo divisionale assolutamente unico che caratterizza il nostro corpo. Cuneo divisionale, o CD, è un termine del gergo militare che rimanda a un concetto in fondo molto semplice: se avete 10.000 soldati, quanti di loro combattono? E quanti invece pelano patate, guidano camion, contano tombe o riempiono scartoffie?

Nella Fanteria spaziale mobile, su 10.000 uomini, 10.000 combattono.

Nelle guerre del Ventesimo secolo occorrevano a volte 70.000 uomini (e non sono chiacchiere) per permettere a 10.000 di combattere.

D’accordo che ci vuole la Marina per trasportarci dove dobbiamo combattere, tuttavia le forze d’attacco della Fanteria spaziale mobile, anche su una corvetta, sono almeno tre volte più numerose dell’equipaggio. Poi occorrono dei civili per servirci, dato che il dieci per cento di noi si trova regolarmente in RR. E infine, alcuni tra i migliori uomini sono assegnati come istruttori ai campi base.

E le scartoffie? Sì, ci sono, però vi accorgerete che i pochi fanti spaziali mobili che stanno dietro una scrivania sono a corto di braccia o gambe. Ci sono quelli che, come il sergente Ho e il colonnello Nielssen, rifiutano di andare a riposo, e che dovrebbero contare per due, dato che lasciano liberi dei fanti perfettamente abili, occupando posti dove si richiede spirito combattivo ma non integrità fisica. Svolgono i compiti che potremmo affidare ai civili, ma non possiamo farlo perché si rivelerebbero inadeguati. I civili sono come i fagioli, li compri quando ne hai bisogno per qualsiasi lavoro che richieda esclusivamente esperienza e buon senso.

Lo spirito combattivo scarseggia, non lo si può noleggiare o pagare. E così, noi cerchiamo di usare tutto quello che abbiamo, senza sprecarne una briciola.

La Fanteria spaziale mobile è l’Esercito più piccolo della storia, rispetto alla popolazione che protegge.

Non si può più prezzolare un tante spaziale, non si può farne un coscritto, non si può ottenerlo con la coercizione, non si può nemmeno trattenerlo se decide di andarsene. Può svignarsela trenta secondi prima di un lancio, spaventarsi e rifiutare di entrare nella capsula, e l’unico provvedimento disciplinare che subirà sarà la perdita del diritto di voto.

Al corso ufficiali abbiamo studiato che certe armate ricevevano un trattamento da schiavi.

Il fante spaziale mobile è libero: quello che lo motiva viene dall’interno. È quel rispetto di sé, quel bisogno di essere rispettato dai compagni, quell’orgoglio di far parte dell’arma, che si chiama morale o spirito di corpo.

L’essenza della nostra morale è: tutti lavorano, tutti combattono. Un fante spaziale mobile non si dà da fare per ottenere posti tranquilli, al sicuro; non ce ne sono da noi. Certo, un fante cercherà di schivare quello che può, un soldato semplice che abbia sufficiente sale in zucca da poter marciare a tempo di musica si scervellerà per trovare un modo di non finire di ramazza, ma questo è un diritto che ogni soldato possiede dal tempo dei tempi.

Però tutti i lavori tranquilli, senza pericolo, sono affidati ai civili; e così il soldato mentre s’infila in una capsula è sicuro che tutti, dal generale all’ultimo commilitone, stanno facendo la stessa cosa. Magari ad anni-luce di distanza, magari non nello stesso giorno o alla stessa ora, ma quello che conta è che tutti si lanciano. Per questo entra nella capsula, anche se tale consapevolezza rimane nel suo inconscio.

Se mai si allontanasse da questo sistema, la Fanteria spaziale mobile si sfalderebbe. A tenerci uniti è soltanto un’idea, un legame più forte dell’acciaio, ma il cui magico potere dipende unicamente dal lasciare quell’idea intatta. È la regola del “tutti combattono” che permette al corpo di tirare avanti con così pochi ufficiali.

Su questo punto ne so più di quanto sia necessario, perché al corso di storia militare saltai su con una domanda stupida, e mi vidi assegnare una relazione che mi costrinse a consultare un po’ di tutto, dal De bello gallico di Giulio Cesare al Crollo dell’Egemonia dorata di Tsing.

Consideriamo una divisione ideale di Fanteria spaziale mobile, sulla carta, s’intende. Quanti ufficiali richiede? Lasciamo perdere le unità aggiunte degli altri corpi, potrebbero non essere presenti quando si scatena la baraonda e non sono come noi. Ogni particolare competenza legata alla Logistica e comunicazione fa conseguire il grado di ufficiale come riconoscimento. Se questo renderà un uomo della memoria, un telepata, un sensitivo o un uomo fortunato felice perché io gli rendo omaggio, sarò lieto di accontentarlo. Lui vale molto più di me e io non riuscirei a rimpiazzarlo neppure se vivessi duecento anni. Oppure prendete i corpi K9, composti al 50 per cento da ufficiali, ma al 50 per cento da neocani.

Nessuno di loro appartiene alla linea di comando, quindi consideriamo soltanto noi scimmioni e vediamo che cosa ci vuole per guidarci.

La nostra divisione immaginaria dispone di 10.800 uomini suddivisi in 216 squadroni, ciascuno con il suo tenente. Tre squadroni per ogni compagnia, fa 72 capitani; quattro compagnie per ogni battaglione, fa 18 tra maggiori e tenenti colonnelli. Sei reggimenti con sei colonnelli possono formare due o tre brigate, ciascuna con il suo generale, più un generale di divisione come comandante in capo. Avremo un totale di 317 ufficiali su un numero complessivo di 11.117 uomini.

Non ci sono file vuote e ogni ufficiale comanda un’unità.

Percentuale degli ufficiali necessari: tre per cento. In effetti, un buon numero di squadroni è comandato da sergenti, e molti ufficiali “portano più di un berretto” (così si dice in gergo), cioè ricoprono diversi indispensabili incarichi secondari.

Anche un comandante di squadrone dovrebbe avere il suo aiutante, che poi è il sergente di squadrone. Ma può farne a meno, e il sergente può fare a meno di lui. Mentre un generale deve avere degli aiutanti: le sue mansioni sono troppo ampie per una persona sola. Un generale ha bisogno di uno Stato maggiore e di aiutanti di campo.

Dato che gli ufficiali non sono mai sufficienti, i comandanti imbarcati sulla nave ammiraglia fungono anche da Stato maggiore, e sono scelti tra i migliori che la Fanteria spaziale mobile possiede in fatto di logica e matematica. Però anche lo Stato maggiore si lancia con le diverse unità. Il generale si lancia con i suoi aiutanti di campo, più un piccolo gruppo di fanti scelti tra i più pronti di tutto il corpo. Il loro compito è quello di impedire che il generale venga infastidito dai nemici mentre sta dirigendo la battaglia. A volte ci riescono.

Ogni gruppo più grande di uno squadrone dovrebbe avere un vicecomandante. Ma non disponendo mai di ufficiali a sufficienza, dobbiamo arrangiarci con quelli che abbiamo. Per riempire completamente l’organigramma, ci vorrebbe un cinque per cento di ufficiali… e invece ne abbiamo soltanto il tre per cento in tutto.

In luogo di quell’ottimo cinque per cento che la Fanteria spaziale mobile non riesce mai a raggiungere, molti eserciti del passato nominavano un dieci per cento di ufficiali, spesso un quindici per cento, e a volte addirittura un assurdo venti per cento! Sembra una barzelletta, invece era la realtà, specialmente durante il Ventesimo secolo. Che razza di Esercito è quello che ha più ufficiali che caporali? E più caporali che soldati?

È un Esercito organizzato apposta per perdere le guerre, se la storia insegna davvero qualcosa.

Un’armata che è soprattutto organizzazione, burocrazia.

Un Esercito composto più che altro da “soldati” che non combattono mai.

Ma che cosa facevano, poi, quegli ufficiali che non comandavano gli uomini in battaglia?

Lavoretti di routine, a quanto pare.

C’erano ufficiali addetti ai circoli ufficiali, alle gare sportive, agli spettacoli, alle mansioni amministrative, cappellani, assistenti dei cappellani, aiutoassistenti dei cappellani, e chi più ne ha più ne metta!

Nella Fanteria spaziale mobile, queste mansioni rappresentano incarichi supplementari per gli ufficiali che combattono oppure vengono svolte, meglio e più a buon mercato, da civili stipendiati, evitando inoltre di demoralizzare un combattente. Nel Ventesimo secolo, però, la situazione divenne così assurda che in una delle maggiori potenze gli ufficiali veri, quelli cioè che comandavano in battaglia, finirono per avere insegne speciali per distinguerli da tutta l’altra masnada di ussari da scrivania.


La scarsità di ufficiali continuava a peggiorare con il perdurare della guerra. Le perdite sono sempre più alte tra gli ufficiali, e la Fanteria spaziale mobile non attribuisce mai i gradi a un allievo solo per riempire un posto vacante.

A lungo andare, ogni reggimento deve provvedere a rifornirsi di ufficiali da sé, e la percentuale può essere innalzata senza abbassare il rendimento medio. Le forze d’assalto della Tours necessitavano di tredici ufficiali: sei comandanti di squadrone, due comandanti di compagnia e due vice, un comandante in capo fiancheggiato da un vice e da un aiutante di campo.

In tutto ce n’erano sette, più il sottoscritto:


ORGANIGRAMMA DELLA TOURS

Battaglione ridotto di Forze d’assalto

Capitano Blackstone (primo incarico)

Sergente maggiore


Compagnia C

Lupi di Warren

Tenente Warren

1° squadrone — Tenente Bayonne

2° squadrone — Sottotenente Sukarno

3° squadrone — Sottotenente N’gam


Compagnia D

Guardie nere di Blackie

Capitano Blackstone (secondo incarico)

1° squadrone — (Tenente Silva, ospedalizz.)

2° squadrone — Sottotenente Khoroshen

3° squadrone — Sottotenente Graham


Avrei dovuto trovarmi sotto il tenente Silva, che tuttavia era stato ricoverato in ospedale il giorno precedente il mio arrivo a bordo, per non so quale malanno. Questo non implicava necessariamente che dovessi prendere io il suo squadrone. Un sottotenente provvisorio non è considerato come dotato di proprietà stabili. Il capitano Blackstone poteva benissimo mettermi sotto il tenente Bayonne affidando a un sergente il comando del suo primo squadrone, oppure prendere lui stesso il comando del primo squadrone.

In effetti fece tutt’e due le cose, però mi nominò anche caposquadrone al Primo guardie nere.

Ci riuscì facendosi prestare il miglior sergente dei lupi e nominandolo suo aiutante di battaglione al posto del sergente maggiore. Poi prese il sergente maggiore e lo mise come sergente di squadrone al Primo guardie nere (attribuendogli quindi un incarico inferiore al suo grado). Infine, spiegò a chiare lettere la situazione in una conferenza tutta a mio beneficio: io sarei apparso come caposquadrone sull’organigramma, ma il capitano stesso e il suo sergente maggiore avrebbero comandato lo squadrone.

Finché mi comportavo bene, potevo restare segnato sull’organigramma. Mi sarebbe stato perfino permesso di lanciarmi come caposquadrone, ma sarebbe bastata una parolina del sergente di squadrone al mio comandante di compagnia e sarei stato schiacciato come una formica.

La soluzione non mi dispiaceva. Lo squadrone era mio finché riuscivo a cavarmela, e nel caso non reggessi più, quanto più presto mi facevo da parte tanto di guadagnato era per tutti. Inoltre, era molto meno snervante ereditare uno squadrone a quel modo che vederselo arrivare tra capo e collo per una catastrofe improvvisa durante l’azione.

Prendevo il mio incarico molto seriamente, però. Si trattava del mio squadrone, era scritto anche sull’organigramma. Ma non avevo ancora imparato a delegare l’autorità, e per una settimana mi aggirai negli alloggiamenti della truppa molto più di quanto sia consigliabile. Poi, Blackie mi chiamò nella sua cabina.

— Figliolo, cosa diavolo pensa di fare?

Risposi in modo formale che stavo cercando di tenere il mio squadrone pronto ad agire.

— Ah, sì? Be’, il risultato sarà assai diverso. Li sta irritando, diventeranno un nido di vespe. Perché crede che le abbia prestato il mio sergente maggiore? Se va in cabina, si attacca a un gancio, e ci resta appeso fino allo sbarco, lui le consegnerà uno squadrone accordato come un violino.

— Come vuole, capitano — risposi, un po’ avvilito.

— Altra cosa… Non mi piace che un ufficiale si comporti come un cadetto imbalsamato. La smetta di starsene impalato e battere i tacchi. Gli ufficiali devono assumere un aspetto rilassato. Capito, ragazzo mio?

— Sì, signore.

— E che sia l’ultima volta che mi dà del signore. Anche quando saluta, si tolga dalla faccia quell’aria solenne e faccia un bel sorriso.

— Sì, s… d’accordo.

— Così va meglio. Si appoggi contro quella paratia. Si gratti, sbadigli, faccia quello che vuole, basta che non resti lì come un soldatino di piombo.

Tentai e sorrisi, intimidito, scoprendo quanto è difficile rompere un’abitudine. Appoggiarsi al muro è molto più difficile che starsene sull’attenti. Il capitano Blackstone mi studiò pensoso.

— Imparerà — disse. — Un ufficiale non può avere l’aria spaventata: è contagiosa. E ora, Johnnie, mi dica di che cosa ha bisogno il suo squadrone. Venga al sodo. Non mi interessa sapere se uno degli uomini non ha il numero di calzini prescritti dal regolamento.

Pensai in gran fretta. — Ecco… sa per caso se il tenente Silva intende proporre Brumby per la promozione a sergente?

— Lo so. Ma qual è il suo parere?

— Dalle carte risulta che da due mesi Brumby opera in qualità di caposquadrone. Le sue note caratteristiche sono soddisfacenti.

— Ho chiesto il suo parere.

— Ecco… non l’ho mai visto in azione, quindi non posso fornire un parere preciso. Da come la vedo io, ha fatto da sergente per troppo tempo per lasciargli passare davanti un capopattuglia. Dovremmo dargli la terza striscia prima del lancio, oppure bisognerà farlo trasferire appena rientriamo alla base. Anche prima, se c’è una possibilità di trasferimento nello spazio.

Blackie grugnì. — È alquanto generoso nel dare via le mie guardie nere, per essere soltanto un sottotenente provvisorio.

Diventai tutto rosso. — In ogni modo, è un punto debole nel mio squadrone. Brumby va promosso o trasferito. Non voglio che torni al suo posto per vedersi scavalcare da un altro: ne resterebbe amareggiato, e sarebbe peggio che perderlo. Se non possiamo promuoverlo, dobbiamo fargli cambiare aria. In questo modo non soffrirà umiliazioni e avrà ottime probabilità di diventare sergente presso un’altra unità, invece di arenarsi qui.

— Sì, eh? — Blackie mi guardò con aria sorniona. — Dopo quest’analisi magistrale, provi a sfruttare i suoi poteri di deduzione e mi dica perché il tenente Silva non l’ha fatto trasferire tre settimane fa, quando eravamo a Sanctuary.

Infatti me l’ero chiesto. Quando si è presa la decisione di trasferire un uomo bisogna provvedere al più presto possibile: è meglio per l’uomo e per i suoi compagni, così dice il testo. Chiesi: — Forse il tenente Silva era già ammalato a quell’epoca?

— No.

Il puzzle si ricomponeva. — Capitano, io propongo che Brumby abbia immediatamente la promozione.

Corrugò la fronte. — Un momento fa voleva disfarsene perché era inutile.

— Non è esatto. Ho detto che bisognava prendere una delle due decisioni, ma non sapevo quale. Adesso lo so.

— Continui.

— Ecco, partendo dal principio che il tenente Silva sia un ufficiale efficiente…

— Giovanotto, per sua norma, Mercurio Silva ha sul suo stato di servizio una serie ininterrotta di Eccellente-Proposto per la promozione.

— Non ne dubitavo affatto — assicurai. — Ho ereditato un ottimo squadrone, infatti. Un buon ufficiale potrebbe non promuovere un uomo per… oh, per centomila motivi, e tuttavia astenersi dal mettere la sua sfiducia per iscritto. Ma in questo caso, se Silva non avesse potuto proporre Brumby per la promozione, si sarebbe guardato dal tenerlo con sé, liberandosene alla prima occasione. Invece non l’ha fatto. Di conseguenza, concludo che Silva intendeva promuovere Brumby. — Poi aggiunsi: — Non capisco, però, perché non l’abbia fatto tre settimane fa, in modo che Brumby potesse portare la sua terza striscia mentre era in RR.

Il capitano Blackstone sorrise. — Lo dice perché pensa che io non sia efficiente?

— Prego?

— Niente, niente. Lei è ancora in fasce, ragazzo mio, non posso pretendere che conosca tutti i trucchi del mestiere. Ma stia a sentire e imparerà. Finché siamo in guerra, non promuova mai un uomo poco prima di rientrare alla base.

— Come… Perché no, capitano?

— Ha detto che se Brumby non veniva promosso, bisognava inviarlo all’ufficio ricollocamento. Ma è là che sarebbe andato se fosse stato promosso tre settimane fa. Lei non sa che fame di ufficiali ci sia, alla base. Butti un po’ l’occhio tra quei dispacci e troverà che ci chiedono di fornire due sergenti. Con un sergente di squadrone distaccato al corso ufficiali, e un posto di caposquadra vacante tra i miei ranghi, io mi trovavo al di sotto del minimo e quindi nella condizione di rifiutare. — Rise, furbescamente. — La guerra è dura, figliolo, e i suoi stessi colleghi le portano via gli uomini migliori di sotto il naso, se non sta attento. — Prese da un cassetto due fogli di carta. — Guardi…

Uno era una lettera di Silva a Blackie, che raccomandava Brumby per la promozione: risaliva a circa un mese prima. L’altra era la promozione a sergente e riportava la data del giorno successivo alla partenza da Sanctuary.

— Soddisfatto?

— Come? Oh, sì, certo.

— Speravo che individuasse il punto debole nel suo squadrone dicendomi che cosa bisognava fare. Mi fa piacere che l’abbia capito, anche se un ufficiale esperto avrebbe capito subito la situazione visionando l’organigramma e le schede personali. Niente di grave, è così che s’impara. E adesso mi scriva una lettera come quella di Silva, ma con la data di ieri. Incarichi il suo sergente di squadrone di comunicare a Brumby che l’ha proposto per una terza striscia, e non menzioni il fatto che anche Silva ci aveva pensato. Quando chiamerò Brumby per il giuramento, gli comunicherò che entrambi i suoi ufficiali l’hanno raccomandato ciascuno per conto suo, cosa che gli farà molto piacere. E questo è fatto. C’è altro?

— Ecco… per l’organizzazione, no, a meno che il tenente Silva non intendesse promuovere Naidi per fargli sostituire Brumby. Nel qual caso dovremmo promuovere un fante scelto a caporale, il che ci permetterebbe di promuovere quattro soldati semplici a fanti scelti, riempiendo così anche tre posti che al momento sono vacanti. Non so se è sua abitudine tenere l’organigramma il più possibile aggiornato, oppure no, naturalmente.

— Possiamo farlo senz’altro — disse gentilmente Blackie. — Noi due sappiamo benissimo che alcuni di quei ragazzi non avranno molti giorni per godersi la promozione. Si ricordi però che non promuoviamo mai un uomo a fante scelto se prima non è stato almeno una volta in combattimento. Nelle guardie di Blackie, perlomeno, usiamo così. Studi pure il problema con il suo sergente di squadrone e mi faccia sapere qualcosa. Non c’è fretta, mi basta avere una risposta prima di sera. C’è altro?

— Be’, capitano… sono preoccupato per le tute.

— Anch’io. Questo riguarda tutti gli squadroni.

— Non so gli altri squadroni, ma con cinque reclute ancora senza tuta, più quattro tute danneggiate e cambiate e altre due scartate la settimana scorsa e sostituite al magazzino… ecco, non so proprio come faranno Cunha e Navarre ad attivare undici tute, a controllare le altre quarantuno e ad avere tutto pronto per la data fissata. Anche ammesso che non sorgano altre complicazioni.

— Quelle arrivano sempre.

— Sì, capitano. Ma si tratta di ben duecentottantasei ore soltanto per riscaldare e adattare, più centoventitré ore di controllo normale. E in genere ci vuole un tempo anche superiore.

— Già, e che cosa possiamo fare secondo lei? Gli altri squadroni le daranno una mano se termineranno con le loro tute prima del previsto. Ma ne dubito. Non mi chieda di trovarle aiuto presso i lupi. È più probabile che si debba offrirne noi a loro.

— Capitano, non so cosa ne pensa lei, dato che mi ha avvertito di girare alla larga dagli alloggiamenti della truppa. Però, da caporale ero stato assistente del sergente addetto all’attivamento e manutenzione.

— Dica pure.

— Be’, alla fine ero io il sergente addetto all’attivamento e manutenzione ma si trattava semplicemente di una sostituzione. Non sono un meccanico elettronico finito, ma come assistente me la cavo abbastanza bene, e se mi fosse permesso, potrei attivare le tute nuove, oppure fare il lavoro di ispezione su quelle già pronte, e lasciare molto più tempo libero a Cunha e a Navarre.

Blackie si appoggiò allo schienale e sorrise. — Caro Johnnie, ho scrutato più volte il regolamento da cima a fondo, e non ho trovato niente che proibisca a un ufficiale di sporcarsi le mani. Lo dico perché alcuni signorini che mi erano stati assegnati ultimamente, a quanto pare avevano letto quei misteriosi paragrafi. Benissimo, si procuri un paio di calzoni e una camicia da lavoro. Non c’è ragione che si sporchi l’uniforme, oltre alle mani. Vada a poppa, rintracci il suo sergente di squadrone, gli dica di Brumby e gli faccia preparare le proposte necessarie a riempire i vuoti nell’organigramma nel caso io decida di approvare la sua richiesta riguardante Brumby. Poi gli comunichi che lei dedicherà tutto il suo tempo alle tute, e che quindi si occupi lui del resto. Gli dica che se vuole consultarla per qualcosa, la troverà nell’armeria. E non gli riferisca che mi ha sentito… si limiti a impartirgli gli ordini. Mi capisce?

— Sì, sign… Sì, perfettamente.

— Benissimo, si metta all’opera. Ah, passando dalla sala da gioco, per favore, porti i miei saluti a Rusty e gli dica di trascinare qui da me la sua carcassa. Buon lavoro, Johnnie!


Nelle due settimane che seguirono fui indaffarato come mai in vita mia. Nemmeno al corso base! Tanto per cominciare, lavoravo dieci ore al giorno come meccanico intorno alle tute. Poi c’era la matematica, e con il capitano che mi dava lezioni dovevo studiare sodo. C’erano i pasti, facciamo un’altra ora e mezza al giorno. In più, la cura della persona: doccia, barba, bottoni da riattaccare e un continuo dare la caccia al furiere per costringerlo ad aprire gli armadi per tirare fuori un’uniforme pulita dieci minuti prima dell’ispezione. (È la legge non scritta della Marina che le cose necessarie debbano essere tenute sotto chiave quando più servirebbero.)

Cambio della guardia, rivista, ispezioni, un minimo di cose da sbrigare per lo squadrone, facciamo un’altra ora. Come se non bastasse, ero anche “George”. Ogni unità militare ha un George, cioè l’ufficiale più giovane a cui toccano tutti gli incarichi extra. George è l’addetto alle palestre, alla censura della posta, fa da arbitro nelle competizioni, si interessa dei corsi per corrispondenza, fa da pubblico ministero alla corte marziale, è tesoriere del fondo prestiti, custode delle pubblicazioni registrate, ufficiale dei magazzini e della mensa per la truppa e così via, fino alla nausea.

Rusty Graham era stato George finché aveva scaricato allegramente le consegne su di me. Fu meno allegro quando insistetti per verificare l’inventario che dovevo firmare. Insinuò che, se non avevo abbastanza buon senso per accettare un inventario firmato da un ufficiale più anziano, forse un ordine diretto mi avrebbe fatto cambiare idea. Allora mi irrigidii, e gli dissi di mettere i suoi ordini per iscritto, con una copia autenticata in modo che potessi tenermi l’originale e trasmetterne copia al comandante.

Rusty, indignatissimo, fece marcia indietro. Nemmeno un sottotenente è tanto stupido da mettere per iscritto un simile ordine. Tutto questo procurava anche a me un certo imbarazzo, visto che Rusty era mio compagno di cabina e continuava a darmi lezioni di matematica. Comunque controllammo l’inventario. Mi presi un rimbrotto dal tenente Warren perché mi mostravo stupidamente burocratico, ma anche Warren dovette rassegnarsi ad aprire la cassaforte e a lasciarmi controllare le pubblicazioni registrate. Il capitano Blackstone aprì la sua senza fare commenti, e non riuscii a capire se approvava la mia pignoleria oppure no.

Le pubblicazioni erano in regola, ma alcuni beni in dotazione no. Povero Rusty! Aveva accettato l’inventario del suo predecessore e adesso si trovava con molte cose mancanti… e l’altro ufficiale non era semplicemente trasferito altrove, era morto. Rusty passò una notte insonne (e anch’io), poi prese il coraggio a due mani e raccontò tutto al comandante.

Blackie gli diede una lavata di testa, poi controllò quali effetti mancassero, trovò il modo di farli figurare come “perduti in combattimento”, multò Rusty di alcuni giorni di paga, ma riuscì a rimandare il pagamento all’infinito.

Non tutti gli incarichi di George creavano tante grane. Corti marziali non se ne tenevano: non esistono nelle unità di combattimento che si rispettino. Niente posta da censurare, dato che la nave era in propulsione Cherenkov. Per lo stesso motivo, il fondo prestiti era momentaneamente a riposo. Per l’atletica, passai l’incarico a Brumby. L’arbitro lo facevo solo in rare occasioni. La mensa della truppa era eccellente: firmavo il menu, e qualche volta ispezionavo la cambusa, e magari mangiavo un panino senza nemmeno cambiarmi quando lavoravo in armeria fino a tardi. I corsi per corrispondenza comportavano un sacco di scartoffie da compilare, dato che molti proseguivano gli studi, guerra o non guerra, ma avevo delegato il tutto al mio sergente di squadrone e alle pratiche provvedeva il fante scelto che gli faceva da segretario.

Con tutto questo, le mansioni di George richiedevano due ore buone al giorno.

Perciò, si fa presto a fare il conto: dieci ore di meccanica elettronica, tre ore di matematica, pasti un’ora e mezzo, pulizia personale eccetera un’ora, un’ora per lo squadrone, due ore di George, otto di sonno. Totale: ventisei ore e mezzo. E almeno la nave avesse seguito l’orario di venticinque ore giornaliere di Sanctuary. Macché! Una volta lasciata la base ci rimettevamo sull’ora media di Greenwich e sul calendario universale. Le ore che mi mancavano dovevo rubarle al sonno!

Una notte, verso l’una, ero seduto nella sala da gioco intento a scervellarmi con la matematica, quando entrò il capitano Blackstone. Dissi: — Buonasera, capitano.

— Buongiorno, vuole dire. Che cosa le piglia, figliolo? Insonnia?

— Non esattamente.

Raccolse un certo numero di fogli, osservando: — Ma le scartoffie non potrebbe rifilarle al sergente? Ah, capisco. Subito a letto.

— Ma, capitano…

— Niente ma. Johnnie, è un pezzo che voglio parlarle. La sera, qui nella sala da gioco, non c’è mai. Passo davanti alla sua cabina, e la vedo seduto alla scrivania. Quando il suo compagno di stanza va a letto, si trasferisce qui. Si può sapere perché?

— Ecco… pare che io non ce la faccia a fare tutto.

— Questo è un male comune. Come procede il lavoro in armeria?

— Benino. Penso che ce la faremo.

— Lo penso anch’io. Senta, figliolo, non bisogna mai perdere il senso delle proporzioni. Lei ha due compiti principali. Primo, fare in modo che l’equipaggiamento del suo squadrone sia pronto, e questo lo fa. Secondo, e altrettanto importante, tenersi pronto a combattere. E qui, non ci siamo.

— Ma io sarò pronto, capitano.

— Sciocchezze. Non fa ginnastica e perde ore di sonno. È così che ci si addestra per un lancio? Ragazzo, quando si comanda uno squadrone, bisogna essere in forma, scattanti. Da domani svolgerà attività fisica tutti i giorni dalle quattro e mezzo alle sei. Alle undici e mezzo, appena si spengono le luci, andrà a letto, e se resterà sveglio per un quarto d’ora due sere di fila, marcherà visita per farsi curare l’insonnia. È un ordine.

— Signorsì. — Sentivo che le paratie mi crollavano addosso e aggiunsi disperato: — Capitano, non so proprio come farò ad andare a letto alle undici e mezzo e a fare tutto ugualmente.

— Farà un po’ meno. Gliel’ho detto, ragazzo mio: senso delle proporzioni. Mi spieghi un po’ come amministra il suo tempo.

Glielo dissi. Annuì. — Proprio come pensavo. — Raccolse il mio compito di matematica, tornò a buttarlo sul tavolo. — Questa roba, per esempio. D’accordo, si vuole preparare. Ma perché perderci tanto tempo prima di un’azione?

— Pensavo…

— Se c’è una cosa che proprio non ha fatto è quella di pensare. Ci sono quattro possibilità, e solo una contempla la necessità di applicarsi a questo studio. Primo, potrebbe lasciarci le penne. Secondo, potrebbe lasciarci qualche penna, quanto basta per finire a riposo con un incarico onorario. Terzo, potrebbe cavarsela tutto intero, ma riceverà una bocciatura dal suo esaminatore attuale, cioè il sottoscritto. Cosa che non è affatto improbabile se continua così, perché non le lascerò fare il lancio se continuerà ad avere gli occhi rossi per la mancanza di sonno e i muscoli resi flaccidi dal troppo tempo passato alla scrivania. La quarta possibilità è che possa rimettersi in forma, nel qual caso potrei anche lasciarle l’incarico di comandare lo squadrone. Perciò, supponiamo che si rimetta in forma e si comporti come il miglior guerriero della storia dopo Achille. Io la promuoverò. In questo caso, e solo in questo, le sarà indispensabile sgobbare su questi testi di matematica. Di conseguenza, i libri li tirerà fuori durante il viaggio di ritorno. E con questo, siamo intesi. Anzi ne parlerò al capitano. La dispenso fin d’ora da tutti gli incarichi extra. Durante il viaggio di ritorno dedicherà il suo tempo alla matematica. Non concluderà mai niente se non impara a fare ogni cosa a suo tempo. Vada a letto!


Una settimana dopo ci mettevamo in contatto con le altre navi, uscendo dalla propulsione Cherenkov e incrociando a velocità inferiore a quella della luce per dare tempo alle varie navi di scambiarsi i segnali. Ricevemmo le istruzioni, il piano di battaglia, i nostri ordini per la missione (una filastrocca che non finiva più) in cui ci veniva comunicato che non avremmo dovuto lanciarci.

Avremmo preso parte all’operazione, ma scendendo sul pianeta da gran signori, comodi e al sicuro nelle lance in quanto la Federazione terrestre ne aveva già occupato la superficie. La Seconda, la Terza e la Quinta divisione di Fanteria spaziale mobile l’avevano conquistata e pagata in contanti.

Pagata, per la verità, più di quanto valeva. Il pianeta P è più piccolo della Terra, ha una gravità di 0,7, è formato quasi esclusivamente di roccia e oceano, il freddo è polare, la flora si limita a qualche lichene e la fauna è trascurabile, l’aria, contaminata da troppo ozono e da ossido nitrico, non può essere respirata a lungo, l’unico continente è grande circa la metà dell’Australia, in più ci sono alcune isole di nessun significato. Prima di diventare abitabile, avrebbe richiesto una gran quantità di lavoro, tanto quanto era stato necessario per Venere.

Comunque, non l’avevamo occupato a scopo coloniale, ma solo perché era nelle zampe dei ragni. E loro erano lì per noi, questo pensava lo staff secondo cui il pianeta P rappresentava un avamposto (probabilità 87 ± 6 per cento) non ancora completato, da usare contro la Federazione terrestre.

Dal momento che il pianeta non aveva nessun particolare valore, la prassi avrebbe voluto che si lasciasse mano libera alle unità della Marina che, tenendosi a prudente distanza, avrebbero potuto rendere quello sferoide da quattro soldi inabitabile sia per noi sia per i ragni. Ma il comando supremo aveva altre idee.

L’operazione fu una semplice incursione. Sembra assurdo chiamare “incursione” una battaglia che impegna centinaia di navi e provoca migliaia di perdite, tanto più che, nel frattempo, la Marina e una quantità di altre forze di terra stavano tenendo impegnati i ragni nel loro spazio territoriale per impedire che potessero dare man forte alle loro truppe sul pianeta P. Ma il comando supremo non stava sprecando uomini, quell’incursione su larga scala poteva decidere chi avrebbe vinto la guerra, non importa se tra qualche mese o dopo trent’anni. Non conoscevamo abbastanza la psicologia dei ragni. Dovevamo per forza spazzarli via dalla galassia o era invece possibile piegarli e imporre la pace? Lo ignoravamo: non capivamo i ragni, proprio come non capivamo le termiti. Per comprenderne la psicologia dovevamo riuscire a comunicare con quelle creature, sviscerare le loro motivazioni, scoprire perché combattevano e a quali condizioni avrebbero accettato di concludere la pace. Per fare questo, i corpi di Psicologia bellica necessitavano di prigionieri.

Gli operai si lasciavano catturare abbastanza facilmente, ma erano poco più che macchine animate. I guerrieri possono essere catturati bruciando loro un numero di arti sufficiente a renderli inoffensivi, ma senza qualcuno a dirigerli sono quasi altrettanto stupidi degli operai. Questi prigionieri risultarono utili agli scienziati, che analizzandone la biochimica riuscirono a sviluppare un gas che uccideva loro ma non noi. Da tali ricerche derivarono altre nuove armi, alcune delle quali entrate in uso già durante il mio periodo passato nell’Esercito.

Per appurare che cosa spingesse i ragni a combatterci era necessario studiare i membri della loro casta dirigente. Inoltre, speravamo di poter trattare lo scambio dei prigionieri.

Finora, non avevamo mai catturato un ragno-cervello vivo.

Avevamo spazzato via intere colonie dalla superficie, come a Sheol, oppure (ed era stato il caso più frequente) i nostri soldati si erano infilati giù per le loro tane e non erano più risaliti alla superficie.

Perdite anche maggiori ci erano state inflitte durante le operazioni di rientro a bordo. Intere unità scese a terra si erano viste distruggere la loro nave. Che ne era stato di quegli uomini? Forse erano morti tutti, fino all’ultimo soldato. Oppure, più probabilmente, avevano combattuto fino a esaurire corrente e armi, e poi i sopravvissuti erano stati catturati.

Dai nostri nuovi alleati, i pelleossa, avevamo saputo che molti soldati dispersi erano ancora vivi fra le zampe dei ragni. Questi prigionieri si contavano sicuramente a centinaia, forse a migliaia. I servizi di intelligence erano certi che tutti i prigionieri venissero condotti su Klendathu. I ragni erano curiosi sul nostro conto quanto noi sul loro: una razza di individui capaci di costruire città, astronavi spaziali, eserciti, poteva risultare perfino più misteriosa per un’entità che viveva in alveari, di quanto essa poteva apparire a noi. Detto ciò, rivolevamo quei prigionieri!

Nella dura logica dell’universo una simile esigenza poteva rappresentare una debolezza. Forse qualche specie a cui non importa di salvare un individuo sarebbe in grado di sfruttare questo tratto umano per distruggerci. I pelleossa possedevano solo in parte questa caratteristica, mentre i ragni parevano non averla affatto. Nessuno aveva mai visto un ragno soccorrerne un altro ferito. Cooperavano perfettamente in combattimento ma le unità venivano abbandonate nel momento stesso in cui non risultavano più utili.

Noi ci comportavamo in modo diverso. Quante volte vi è capitato di vedere il titolo “Morte due persone mentre cercavano di salvare un bambino che stava affogando”? Se un uomo si perde in montagna, lo cercano in centinaia e spesso uno o due di coloro che si impegnano nelle ricerche restano uccisi. Ma dopo, quando qualcun altro si perde, compaiono altrettanti volontari.

Scarso senso aritmetico… ma molto umano. Pervade tutta la nostra tradizione, tutte le religioni umane, tutta la letteratura; è radicata nella specie l’idea che se un umano ha bisogno di soccorso, gli altri non devono tenere conto del prezzo che questo comporta.

Debolezza? Potrebbe anche essere l’unico punto di forza per conquistare una galassia.

Debolezza o forza, i ragni non ce l’hanno. Non c’era alcuna possibilità di scambiare combattenti con combattenti.

Ma nella poliarchia dell’alveare, alcune creature hanno un valore particolare, o perlomeno così speravano quelli delle Ricerche psichiche.

Se fossimo riusciti a catturare qualche ragno-cervello, forse avremmo potuto trattare a condizioni vantaggiose.

Pensate se fossimo riusciti a catturare una regina!

Qual era il valore di scambio di una regina? Forse si poteva restituirla in cambio di un reggimento di Fanteria spaziale mobile? Nessuno lo sapeva, ma il piano di battaglia ci ordinava di catturare la “nobiltà”, cioè cervelli e regine, a ogni costo, nella speranza di poterli scambiare con esseri umani.

Il terzo scopo dell’Operazione Nobiltà era quello di perfezionare i metodi operativi: come scendere, come stanare i ragni, come vincere senza utilizzare tutte le armi. Con la Fanteria spaziale mobile, in superficie potevamo avere la meglio; in un combattimento tra navi, la nostra Marina prevaleva. Finora, però, ogni tentativo di infilarci nelle loro tane si era rivelato un insuccesso.

Se non fossimo riusciti a scambiare i prigionieri a qualunque condizione, allora non ci restava che vincere la guerra, fare in modo di avere una piccola probabilità di salvare i nostri uomini oppure, potevamo anche ammetterlo, morire provandoci e uscirne sconfitti. Il pianeta P era un campo di prova per stabilire se potevamo imparare come eliminarli.

Il piano operativo era a disposizione di ogni fante che lo ascoltava innumerevoli volte nel sonno, durante la preparazione ipnotica. Quindi, eravamo tutti consapevoli che se da una parte l’Operazione Nobiltà aveva lo scopo di preparare il terreno per l’eventuale salvataggio dei nostri compagni, dall’altra sul pianeta P non si trovava nessun prigioniero umano, dal momento che non aveva mai subito incursioni da parte nostra. Quindi non c’era ragione di fare gli spavaldi per cercare di guadagnarsi una medaglia nell’assurda speranza di essere personalmente coinvolti in un salvataggio. Si trattava solo di un’altra battuta di caccia al ragno, ma condotta con un impiego massiccio di forze e nuove tecnologie. Dovevamo pelare quel pianeta come una cipolla, fino a raggiungere la certezza che non un solo ragno ci era sfuggito.

La Marina non solo aveva ridotto le isole e la parte di continente non occupata da noi a una distesa di vetro radioattivo per cui potevamo stanare i ragni senza preoccuparci di venire assaliti alle spalle, ma manteneva in orbita attorno al pianeta una discreta quantità di piccoli mezzi di perlustrazione volti a proteggerci, a scortare le unità da trasporto e a tenere d’occhio la superficie per essere certi che il nemico non ci giocasse qualche brutto scherzo, sbucando dal terreno nonostante il bombardamento.

Le guardie nere di Blackie avevano l’ordine di coprire le truppe già sbarcate, qualora fosse stato necessario, dando il cambio a qualche altra compagnia, proteggendo le unità degli altri corpi, mantenendo i contatti con le altre unità e facendo la festa a tutti i ragni che osavano mettere il naso fuori dalle buche.


Così atterrammo comodamente e senza incontrare resistenza. Portai fuori il mio squadrone di corsa. Blackie andò avanti per incontrarsi con il comandante di compagnia al quale doveva dare il cambio, mettersi al corrente della situazione ed esaminare il terreno. Schizzò via come la folgore nella sua tuta potenziata e sparì.

Ordinai a Cunha di mandare gli esploratori della sua prima squadra a individuare gli angoli più lontani dell’area che dovevo pattugliare, e spedii il mio sergente di squadrone a prendere contatti con un’unità del Quinto reggimento che si trovava alla nostra sinistra. Noi del Terzo dovevamo tenere una zona larga quattrocentocinquanta chilometri e profonda centoventi. Il pezzo assegnato a me era un rettangolo di sessanta chilometri per trentacinque. I lupi erano dietro di noi, a destra avevamo lo squadrone del tenente Khoroshen, oltre il quale c’era Rusty Graham.

Il Primo reggimento aveva già dato il cambio a un reggimento della Quinta divisione e si trovava davanti a noi. “Davanti”, “dietro”, “a destra” e “a sinistra” si riferivano ai sistemi di orientamento cieco inseriti in tutte le tute di comando e regolati in modo da corrispondere alla mappa del piano di battaglia. Non avevamo un vero e proprio fronte, ma solo un’area, e al momento l’unica battaglia stava avvenendo a parecchie centinaia di chilometri di distanza, e precisamente molto indietro e sulla destra, secondo i nostri punti d’orientamento convenzionali.

Più o meno da quella parte doveva essere il Secondo squadrone, Compagnia G, Secondo battaglione, Terzo reggimento. Più comunemente noto come “i Rompicollo”.

Oppure, i Rompicollo potevano anche trovarsi a una quarantina di anni-luce di distanza. L’organizzazione tattica non riproduce mai fedelmente lo schema teorico. Dal piano di battaglia mi risultava solo che un certo Secondo battaglione si trovava alla nostra destra oltre i ragazzi del Normandy Beach. Ma poteva trattarsi di un battaglione preso a prestito da un’altra divisione. Il maresciallo dello spazio muove i suoi scacchi senza consultare i singoli pezzi.

In ogni modo, non avrei dovuto preoccuparmi dei Rompicollo: avevo già abbastanza problemi come guardia nera. Al momento il mio squadrone non correva pericoli, relativamente al fatto di trovarsi in territorio nemico, ma avevo molte cose da fare mentre la prima pattuglia di Cunha raggiungeva l’angolo più lontano. Dovevo:


1 — stabilire il contatto con il comandante di squadrone che aveva tenuto fino a quel momento la mia zona;

2 — determinare i confini e distribuire squadre e pattuglie;

3 — stabilire contatti con gli otto comandanti di squadrone che avevo ai lati e agli angoli, di cui cinque erano già in posizione (quelli del Primo e del Quinto reggimento) e tre (Khoroshen delle guardie nere, Bayonne e Sukarno dei lupi) stavano occupando adesso le posizioni;

4 — fare in modo che i miei uomini raggiungessero le loro posizioni nel tempo più breve.


Quest’ultima operazione era la più urgente. L’ultima pattuglia, quella di Brumby, doveva piegare a sinistra; quella di testa, con Cunha, doveva procedere fino al limite massimo e allargarsi verso sinistra in senso obliquo; le altre quattro dovevano aprirsi a ventaglio tra l’una e l’altra. Questo è lo spiegamento normale, e lo avevamo provato in camera di lancio per accelerare l’esecuzione. Chiamai: — Cunha, Brumby! Spiegamento! — usando il circuito sottufficiali.

— Prima squadra, ricevuto… Seconda squadra, ricevuto.

— Capisquadra, prendere il comando… e mettere in guardia i novellini. Incontrerete molti cherubini di Chang. Attenti a non colpirli per errore! — Serrai le mascelle per inserire il mio circuito privato; — Sergente, ha stabilito i contatti con la sinistra?

— Signorsì. Mi hanno visto e vedono lei.

— Bene. Non vedo il segnale al nostro angolo più avanzato…

— Il segnale manca.

— Guidi Cunha. Faccia lo stesso per il capo degli esploratori, Hughes, e gli dica di piantare un nuovo segnale. — Mi chiedevo come mai quelli del Primo e del Quinto non avessero sostituito quel segnale limite, cioè quello posto al mio angolo sinistro anteriore, punto dove ben tre reggimenti s’incontravano.

Era inutile parlarne. Proseguii: — Controllo radio. Portatevi a due sette cinque, chilometri diciannove.

— Signore, il lato opposto è nove sei, chilometri diciannove scarsi.

— Abbastanza vicino. Non ho ancora trovato il mio lato opposto, quindi sto tagliando a dritta al massimo. Attenti, mi raccomando!

— Ricevuto, signor Rico.

Avanzai alla velocità massima mordendo il circuito ufficiali. — Riquadro uno, riquadro uno, mi sentite? Cherubini di Chang, rispondete. — Volevo parlare con il comandante dello squadrone al quale davamo il cambio, e non prendere soltanto le consegne. Volevo la verità senza abbellimenti.

Quello che avevo visto non mi piaceva affatto.

O gli alti comandi erano stati molto ottimisti nel credere che avessimo impiegato forze preponderanti contro una base di ragni di poca importanza, o alle guardie nere era stato assegnato un punto dove le cose erano andate malissimo. Nei pochi istanti passati da quando ero uscito dalla lancia, avevo visto una mezza dozzina di tute potenziate sparse al suolo. Fossero di morti o di feriti recuperati, erano comunque troppe.

Inoltre, il mio schermo radar mostrava uno squadrone completo (il mio) intento a rilevare la posizione, ma solo pochi uomini in movimento per rientrare nelle lance. E quel rientro avveniva per di più senza nessun ordine.

Ero responsabile di quasi duemila chilometri quadrati di terreno nemico, e volevo assolutamente scoprire tutto il possibile prima che i miei uomini vi si sparpagliassero. Il piano di battaglia prevedeva un’inquietante nuova opzione strategica: lasciare aperte le gallerie dei ragni. Blackie ce ne aveva parlato come se si trattasse di una trovata geniale partita da lui, ma dubitavo molto che ne fosse soddisfatto.

La strategia era semplice, e forse anche logica, ammesso che potessimo sopportare le perdite conseguenti: lasciare che i ragni salissero, affrontarli, ucciderli in superficie.

Dopo un certo tempo, un giorno, due giorni, una settimana, se le nostre forze erano davvero preponderanti, i ragni avrebbero smesso di sciamare dalle gallerie. Il comando supremo aveva calcolato (non chiedetemi come) che i ragni avrebbero sacrificato dal 70 al 90 per cento dei loro guerrieri prima di darsi per vinti. Dopodiché avremmo tentato di catturare viva la “nobiltà”, uccidendo i guerrieri superstiti via via che ci introducevamo nelle gallerie.

Conoscevamo l’aspetto dei cervelli, li avevamo visti morti, in fotografia, e sapevamo che non potevano fuggire. Erano forniti di gambe poco funzionali, e avevano corpi gonfi, composti più che altro da sistemi nervosi. Le regine nessuno le aveva mai viste, ma i corpi di Biologia bellica avevano elaborato modelli circa il loro probabile aspetto: mostri laidi, più grossi di un cavallo e assolutamente immobili.

Oltre ai cervelli e alle regine potevano esserci altre figure. In ogni modo, l’ordine era di lasciare affiorare in superficie i guerrieri, poi catturare vivi tutti quanti, salvo i guerrieri e gli operai.

Molto bello e logico, sulla carta. Per quanto mi riguarda, sapevo solo di dovere pattugliare un’area di sessanta chilometri per trentacinque che poteva rivelarsi densamente cosparsa di buchi aperti. Volevo le coordinate di ciascuno di essi.

Se ce n’erano troppi… be’ avrei potuto accidentalmente tapparne qualcuno e lasciare che i miei ragazzi sorvegliassero gli altri. Un soldato semplice in tuta da predatore può coprire un bel po’ di terreno, ma può guardare solo una cosa per volta, non è un superuomo.

Balzai avanti, precedendo la mia pattuglia di testa di parecchi chilometri, continuando a chiamare il comandante di squadrone dei cherubini. Tentai di mettermi in contatto con uno qualsiasi dei loro ufficiali inviando le coordinate del mio risponditore a segnale (dah-di-dah-dah).

Nessuna risposta.

Ricevetti invece una risposta dal mio comandante. — Johnnie! Piantala di chiamare. Rispondimi sul circuito di comando.

Obbedii, e Blackie mi informò che era inutile cercare il comandante dei cherubini: nessuno ormai li guidava. Forse qualche sottufficiale era ancora vivo da qualche parte, ma la catena di comando si era spezzata.

Secondo le regole, qualcuno viene sempre fatto avanzare di grado. Ma questo non accade se troppi anelli sono stati distrutti, come mi aveva messo in guardia una volta il colonnello Nielssen in un passato assai remoto… quasi un mese prima.

Il capitano Chang era entrato in azione con tre ufficiali. Adesso ne era rimasto uno solo (Abe Moise, mio compagno di corso), e Blackie stava cercando di sapere qualcosa da lui. Abe non gli fu di molto aiuto. Quando mi unii al colloquio e mi feci riconoscere, Abe credendomi il suo comandante di battaglione mi fece un rapporto di una precisione straziante, anche perché non aveva alcun senso.

Blackie lo interruppe e mi ordinò di proseguire: — Dimentichiamo la faccenda delle consegne da rilevare. La situazione è quella che ci si presenta. Non c’è che da guardarsi attorno e prenderne atto.

— D’accordo! — Sfrecciai attraverso la mia area verso l’angolo più lontano, quello di raccordo con gli altri reggimenti. Procedevo alla massima velocità, e intanto masticavo circuiti. — Sergente! Quel segnale?

— Impossibile piantarlo, signore. In quel punto c’è un cratere appena aperto, di ampiezza sei, circa.

Fischiai mentalmente. In un cratere sei ci stava tutta quanta la Tours. Uno dei sistemi difensivi a cui i ragni ricorrevano, quando noi eravamo in superficie e loro sottoterra, erano le mine. (Apparentemente non usavano mai missili, tranne che dalle navi spaziali.) Se vi trovavate sul posto, la scossa sismica vi trascinava sotto mentre se eravate in aria l’onda d’urto poteva mettervi fuori uso i giroscopi e annientare i comandi della tuta.

Il cratere più grande che avevo visto era di ampiezza quattro. Si diceva che i ragni non utilizzassero esplosioni sotterranee più forti per non danneggiare i loro rifugi.

— Sistemi il segnale dove è possibile — ordinai — e avverta i comandanti di squadra e di pattuglia.

— Già fatto, signore. Angolo uno zero, uno punto tre. Dovrebbe poterlo vedere, spostandosi sul tre tre cinque, da dove si trova. — Era calmo come un sergente istruttore durante le esercitazioni. Mi chiesi se la mia voce fosse altrettanto tranquilla.

Individuai il segnale sul mio radar, sopra il sopracciglio sinistro: una lunga e due brevi. — Benissimo. Vedo che la pattuglia di Cunha è quasi arrivata. La faccia spostare, inviandola a pattugliare il cratere. Ridistribuisca le aree… Brumby dovrà penetrare verso l’interno per altri sei chilometri. — Pensavo, preoccupato, che ogni uomo aveva già trentacinque chilometri quadrati da pattugliare, ridistribuendo le aree si sarebbe arrivati a circa quarantaquattro, e un ragno può saltare fuori da un buco largo meno di un metro e mezzo.

Chiesi: — È molto “carico” il cratere?

— Ha i bordi rosso ambra, signore. Dentro non ci sono stato.

— E non ci vada. Controllerò io più tardi. — Rosso ambra ai bordi, quindi tanto radioattivo da uccidere un uomo senza tuta, mentre la tuta potenziata permetteva di aggirarsi là intorno per diverso tempo. E se i bordi erano così carichi, il fondo avrebbe potuto senza dubbio friggervi i bulbi oculari! — Dica a Naidi di ritirare Malan e Bjork dalla zona ambrata, inviandoli ai dispositivi di ascolto. — Due delle mie cinque reclute si trovavano in quella prima battaglia, e le reclute sono come i cuccioli, ficcano il naso dappertutto.

— Dica a Naidi che mi interessano due cose: i movimenti all’interno del cratere e i rumori sul territorio circostante. — Non potevamo mandare fanti nel buco con un livello di radioattività tale da stroncarli. Ma i ragni lo avrebbero fatto, se in quel modo avessero potuto colpirci.

— Naidi deve fare rapporto a me, a me e a lei, intendo dire.

— Sissignore. — Poi, il mio sergente di battaglione aggiunse: — Posso offrire un suggerimento?

— Certo. E la prossima volta eviti di chiedermi il permesso.

— Navarre può occuparsi del resto della prima squadra. Il sergente Cunha può portare la pattuglia al cratere e lasciare Naidi libero di sovrintendere all’ascolto dei rumori a terra.

Sapevo a che cosa stava pensando. Naidi, divenuto caporale così di recente da non avere mai guidato una pattuglia sul terreno prima di allora, non era esattamente l’uomo adatto a tenere sotto controllo quello che sembrava essere il punto più pericoloso dell’organigramma uno. Il sergente voleva far tornare indietro Naidi per la stessa ragione per cui io avevo richiamato le reclute.

Mi chiedevo se sapesse a che cosa stavo pensando. Quello “schiaccianoci”… stava usando la tuta che aveva indossato quale membro del battaglione di Blackie, aveva un circuito in più rispetto a me, un circuito privato con il capitano Blackstone.

Blackie probabilmente era collegato e stava ascoltande attraverso quel circuito extra. Ovviamente il sergente non era d’accordo con le disposizioni che avevo impartito al mio battaglione. Se non avessi seguito il suo consiglio, probabilmente la prossima cosa che avrei sentito sarebbe stata la voce di Blackie che interveniva: — Sergente assuma il controllo. Signor Rico, lei è esonerato.

La situazione, però, era complicata in quanto un caporale a cui non è permesso comandare la sua pattuglia non era un caporale, così come un caposquadrone ridotto a fantoccio che fa da ventriloquo per il suo sergente di squadrone non era altro che una tuta vuota!

Non ci riflettei a lungo, fu solo un pensiero fugace e risposi senza esitare. — Non posso permettermi di destinare un caporale a fare da balia a due reclute. Né un sergente a comandare quattro soldati semplici e una lancia.

— Ma…

— Niente ma. La guardia al cratere dovrà avere il cambio ogni ora. Voglio che venga eseguita alla svelta una prima esplorazione del terreno. I capipattuglia controlleranno ogni buco segnalato, e vi installeranno un segnale luminoso, in modo che i capisquadra, il sergente e il comandante di squadrone possano controllarli via via che li raggiungono. Se non saranno troppi, metteremo un uomo di guardia a ciascuno. Deciderò in seguito.

— Sissignore.

— In un secondo tempo, voglio una perlustrazione più lenta, per individuare i buchi che possono essere sfuggiti durante la prima ricognizione. I vicecapipattuglia rileveranno le coordinate di ogni fante, o tuta, che vedranno a terra. I cherubini potrebbero avere lasciato feriti sul terreno. Ma nessuno deve fermarsi a controllare i caduti finché non lo ordinerò io. Dobbiamo prima conoscere la situazione dei ragni.

— Sissignore.

— Qualche suggerimento, sergente?

— Sì, uno. Penso che sarebbe meglio usare i visualizzatori anche durante questo primo giro.

— Molto bene, fate così. — Non aveva torto: la temperatura dell’aria in superficie era molto più bassa di quella delle gallerie in cui si nascondevano i ragni, di conseguenza un foro di ventilazione ben mimetizzato ai raggi infrarossi avrebbe mostrato un bel pennacchio di vapore, come un soffione. Controllai il radar. — I ragazzi di Cunha sono quasi al limite. Tocca a voi.

— Benissimo, signore!

— Chiudo. — Mi sintonizzai sul circuito globale e continuai a dirigermi verso il cratere. Stavo in contatto con tutti, mentre il mio sergente di squadrone ripassava il piano, escludendo una pattuglia, mandata al cratere, facendo iniziare al resto della prima sezione una retromarcia a due pattuglie e intanto mantenendo la seconda sezione in un movimento rotatorio come pianificato, ma con un aumento di profondità pari a sei chilometri. Fece muovere le sezioni, le abbandonò e si rimise in contatto con la prima pattuglia mentre convergeva al punto situato all’angolo del cratere, le diede le istruzioni, passò dietro ai capisquadra perfettamente in tempo per dare loro un nuovo segnale a cui dovevano appoggiarsi per continuare la loro missione.

Lo fece con la brillante precisione di un tamburo in parata ed eseguì tutto più velocemente di quanto avrei potuto fare io e anche con meno parole. Impartire ordini complessi durante un’azione con tute potenziate, quando la truppa è sparpagliata su un’area di vari chilometri, è molto più complicato che sincronizzare con tronfia precisione una parata. Inoltre, tutto deve essere assolutamente preciso, oppure durante l’azione stacchi la testa del tuo compagno… o, come in questo caso, ripulisci due volte una parte del terreno e ne lasci fuori un’altra.

Ma chi guida un’azione dispone solo di una schermata radar della sua formazione e con gli occhi può vedere solo gli uomini vicini a lui. Mentre ascoltavo guardai sul mio schermo, dove davanti al mio volto apparivano lucciole in formazioni precise, che procedevano a passo di lumaca in quanto perfino sessanta chilometri all’ora rappresentano un movimento lentissimo quando si comprime una formazione nello schermo visibile a un uomo.

Ascoltavo tutti contemporaneamente perché volevo sentire le reazioni delle diverse pattuglie.

Non ce ne furono. Cunha e Brumby trasmisero gli ordini ricevuti, poi tacquero. I caporali si fecero udire solo per ordinare i necessari spostamenti delle pattuglie. Di tanto in tanto qualche voce raccomandava correzioni di intervallo o di allineamento. I soldati non aprivano nemmeno bocca.

Il respiro di cinquanta uomini mi giungeva come il ritmo della risacca, rotto soltanto dagli ordini indispensabili e concisi. Blackie aveva detto la verità: lo squadrone mi era stato consegnato “accordato come un violino”.

Non avevano nessun bisogno di me! Potevo andarmene a casa, e lo squadrone se la sarebbe cavata altrettanto bene. Forse meglio.

Non ero sicuro di avere fatto bene a spedire Cunha a sorvegliare il cratere. Se fosse accaduto qualche guaio e non si fossero potuti raggiungere in tempo quei ragazzi, la giustificazione che mi ero comportato “secondo il regolamento” sarebbe stata inutile. Se si restava uccisi, o si permetteva che qualcun altro ci rimettesse le penne, il fatto che tutto fosse svolto “secondo il regolamento” sarebbe stata una ben magra consolazione.

Mi chiedevo se i bulli avessero un posto libero per un sergente scaricato.


La nostra zona era quasi tutta pianeggiante, come la prateria attorno al campo Arthur Currie, e ancora più brulla. Non finivo di compiacermene. Quel terreno pianeggiante ci offriva la possibilità di individuare un ragno che usciva dalle viscere del terreno e aggredirlo immediatamente. Ma era l’unico vantaggio che avevamo. Eravamo disseminati su una zona così vasta che gli uomini si trovavano a sei chilometri di distanza l’uno dall’altro, con ricognizioni che si avvicendavano ogni sei minuti. Troppo poco, naturalmente, chiunque fosse pronto poteva restare inosservato per almeno tre o quattro minuti tra un’ondata di ricognizione e l’altra, e parecchi ragni potevano uscire da un buco minuscolo in tre o quattro minuti.

Ovviamente il radar poteva vedere più lontano dell’occhio, ma non offriva una visuale altrettanto precisa.

Inoltre, non ci azzardavamo a usare altro che armi selettive e a breve gittata. I nostri commilitoni erano disseminati ovunque. Se saltava fuori un ragno e facevi partire qualcosa di letale, potevi stare certo che non molto lontano c’era un fante. Questo limitava fortemente la gamma e la forza degli ordigni che ti azzardavi a usare. In quest’operazione solo ufficiali e sergenti di squadrone erano armati con razzi, ma il loro uso non era previsto. Se un razzo falliva il suo obiettivo, aveva la pessima abitudine di continuare a cercare finché non ne trovava uno. Non sapeva distinguere i nemici dagli amici, in un piccolo razzo può essere rinchiuso solo un cervello abbastanza stupido.

Sarei stato felice di scambiare quell’area da pattugliare, con qualsiasi altra missione, per esempio con un semplice attacco a un solo squadrone in cui si sa dove sono i propri uomini e tutto il resto è un nemico da colpire.

Non perdevo tempo a lamentarmi. Tentavo di tenere d’occhio il terreno e lo schermo radar contemporaneamente. Nel frattempo procedevo veloce verso il cratere. Strada facendo non vidi nessun buco da cui potessero uscire i ragni, ma balzai al di là di un canalone asciutto, una specie di canyon, che poteva contenerne a volontà. Non mi fermai a guardare. Mi limitai a comunicarne le coordinate al mio sergente di squadrone dicendogli di mandare qualcuno a controllare.

Il cratere era più grande di quanto avessi immaginato: la Tours ci sarebbe entrata diverse volte. Lessi sul mio contatore la carica radioattiva del fondo e delle pareti, e scoprii che il livello era eccessivo perfino per le protezioni della tuta. Calcolai l’ampiezza e la profondità con il sonar del casco, poi feci una breve ricognizione per individuare aperture che immettessero nel sottosuolo.

Non ne trovai, mi imbattei invece negli uomini di guardia degli squadroni laterali del Primo e del Quinto reggimento. Pensai di mettermi d’accordo per dividere la guardia in tre settori, in modo che ciascuno di essi potesse invocare l’aiuto degli squadroni vicini tramite il tenente Do Campo dei cacciatori, che stava alla nostra sinistra. Poi rimandai Naidi e parte della sua pattuglia (comprese le reclute) a raggiungere il resto dello squadrone, e riferii il tutto al comandante e al mio sergente di plotone.

— Capitano — dissi a Blackie — non avvertiamo alcuna vibrazione del suolo. Scendo all’interno alla ricerca dei fori. Dai dati risulta che non dovrei accumulare una dose di radiazioni troppo alta, sempre che…

— State alla larga da quel cratere.

— Ma capitano, pensavo solo di…

— Silenzio. Ho detto alla larga.

— Sissignore.

Le nove ore che seguirono furono di una noia mortale. Eravamo stati precondizionati per quaranta ore di servizio (due rivoluzioni del pianeta P) per mezzo di un sonno forzato, un’elevata somministrazione di zuccheri e un indottrinamento ipnotico. Inoltre le tute sono predisposte per soddisfare autonomamente le varie esigenze corporee. Le tute hanno certo dei limiti di autonomia, ma ogni uomo è dotato di una dose extra di carburante e cartucce d’ossigeno per la ricarica. Ma una pattuglia senza azione si annoia, distraendosi facilmente.

Feci del mio meglio per animare le truppe: stabilii turni in cui il sergente di squadrone e io ci alternavamo nel servizio di ronda con Cunha e Brumby (lasciando così che i sergenti avessero tempo di andarsene in giro), ordinai che le ricognizioni avvenissero secondo uno schema sempre diverso, in modo che ogni uomo dovesse controllare di volta in volta una zona di terreno nuovo. Ci sono innumerevoli metodi per coprire una data area, alternando le possibili combinazioni. Inoltre consultai il mio sergente di plotone e annunciai che ci sarebbero stati punti di merito da assegnare per il primo buco scoperto, per il primo ragno ucciso e così via. Trucchetti da esercitazione, ma sempre utili per tenere desta l’attenzione degli uomini. Un uomo attento è spesso un uomo che se la cava.

Alla fine ricevemmo la visita di un’unità speciale: tre ingegneri in aviovettura da campo, che scortavano un individuo specialissimo: una specie di rabdomante spaziale. Blackie mi avvertì di tenermi pronto a riceverli. — Proteggeteli e fate tutto quello che vi diranno.

— Sissignore. Di che cosa avranno bisogno?

— E che ne so? Fate tutto quello che vi ordina il maggiore Landry.

— Il maggiore Landry. Sissignore.

Trasmisi l’ordine, e andai a riceverli incuriosito: non avevo mai visto uno di quei talenti speciali al lavoro. Planarono entro i limiti della mia zona, verso il fondo a destra, e scesero a terra. Il maggiore Landry e i due ufficiali portavano la tuta ed erano armati di lanciafiamme, ma il prodigio non aveva né tuta né armi, solo una maschera a ossigeno. Indossava un’uniforme senza insegne e pareva annoiato di tutto e tutti. Non gli fui presentato. A prima vista sembrava un ragazzo di sedici anni, ma guardandolo meglio notai che aveva una fitta rete di rughe attorno agli occhi stanchi.

Nello scendere a terra si tolse la maschera. Inorridito, mi rivolsi al maggiore Landry, avvicinando il mio casco al suo, senza utilizzare la radio. — Maggiore… qua intorno l’aria è radioattiva. E poi ci hanno avvertiti che…

— Zitto — ordinò il maggiore. — Lui lo sa benissimo.

Tacqui. Il prodigio si allontanò per un breve tratto, girò su se stesso, si morse il labbro inferiore. Teneva gli occhi chiusi e pareva assorto.

Poi aprì gli occhi e disse, seccato: — Come si fa a lavorare con tutta questa gente che si muove attorno?

Il maggiore Landry ordinò brusco: — Fate congelare lo squadrone.

Feci per protestare, ma poi mi inserii sul circuito globale: — Primo squadrone guardie nere, a terra e congelarsi!

Lo squadrone di Silva era un modello di disciplina: il mio ordine venne ripetuto dalle voci dei capisquadra, poi ritrasmesso ai capipattuglia, e infine eseguito senza un commento di protesta.

— Maggiore — dissi — posso permettere agli uomini di strisciare sul terreno?

— No. E taccia.

Il sensitivo risalì sulla vettura, e si rimise la maschera. Non c’era posto per me, ma mi venne ordinato di aggrapparmi e lasciarmi trasportare. Sorvolammo un paio di chilometri per poi riatterrare. Il sensitivo si tolse di nuovo la maschera e fece un giretto. Stavolta parlò a uno degli ufficiali ingegneri, il quale annuì e cominciò a disegnare qualcosa su un blocchetto.

L’unità in missione speciale atterrò circa una dozzina di volte sulla mia area, e in ogni occasione rifece esattamente le stesse cose, poi si spostò nella zona presidiata dal Quinto reggimento. Prima di andarsene, l’ufficiale che aveva continuato a tracciare disegni estrasse un foglio dal fondo di una scatola che faceva da sostegno al blocchetto e me lo porse. — Qui c’è la sua mappa sotterranea. La larga striscia rossa è l’unica arteria principale dei ragni situata nella sua area. È a circa trecento metri di profondità. Verso il fondo, a sinistra, sale fino a raggiungere una profondità di soli trentacinque metri nel punto di uscita. Il tratteggio azzurro chiaro è una grossa colonia di ragni. Le ho segnato l’unico punto in cui la colonia si trova a soli trenta metri di profondità. In quel punto può mettere alcuni uomini in ascolto, in attesa che torniamo per provvedere.

Guardai la mappa. — Ci si può fidare di questa?

L’ingegnere lanciò un’occhiata verso il sensitivo, poi rivolto a me, sottovoce: — Ma certo, idiota! Che cosa vuole fare? Sconvolgerlo e farlo uscire dal suo stato di raccoglimento?

Se ne andarono mentre studiavo la mappa. L’ingegnere aveva tracciato due schizzi, e la scatola sulla quale poggiavano i foglietti li aveva riprodotti riunendoli in un’unica stereofotografia del sottosuolo per una profondità di trecento metri. Ero così meravigliato che dovettero ricordarmi di annullare l’ordine di congelamento. Poi ritirai dal cratere gli addetti all’ascolto del suolo, tolsi due uomini a ciascuna pattuglia, diedi loro le coordinate indicate da quella mappa infernale e li dislocai in ascolto lungo l’arteria principale dei ragni e sopra l’agglomerato dei rifugi.

Infine, feci rapporto a Blackie. Mi interruppe mentre gli fornivo le coordinate delle gallerie dei ragni. — Il maggiore Landry mi ha fornito un facsimile della mappa. Mi dia solo le coordinate dei suoi punti d’ascolto.

Gliele diedi. Disse: — Niente male, Johnnie. Però non risponde ai miei criteri. Ha messo più ascoltatori del necessario nei punti già noti. Ne allinei quattro lungo l’arteria principale, e altri quattro attorno alla colonia. Gliene restano ancora quattro. Ne metta uno nel triangolo formato dall’angolo posteriore destro con l’arteria principale dei ragni. Gli altri tre nell’area più vasta, dal lato opposto dell’arteria.

— Signorsì. — Poi aggiunsi: — Capitano, possiamo fidarci di questa mappa?

— Che cos’è a preoccuparla?

— Non so… La cosa ha l’aria di una stregoneria. Magia nera, diciamo.

— Ah, ragazzo mio, ho un messaggio speciale per lei, da parte del maresciallo dello spazio. Mi raccomanda di dirle che la mappa è ufficiale, e che penserà lui a tutto, in modo che lei possa dedicarsi in santa pace allo squadrone. Capito?

— Mmm… sì, capitano.

— Però i ragni possono scavare gallerie molto in fretta, quindi riservi un’attenzione particolare ai punti d’ascolto collocati al di fuori dell’area delle gallerie già note. Ogni rumore che sia più forte di un batter d’ali di farfalla dev’essere comunicato immediatamente, di qualunque natura sia.

— Sissignore.

— Quando scavano, fanno un rumore simile al lardo che frigge… nel caso non l’avesse mai sentito. Adesso fermi i giri di ricognizione. Lasci un uomo di vedetta al cratere. Faccia riposare metà dello squadrone per due ore, e intanto l’altra metà si alternerà ai turni di ascolto.

— Sissignore.

— Forse verranno altri ingegneri. Ecco il piano rivisto. Una compagnia di guastatori farà saltare il tunnel principale nel punto in cui corre vicino alla superficie, o al vostro lato sinistro, o più in là, dove penetra nel territorio dei cacciatori. Contemporaneamente, un’altra compagnia farà la stessa cosa alla vostra destra, nel punto in cui la galleria penetra nell’area del Primo reggimento. Appena sistemate le mine e tappate alcune uscite, un lungo tratto dell’arteria principale salterà in aria. La stessa cosa avverrà in parecchi altri punti. Dopodiché, si vedrà. O i ragni affioreranno in superficie, e avremo una battaglia corpo a corpo, oppure se ne staranno rintanati, e allora scenderemo ad affrontarli, invadendo un settore alla volta.

— Capisco. — Non ero affatto sicuro di capire, ma avevo compreso la parte che mi spettava: cambiare l’ordinamento dei posti d’ascolto e mandare metà dello squadrone a dormire. Poi, sarebbe iniziata una caccia ai ragni, in superficie se avevamo fortuna, sottoterra in caso contrario.

— Faccia in modo che il suo fianco si metta in contatto, appena arriva, con la compagnia dei guastatori. Li aiuti se ne avranno bisogno.

— Va bene capitano — assentii di cuore. Gli ingegneri sono una squadra altrettanto buona della fanteria. È un piacere lavorare con loro. In situazioni di emergenza combattono, forse non sono molto esperti ma hanno coraggio. Oppure continuano a fare il loro lavoro, senza neppure sollevare la testa mentre la battaglia infuria intorno a loro. Hanno un motto ufficioso, molto cinico e molto antico: “Prima li staniamo, poi moriamo con loro”. Questo a sostegno del loro motto ufficiale: “Si può fare!”. Entrambi sono veri alla lettera.

— Proceda figliolo.

Dodici postazioni d’ascolto significavano che potevo posizionare metà pattuglia a ogni postazione, o un capitano o la sua lancia, più tre soldati semplici, permettendo così a due membri di ciascun gruppo di quattro di dormire mentre gli altri facevano i turni d’ascolto. Navarre e la seconda squadra inseguitori potevano sorvegliare il cratere e dormire, mentre i sergenti potevano assumere il controllo degli squadroni a turno. Questa ridisposizione richiese meno di dieci minuti, una volta che ebbi spiegato i dettagli del piano e fornito l’orientamento ai sergenti. Nessuno doveva andare molto lontano. Avvertii tutti di tenersi pronti a ricevere la compagnia di ingegneri. Poi, appena le squadre mi fecero rapporto sulle nuove coordinate dei punti d’ascolto, aprii il circuito globale: — Numeri dispari! Prepararsi a dormire… uno… due… tre… quattro… cinque… dormite!

Una tuta non è un letto, ma può svolgere in qualche modo una funzione analoga. Uno dei vantaggi della preparazione ipnotica prelancio è che, nel caso ci sia la possibilità di riposare un poco (caso rarissimo), un uomo può venire addormentato all’istante da un ordine postipnotico e svegliato altrettanto rapidamente, già pronto per rimettersi a combattere. È una grande risorsa, questa: a volte, infatti, un uomo può essere così stanco da sparare a bersagli inesistenti senza vedere quelli a cui dovrebbe effettivamente sparare.

Per conto mio, però, non avevo intenzione di dormire. Non mi era stato ordinato, e non l’avevo chiesto. La sola idea di dormire mentre molte migliaia di ragni si trovavano probabilmente a poche decine di metri da me, mi faceva venire la pelle d’oca e i sudori freddi.

Forse i sensitivi erano infallibili, forse i ragni non avrebbero potuto raggiungerci senza allertare le nostre postazioni d’ascolto.

Forse, ma non potevo rischiare.

Attivai il mio circuito privato. — Sergente…

— Signorsì?

— Si faccia un pisolino. Starò io di guardia. Si sdrai e si prepari a dormire… uno… due…

— Scusi, signore. Avrei un piccolo suggerimento da proporre.

— Sì.

— Se ho ben capito il nuovo piano, nessuna azione è prevista per le prossime quattro ore. Potrebbe fare un sonnellino adesso, e poi…

— Niente da fare, sergente! Non voglio dormire. Voglio fare il giro dei punti d’ascolto e aspettare la compagnia dei guastatori.

— Benissimo, signore.

— Già che sono qui controllerò il tre. Lei resti con Brumby e si prenda un po’ di riposo mentre io…

— Johnnie!

Mi interruppi. — Sì, capitano? — Forse il vecchio era stato a sentire?

— Ha cambiato l’ordine degli addetti all’ascolto?

— Sì, capitano, e i miei numeri dispari stanno dormendo. Ora vado a ispezionare i singoli appostamenti. Poi…

— Lo lasci fare al sergente. Lei riposi.

— Ma, capitano…

— È un ordine. Uno… due… tre… Johnnie!

— Capitano, con il suo permesso, vorrei prima ispezionare i miei punti di ascolto. Poi dormirò, se lo dice lei, ma preferirei rimanere sveglio. Non…

La risata di Blackie mi risuonò all’orecchio. — Figliolo mio, ha dormito per un’ora e dieci minuti.

— Come, capitano?

— Controlli l’ora. — Controllai, e mi sentii un vero idiota. — È ben sveglio, ragazzo?

— Signorsì. Credo.

— Le cose si sono velocizzate. Chiami i numeri dispari e faccia dormire i pari. Se tutto va bene, riposeranno un’oretta. Ora si metta in giro, controlli il punto di ascolto, poi mi richiami.

Obbedii, e iniziai la mia ronda senza dire una parola al mio sergente di squadrone. Ero seccato con lui e con Blackie. Con il comandante per essere stato messo a dormire contro la mia volontà, e con il sergente, perché qualcosa mi diceva che tutto questo non sarebbe successo se il vero capo non fosse stato lui mentre io svolgevo il ruolo di una figura decorativa.

Ma dopo la visita di controllo ai posti tre e uno (nessun rumore, sebbene i due appostamenti fossero entrambi bene addentro nell’area dei ragni) mi calmai un poco. In fondo, prendersela con un sergente, sia pure un sergente maggiore, per una cosa ordinata dal capitano era stupido.

— Sergente…

— Sì, signor Rico.

— Vuole farlo un sonnellino insieme ai numeri pari? La sveglierò un paio di minuti prima degli uomini.

Esitò leggermente. — Signore, vorrei ispezionare anch’io quei punti.

— Non l’ha già fatto?

— No, signore. Durante l’ora passata ho dormito.

— Cosa?

Pareva imbarazzato. — Me l’ha ordinato il capitano. Ha messo Brumby al comando provvisorio e mi ha ordinato di addormentarmi subito dopo di lei.

Stavo per rispondere, poi scoppiai a ridere a più non posso. — Sergente, torniamocene a dormire in qualche posto tranquillo. Tanto, sprechiamo il nostro tempo, è il capitano Blackie che manda avanti il nostro squadrone.

— Signore — mi rispose, rigido — il capitano Blackstone non fa mai le cose senza una ragione seria.

Annuii riflettendo, senza ricordarmi che l’altro si trovava a una quindicina di chilometri da me. — Già, ha ragione, lui ha sempre i suoi buoni motivi. Mmmm… dato che ci ha fatto riposare entrambi, forse adesso ci vorrà tutti e due ben svegli e attivi.

— Dev’essere certamente così.

— Mmmm. Qualche idea del perché?

Ci mise tempo a rispondermi. — Signor Rico — disse lentamente — se il capitano lo sapesse ce lo direbbe. Non è tipo da lesinare le informazioni, che io sappia. Ma a volte fa le cose, in un certo modo, senza sapere neanche lui perché. Sono intuizioni, e io ho imparato a rispettarle.

— Sì, eh? Bene, i capisquadra hanno tutti il numero pari, quindi dormono.

— Sissignore.

— Allora dia l’allerta a tutti i vicecapisquadra. Non sveglieremo nessuno, ma quando dovremo farlo, forse i secondi saranno importanti.

— Giustissimo.

Controllai i punti avanzati che restavano, poi mi occupai delle quattro postazioni che circondavano il villaggio dei ragni, staccando l’audio dei miei impianti come facevano tutti gli addetti all’ascolto. Dovevo costringermi ad ascoltare perché li si poteva sentire, lì giù, cinguettare gli uni con gli altri. Volevo scappare, e restare impassibile ad ascoltarli era tutto quello che potevo fare per non darlo a vedere.

Mi chiedevo se lo “speciale talento” era semplicemente un uomo con un udito particolarmente sviluppato.

Be’, non importa come facesse, i ragni erano dove aveva detto lui. Al corso ufficiali avevamo avuto occasione di sentire alcune registrazioni dei rumori dei ragni. Dalle quattro postazioni si coglievano i tipici rumori di insetto prodotti da una grande città di enormi ragni. Quel cinguettio che poteva essere il loro modo di parlare (ma perché avrebbero dovuto avere bisogno di parlare se erano controllati a distanza dalla casta dei cervelloni?), un fruscio come di rami e foglie secche, un forte ronzio di sottofondo sembra tipico di ogni insediamento e presumibilmente prodotto da qualche macchinario, forse il loro sistema di aria condizionata.

Non sentivo il sibilo, lo schiocco che producevano quando si facevano strada attraverso la roccia.

Mi spostai per andare a ispezionare il punto dodici, situato in fondo a destra rispetto all’area dei ragni.

I suoni lungo il viale dei ragni erano diversi da quelli degli insediamenti. Un basso brusio che a brevi intervalli cresceva fino a diventare un rombo, come se stesse scorrendo un intenso traffico. Mi misi in ascolto alla postazione numero cinque, poi mi venne un’idea, l’avrei controllato facendomi gridare “segno” dagli uomini di guardia a ciascuna delle quattro postazioni lungo il tunnel, ogni volta che il rombo aumentava di intensità.

Subito dopo feci rapporto. — Capitano…

— Si Johnnie?

— Il traffico lungo questo condotto di ragni si sta muovendo tutto in una direzione, da me verso di lei. La velocità è di quasi centottanta chilometri all’ora, un carico transita una volta al minuto circa.

— Abbastanza frequenti — convenne. — Fa uno-otto con un avanzamento di cinquantotto secondi.

— Oh. — Mi sentii precipitare e cambiai argomento. — Non ho ancora visto la compagnia dei guastatori.

— Non la vedrà. Hanno scelto un punto collocato a metà della retrovia della zona dei cacciatori. Mi scusi, avrei dovuto informarla. C’è altro?

— No signore. — Interrompemmo la comunicazione e mi sentii meglio. Perfino Blackie poteva dimenticare… e non c’era nulla di sbagliato nella mia idea. Lasciai la zona del tunnel per ispezionare le postazioni d’ascolto a destra e dietro la zona dei ragni. Postazione dodici.

Anche qui c’erano due uomini che dormivano, uno che ascoltava e uno in attesa. Mi rivolsi a quello in attesa: — Avete percepito qualcosa?

— No signore.

L’uomo in ascolto, una delle mie cinque reclute, mi disse subito: — Signor Rico, ho l’impressione che il mio apparecchio sia guasto.

— Ora controllo — risposi. Lui si fece in là per lasciarmi mettere al suo posto.

“Lardo che frigge”, e lo sfrigolio era così forte che uno quasi immaginava un profumino inesistente.

Attivai il circuito globale. — Primo squadrone all’erta! Sveglia per tutti e mettersi immediatamente a rapporto!

Poi passai sul circuito ufficiali. — Capitano! Capitano Blackstone! Urgente!

— Calma, Johnnie. Faccia rapporto.

— Rumore di lardo che frigge, capitano — risposi, cercando disperatamente di mantenere la voce ferma. — Postazione dodici, alle coordinate Pasqua Nove.

— Pasqua Nove — ripeté Blackie. — Decibel?

Consultai in fretta il contatore dell’apparecchio. — Non lo so, capitano. Al limite massimo della scala. Dal baccano pare che i ragni si trovino proprio sotto di me!

— Bene! — approvò lui, e mi chiesi come potesse mostrarsi tanto soddisfatto. — La notizia migliore della giornata. E adesso ascolta, figliolo. Sveglia i tuoi numeri pari.

— Già fatto, signore!

— Bravo. Ritira due degli ascoltatori, mandali a controllare l’area tutt’intorno alla postazione dodici. Cerca di calcolare in quale punto i ragni potrebbero tentare l’uscita. E stateci tutti lontani! Capito?

— Capitano, ho sentito ma non ho capito affatto.

Sospirò. — Johnnie, mi farai venire i capelli bianchi. Ragazzo mio, noi vogliamo che vengano fuori, e più ne escono, tanto di guadagnato. Non hai la potenza di fuoco per occuparti di loro se non facendo saltare il loro tunnel appena raggiungono la superficie, e questa è una cosa che non devi assolutamente fare! Se escono in forze un reggimento non riuscirebbe a tenerli sotto controllo. Ma è proprio quello che vuole il generale, ha pronta in orbita una brigata pesante per affrontare il grosso delle truppe dei ragni, ma bisogna lasciarli uscire. Perciò cerca di individuare il punto da cui usciranno, tirati indietro e resta in osservazione. Se sarai tanto fortunato da avere un’irruzione in massa proprio nella tua area, otterrai una ricompensa. Perciò buona fortuna, e cerca di salvare la pelle. Ci sei?

— Signorsì. Individuare il punto d’uscita. Tirarsi indietro ed evitare lo scontro. Osservare e fare rapporto.

— Oh! Allora coraggio e al lavoro!

Ritirai gli addetti all’ascolto nove e dieci dal tratto centrale del “viale dei ragni” e li spedii verso le coordinate Pasqua Nove da destra e da sinistra, con l’ordine di fermarsi ogni mezzo chilometro per captare eventuali rumori di lardo che frigge. Nello stesso tempo mi allontanai dalla postazione dodici e mi spostai verso il fondo dell’area, controllando in quali punti il rumore diminuiva.

Intanto il mio sergente stava raggruppando lo squadrone sul davanti dell’area, tra la collina dei ragni e il cratere, lasciando al loro posto solo i dodici uomini destinati all’ascolto del suolo. Dato che avevamo l’ordine di non attaccare, entrambi ci preoccupavamo di tenere il grosso dello squadrone riunito, in modo da poterci soccorrere a vicenda in caso di aggressione.

Formammo una linea compatta disseminata su un percorso di otto chilometri con la squadra di Brumby a sinistra, vicino all’agglomerato cittadino dei ragni. Gli uomini venivano così a trovarsi a meno di trecento metri l’uno dall’altro (praticamente spalla a spalla, trattandosi di fanti spaziali mobili), mentre quelli rimasti ai punti di ascolto restavano a breve distanza da un fianco o dall’altro dello schieramento principale. Solo i tre addetti all’ascolto che operavano con me rimanevano tagliati fuori da ogni possibilità di aiuto immediato.

Avvertii Bayonne dei lupi e Do Campo dei cacciatori che non ero più di pattuglia, spiegai loro il perché, poi comunicai il nuovo schieramento al capitano.

— Va bene — brontolò. — C’è qualche indizio circa il punto d’uscita dei ragni?

— Pare che il centro si trovi intorno a Pasqua Dieci, capitano, ma è difficile localizzarlo con esattezza. Il rumore è molto forte in un’area di circa cinque chilometri per lato, che tende a ingrandirsi. Sto cercando di delimitarla riferendomi ai punti in cui il rumore cala al livello minimo. — Poi aggiunsi: — È possibile che stiano tracciando solo una nuova galleria orizzontale sotto la superficie?

Il capitano parve sorpreso. — Sì, è possibile, ma speriamo di no. Vogliamo che salgano allo scoperto. Johnnie, continua a controllare e informami se la fonte del rumore si sposta.

— Signorsì. Capitano…

— Che cosa c’è?

— Ci ha detto di non attaccare quando usciranno. Se usciranno. Ma che cosa dobbiamo fare? Siamo qui per fare unicamente da spettatori?

Seguì una lunga pausa, di quindici o venti secondi: forse Blackie si consultava con le alte sfere. Alla fine disse: — Signor Rico, non si deve attaccare nella zona di Pasqua Dieci. Altrove l’ordine è di dare la caccia ai ragni.

— Signorsì — approvai allegramente. — La caccia ai ragni.

— Johnnie! — aggiunse lui severo. — Se pensi di andare a caccia di medaglie invece che di ragni, e vengo a saperlo, il tuo modulo 31 sarà un vero disastro!

— Capitano — dissi molto serio — non penso affatto a guadagnarmi una medaglia. L’ordine è di dare la caccia ai ragni e questo è il mio unico obiettivo.

— Bravo. E adesso piantala di farmi perdere tempo.

Chiamai il sergente, gli spiegai i nuovi ordini, gli dissi di passare parola agli altri e di assicurarsi che ogni uomo avesse ricaricato la tuta di aria ed energia.

— Abbiamo finito adesso, signor Rico. Proporrei di dare il cambio agli uomini che sono con lei. — E menzionò tre rimpiazzi.

Non aveva torto, dato che i miei addetti all’ascolto del suolo non avevano avuto il tempo di ricaricare le tute. Gli uomini che il sergente nominò erano tutti e tre esploratori.

In cuor mio mi diedi della bestia. Una tuta da esploratore è veloce quasi quanto una tuta da comando, e ha velocità doppia rispetto a quella d’assalto. Avevo, infatti, la sensazione di avere dimenticato qualcosa, ma fino a quel momento mi ero detto che si trattava di nervosismo, causato dalla vicinanza dei ragni. Ora, invece, sapevo che quella sensazione era esatta. Mi trovavo solo, a una quindicina di chilometri di distanza dal mio squadrone, con un gruppetto di tre uomini, tutti e tre in tuta d’assalto. Se i ragni avessero fatto irruzione all’aperto, sarei stato sul serio nei pasticci, a meno che gli uomini che avevo con me non avessero potuto disporre di tute molto veloci.

— Molto bene — approvai — ma non ho più bisogno di tre uomini. Mi basta Hughes, me lo mandi subito. Gli dica di dare il cambio a Nyberg. Gli altri esploratori li usi per dare il cambio a quelli dei punti di ascolto più avanzati.

— Solo Hughes? — fece lui, dubbioso.

— Sì, è sufficiente. Prenderò io stesso il posto di uno degli ascoltatori. In due possiamo battere tutta l’area. Ormai sappiamo dove si trovano e dove stanno scavando i ragni. Che Hughes venga qui subito, scattando.

Nei trentasei minuti che seguirono non accadde niente.

Hughes e io battemmo tutta la zona attorno a Pasqua Dieci, ascoltando per cinque secondi alla volta e poi spostandoci. Non occorreva più nemmeno inserire il microfono nella roccia: bastava appoggiarlo al suolo per sentire chiaro e nitido il rumore caratteristico di lardo che frigge. L’area dei rumori si allargò, ma il centro rimase il medesimo. Solo una volta chiamai Blackstone per dirgli che il rumore era cessato, ma lo richiamai dopo tre minuti per dirgli che ricominciava come prima. Per il resto del tempo, usai solo il circuito esploratori, lasciando che il mio sergente badasse allo squadrone e ai punti di ascolto che restavano nelle sue vicinanze.

Alla fine di quell’intervallo successe di tutto.


Sul circuito esploratori una voce gridò: — Albert Due! Lardo che frigge!

Afferrai il circuito ufficiali. — Capitano! Lardo che frigge all’Albert Due, riquadro Uno! — Morsicai il circuito globale: — Lardo che frigge all’Albert Due, riquadro Uno di Blackie…

Immediatamente udii Do Campo che riferiva: — Rumori di lardo che frigge all’Adolf Tre, riquadro Dodici di Green.

Riferii la notizia a Blackie e, tornando sul mio circuito esploratori, sentii: — Ragni! Raaaagni! Aiuto!

— Dove?

Nessuna risposta. Morsicai di nuovo. — Sergente! Chi ha gridato aiuto?

— Da Bangkok Sei… Stanno sciamando dal sottosuolo!

— Colpiteli! — Richiamai Blackie. — Ragni a Bangkok Sei, Black Uno… li sto attaccando!

— Ho sentito il tuo ordine — mi rispose calmo. — Come andiamo a Pasqua Dieci?

— Pasqua Dieci è… — Il terreno sprofondò sotto di me e io mi trovai ingolfato tra i ragni.

Non so più cosa mi accadde. Non mi ero fatto male. Era stato come cadere in mezzo ai rami degli alberi, ma erano rami vivi, che continuavano a spingermi mentre i miei giroscopi protestavano e tentavano di mantenermi diritto. Precipitai per quattro o cinque metri, quanto bastava per trovarmi nel buio completo.

Poi una marea di mostri mi trasportò su, nella luce… e l’allenamento fece il resto. Atterrai in piedi, parlando e combattendo: — Irruzione a Pasqua Dieci… no, a Pasqua Undici, dove mi trovo ora. Una grossa buca ed escono a migliaia. — Avevo un lanciafiamme per ciascuna mano e mentre facevo rapporto bruciavo ragni a più non posso.

— Vieni via di là, Johnnie!

— Subito! — e feci per balzare via.

Ma mi fermai. Controllai i propulsori appena in tempo, smisi di usare i lanciafiamme, e guardai meglio… perché all’improvviso mi ero reso conto dell’errore commesso! — Correggo — dissi, guardando e non credendo ai miei occhi. — L’irruzione a Pasqua Undici è una finta. Niente guerrieri.

— Ripetere.

— Pasqua Undici, riquadro Uno. L’irruzione è tutta di operai, almeno per ora. Sono circondato dai ragni e continuano a uscire, ma nessuno di loro è armato, e i più vicini a me hanno l’aspetto caratteristico degli operai. Non sono stato attaccato — aggiunsi. — Capitano, crede che possa essere un trucco? Che la vera irruzione stia avvenendo altrove?

— Può darsi — fece lui. — Il tuo rapporto è stato inoltrato immediatamente alla divisione, lascia che siano loro a pensarci. Continua a controllare, però, e non fidarti. Forse non si tratta proprio di operai e potresti avere una brutta sorpresa.

— D’accordo, capitano. — Saltai molto in alto per estrarmi da quella massa di mostri innocui ma orribili.

La pianura brulla era coperta di forme nere che strisciavano in tutte le direzioni. Balzai di nuovo, chiamando: — Hughes! Rapporto!

— Ragni, signor Rico! A milioni. Li sto bruciando a tutt’andare.

— Hughes, guardali con attenzione. Qualcuno di loro combatte? O sono tutti operai?

— Oh… — Toccai terra e rimbalzai. Lui continuò: — Ehi, ha ragione! Come fa a saperlo?

— Riunisciti alla tua pattuglia, Hughes. — Aprii l’altro circuito. — Capitano, qui migliaia di ragni stanno uscendo da un numero imprecisato di buchi. Non sono stato attaccato. Ripeto: non sono stato attaccato. Se tra loro ci sono guerrieri, evidentemente sono camuffati da operai.

Non mi rispose.

Ci fu un lampo accecante alla mia sinistra, a una certa distanza, seguito da un altro ancora più lontano, proprio di fronte a me. Notai l’ora e la distanza. — Capitano Blackstone… risponda! — Tentai di rilevare il suo segnale mentre ero in aria, ma l’orizzonte era chiuso dai colpi sparati bassi nel riquadro Black Due.

Cambiai circuito. — Sergente! Può chiamarmi il capitano?

In quel preciso istante anche il segnale del mio sergente di squadrone si spense. Non avevo guardato il mio schermo da vicino. Il sergente si occupava dello squadrone e io avevo avuto parecchio da fare, prima ad ascoltare il terreno, poi a vedermela con qualche centinaio di ragni. Avevo staccato tutti i collegamenti tranne quelli con gli ufficiali che mi permettevano di tenere meglio sotto controllo la situazione.

Mi diressi in quella direzione sfruttando tutta la velocità della tuta. Dal quadro radar cercavo intanto di rilevare la posizione di Brumby e di Cunha. — Cunha! Dov’è il sergente di squadrone?

— Sta esplorando una buca, signore.

— Digli che sto per raggiungerlo. — Cambiai circuito senza aspettare la risposta. — Primo squadrone guardie nere a secondo squadrone… rispondete!

— Che cosa vuoi? — brontolò il tenente Khoroshen.

— Non riesco a comunicare con il capitano.

— È tagliato fuori.

— È morto?

— No. Ma è rimasto senza corrente ed è tagliato fuori.

— Ah. Allora è lei il comandante di compagnia?

— Sì. Ti serve aiuto?

— Ahhh… no. Signornò.

— Allora stai buono finché potrai cavartela da solo — mi ordinò Khoroshen. — Ho molto da fare, io.

— Bene, comandante. — D’improvviso mi ero accorto che anch’io avevo molto da fare. Mentre parlavo con Khoroshen, avevo regolato il quadro di visualizzazione su una scala più bassa, dato che ormai ero nelle vicinanze del mio squadrone, vedendo la mia prima squadra sparire, un uomo dopo l’altro, e il primo a sparire era stato Brumby.

— Cunha! Che cosa sta combinando la prima squadra?

La sua voce mi arrivò stravolta. — Stanno seguendo il sergente di squadrone giù per la buca.

Può darsi che il regolamento preveda un caso del genere, ma io lo ignoro. Brumby aveva forse agito senza aspettare gli ordini? Oppure aveva ricevuto ordini che io non avevo sentito? Be’, ormai era già dentro la buca, non poteva né vedermi né sentirmi. E non era certo quello il momento di invocare le norme disciplinari. Avremmo fatto i conti l’indomani, se ci fosse stato un domani.

— Benissimo — dissi. — Adesso arrivo anch’io. — L’ultimo balzo mi portò in mezzo a loro. Vidi un ragno alla mia destra, e lo guardai bene prima di colpirlo. Questa volta non si trattava di un operaio: nel muoversi aveva fatto fuoco.

— Ho perso tre uomini — mi comunicò Cunha, ansante. — Non so quanti ne abbia persi Brumby. I ragni sono sbucati contemporaneamente da tre punti, e così abbiamo subito perdite. Ma adesso stiamo contrattaccando.

Una tremenda onda d’urto mi colpì mentre saltavo di nuovo, sbilanciandomi. Tre minuti e trentasette secondi, pari a quarantotto chilometri. Erano forse i nostri guastatori che facevano saltare le mine? — Primo squadrone! Tenersi pronti per la prossima onda d’urto! — Atterrai alla meglio, quasi alla sommità di un gruppo di tre o quattro ragni. Non erano morti, ma non combattevano. Li gratificai di una granata e saltai di nuovo. — Colpiteli adesso! — ordinai. — Sono tramortiti. E tenetevi pronti alla prossima…

La seconda esplosione ci colpì mentre dicevo quelle parole. Non fu molto violenta. — Cunha! Chiama all’appello il plotone. Tutti si tengano pronti, e cerchiamo di tenere testa ai ragni.

L’appello fu lento e pieno di interruzioni. Troppi vuoti, purtroppo. Ma il repulisti dei ragni avveniva in modo rapido e preciso. Io stesso ne feci fuori una mezza dozzina. Notai che l’effetto dell’urto li colpiva molto più di noi. Poi mi chiesi perché non indossassero l’armatura. Forse il loro ragno-cervello, laggiù nel sottosuolo, era rimasto stordito?

L’appello rivelò diciannove presenti, due morti, due feriti e tre fuori combattimento in seguito a danni alle tute, a due delle quali Navarre stava già provvedendo recuperando le batterie dalle apparecchiature dei morti e dei feriti. La terza tuta era danneggiata all’impianto radio e radar, e non si poteva ripararla, per cui Navarre assegnò l’uomo a guardia dei feriti. Di più non potevamo fare per soccorrerli, finché non ci avessero dato il cambio.

Nel frattempo, con il sergente Cunha, ispezionavo le tre buche da cui i ragni avevano fatto irruzione in superficie. Un confronto con la mappa del sottosuolo evidenziò che, com’era prevedibile, avevano aperto delle uscite nei punti in cui i loro tunnel erano più vicini alla superficie. Una buca era chiusa, era un cumulo di rocce sparpagliate. Nella seconda non si vedevano ragni, ma ordinai a Cunha di lasciare lì due uomini, con l’ordine di uccidere i nemici a uno a uno o di chiudere la buca con una bomba se per caso riprendevano a uscire in massa. Faceva presto il maresciallo dello spazio a dire di lasciarle aperte… Io avevo a che fare con una situazione da risolvere, non con una teoria.

Poi guardai nella terza buca, quella dentro la quale era sparito il mio sergente maggiore con metà del mio squadrone.

Un corridoio saliva fino a sei metri sotto la superficie, e i mostri non avevano fatto altro che sfondare il tetto per quattro o cinque metri. Da che cosa fosse causato il rumore di lardo che frigge, mentre perforavano la roccia, proprio non saprei dirlo. Il tetto di roccia, comunque, non c’era più, e le pareti della buca erano in pendio e scanalate. Dalla mappa risultava che quel foro immetteva nel corridoio principale, mentre le altre due salivano da piccole gallerie laterali. Quindi l’attacco principale era avvenuto da qui, e gli altri erano serviti solo da diversivo, per seminare il disordine nelle nostre fila.

Forse i ragni potevano vedere attraverso la roccia solida?

Dentro la buca non si vedeva niente, né ragni né uomini. Cunha mi indicò la direzione in cui era sparito il secondo squadrone.

Erano passati sette minuti e quaranta secondi da quando il sergente maggiore era sceso, e Brumby l’aveva seguito alla distanza di una ventina di secondi. Sbirciai nel buio, deglutii e tentai di vincere la nausea. — Sergente Cunha, prendi il comando della tua squadra — dissi, cercando di mantenere un tono energico. — Se ti serve aiuto, chiama il tenente Khoroshen.

— Ordini, signore?

— Nessuno. A meno che non ne arrivino dallo spazio. Io vado giù a cercare la seconda squadra, e può darsi che per un po’ ci si perda di vista. — Poi mi gettai dentro la buca, prima che mi venisse a mancare il coraggio.

Dietro di me sentii: — Squadra!

— Prima pattuglia… Seconda pattuglia… Terza pattuglia…

— Per pattuglie, seguitemi. — E Cunha si infilò nella buca dietro di me.

Be’, così ci si sente molto meno soli, effettivamente.


Ordinai a Cunha di lasciare due uomini all’ingresso della buca, per coprirci le spalle, poi guidai gli altri lungo la galleria già percorsa dalla seconda squadra. Ci muovevamo il più in fretta possibile, cosa non facile visto che la parte superiore del tunnel era proprio sopra le nostre teste. Con una tuta potenziata un uomo si può muovere come se stesse pattinando, senza sollevare i piedi. Non è né facile né naturale, ma senza armamento avremmo potuto spostarci a grandissima velocità.

Subito dovemmo ricorrere ai visualizzatori, e questo confermava l’idea secondo cui i ragni vedevano grazie ai raggi infrarossi.

Il tunnel, visto attraverso le nostre apparecchiature, era bene illuminato. Per il momento si estendeva sempre uguale, con pareti a volta e il pavimento liscio e regolare.

Arrivati all’incrocio con un’altra galleria, mi fermai interdetto. Esistono molte regole su come disporre le forze d’assalto nel sottosuolo, ma a che cosa ci servivano? Chi le aveva stabilite di certo non le aveva mai messe in pratica, perché prima dell’Operazione Nobiltà nessuno era mai tornato su per dirci se funzionavano o meno.

Una delle tattiche consigliava di lasciare un uomo di guardia a ogni intersezione. Ma io ne avevo già lasciati due all’imbocco del tunnel, e se continuavo a disperdere forze rischiavo di diminuire le possibilità di difesa.

Decisi che saremmo rimasti tutti insieme e nessuno di noi si sarebbe lasciato catturare. Non dai ragni. Meglio una morte rapida e definitiva. Con quella decisione, la mia mente si liberò da un peso, e mi sentii molto più tranquillo.

Scrutai cautamente lungo l’altro tunnel, da tutt’e due le parti. Niente ragni. Così gridai, usando il circuito sottufficiali: — Brumby!

Il risultato fu sconcertante. Di solito, quando si usano i circuiti radio della tuta, si riesce a sentire sì e no la propria voce. Ma lì, sottoterra, in quel dedalo di corridoi, la mia voce mi ritornò ingigantita.

Quell’eco rintronava le orecchie. E subito dopo udii: — Signooor Riicooo!

— Parla sottovoce — raccomandai, sussurrando a fior di labbra. — Dove siete?

Brumby mi rispose, con voce meno assordante: — Non lo so, signore. Ci siamo smarriti.

— Niente paura. Stiamo venendo a cercarvi. Non potete essere lontani. Il sergente di squadrone è con voi?

— Signornò. Non siamo…

— Un momento. — Schiacciai il mio circuito privato. — Sergente…

— La sento, signore. — La sua voce era calma e anche lui regolava il volume smorzandola. — Brumby e io siamo in contatto radio, ma non siamo riusciti a riunirci.

— Dove si trova?

Esitò. — Signore, il mio consiglio è di riunirvi alla squadra di Brumby, e fare subito ritorno in superficie.

— Risponda alla mia domanda.

— Signor Rico, potrebbe restare quaggiù una settimana senza riuscire a trovarmi, e io non sono in grado di muovermi. Deve…

— Basta, sergente! È ferito?

— No, signore, ma…

— Allora perché non si può muovere? È nei guai con i ragni?

— Signorsì, sono centinaia. Per ora non possono raggiungermi, ma io non posso uscire di qua. Perciò credo che farebbe meglio…

— Sergente, la finisca di dire sciocchezze. Sono certo che sa benissimo quali svolte ha preso. Mi spieghi bene la strada, mentre io guardo la mappa. È un ordine. Passo.

Mi obbedì, dandomi spiegazioni precise e concise. Accesi la lampada del casco, rialzai i visualizzatori e seguii le indicazioni sulla mappa. — Bene — dissi poi. — È quasi proprio sotto di noi, due livelli più in basso. Arriveremo appena ci saremo riuniti alla seconda squadra. Resista. — Passai sull’altro circuito: — Brumby…

— Eccomi, signore.

— Arrivati alla prima intersezione, siete andati a sinistra o a destra?

— Sempre diritto, signore.

— Benissimo. Cunha, raduna gli uomini. Brumby, avete avuto difficoltà con i ragni?

— Ora no, signore. Ma è per colpa loro che ci siamo smaniti. Ci siamo imbattuti in un gruppo di ragni, c’è stato uno scontro, e a combattimento finito non siamo più riusciti a raccapezzarci.

Feci per chiedergli delle perdite, ma poi decisi che le cattive notizie potevano attendere. Volevo riunire la mia squadra e uscire di lì. Una città dei ragni senza ragni in vista era in qualche modo più fastidiosa dei ragni che ci aspettavamo di incontrare. Brumby ci guidò nelle due svolte successive e io lanciai in tutti i corridoi che non imboccavamo bombe che sprigionavano una sostanza derivata dal gas nervino che usavamo contro i ragni in passato. Non li uccideva, ma li faceva cadere paralizzati. Era questa la dotazione che avevamo ricevuto per l’operazione, e io avrei scambiato una tonnellata di quel gas per poche libbre di quello scoperto di recente. Tuttavia poteva sempre servire a coprirsi i fianchi.

In un lungo tratto di galleria perdemmo i contatti con Brumby, ma alla prima intersezione li ristabilimmo. Qualche scherzo delle onde radio, probabilmente.

Ma in quel punto, Brumby non seppe dirmi altro: lì, più o meno, i ragni li avevano assaliti.

E lì i ragni assalirono noi.

Non so da che parte fossero sbucati. So solo che all’improvviso risuonò alle mie spalle il grido: — Ragni! Ragni! — Mi voltai. Erano dappertutto. Ho il sospetto che quelle pareti non fossero solide come sembravano: solo così si spiega quell’irruzione in massa.

Non potevamo usare né bombe né lanciafiamme, rischiavamo di colpirci tra noi. Ma potevamo usare mani e piedi…

Il combattimento durò forse un minuto, e quando finì non c’erano più ragni, solo membra staccate sparse al suolo e quattro uomini morti.

Uno era il sergente Brumby. Durante lo scontro la seconda squadra, che non era molto lontana, ma non si era mossa prima per timore di smarrirsi ulteriormente, ci aveva raggiunto. I clamori della battaglia li avevano guidati nella nostra direzione, e così, pur non potendo ricorrere alla radio, eravamo riusciti a ritrovarci.

Cunha e io ci accertammo che per i caduti non ci fosse più niente da fare, poi fondemmo insieme le due squadre e cominciammo a discendere. Trovammo i ragni che assediavano il nostro sergente di squadrone.

Quella battaglia durò solo qualche secondo, perché il sergente mi aveva già chiarito che cosa dovevo aspettarmi. Aveva catturato un ragno-cervello e si faceva scudo del corpo piatto. Non poteva uscire di là, ma i ragni non potevano attaccarlo senza suicidarsi, colpendo il loro stesso cervello.

Noi non avevamo timori del genere. Li colpimmo alle spalle, massacrandoli.

Un istante dopo fissavo l’orrida cosa che il mio sergente stringeva a sé, sentendomi pieno di esultanza nonostante le perdite subite. All’improvviso udii un rumore di lardo che frigge. Un grosso pezzo del tetto mi crollò addosso e, per quanto mi riguarda, l’Operazione Nobiltà terminò di colpo.


Mi risvegliai in un letto, e in un primo momento credetti di essere ancora al corso ufficiali e di avere avuto un brutto incubo popolato di ragni. Ma non ero al corso. Mi trovavo nell’infermeria della nave-trasporto Argonne e avevo effettivamente comandato uno squadrone tutto mio per circa dodici ore.

Adesso, però, ero soltanto un paziente in più, affetto da avvelenamento da protossido d’azoto ed eccesso di radiazioni per essere rimasto più di un’ora senza tuta prima di venire recuperato. Mi ritrovavo anche tre o quattro costole rotte e una botta in testa che mi aveva messo fuori combattimento.

Ci volle parecchio prima che potessi ricostruire con esattezza l’Operazione Nobiltà. Alcuni particolari non sono mai riuscito a saperli. Per esempio perché Brumby avesse trascinato la sua pattuglia nel sottosuolo. Brumby è morto, e Naidi giace nella tomba accanto alla sua. Di conseguenza devo accontentarmi della magra soddisfazione di sapere che entrambi avevano avuto i galloni e li portavano quel giorno sul pianeta P quando niente era andato secondo i piani.

Qualche tempo dopo seppi, comunque, perché il mio sergente di squadrone era sceso nella colonia dei ragni. Aveva sentito il mio rapporto al capitano Blackstone, quando avevo detto che l’irruzione dei ragni operai rappresentava solo un diversivo.

Quando i veri ragni guerrieri erano usciti in superficie nella sua zona, il sergente era arrivato alla conclusione (esattamente, e con qualche minuto di anticipo sulle conclusioni, identiche, a cui giunse poi il comandante generale) che i ragni tentassero un colpo di mano dettato dalla disperazione, perché se non fosse stato così non avrebbero sacrificato in quel modo i loro operai.

Avendo notato che il contrattacco sferrato dalla città dei ragni non era portato avanti con forze sufficienti, aveva concluso che il nemico non aveva molte riserve. A quel punto, aveva deciso che quello era il momento favorevole affinché un uomo, agendo da solo, avesse la possibilità di effettuare un’incursione, trovare un cervello e catturarlo. Bisogna ricordare che lo scopo dell’operazione era proprio quello. E così aveva tentato, approfittando dell’occasione, e ce l’aveva fatta.

E con questo si era avuto il “missione compiuta” dal primo squadrone delle guardie nere. Non erano stati molti gli squadroni che avevano potuto fare la stessa comunicazione. Non era stata catturata nessuna regina (i ragni avevano preferito ucciderle) e soltanto sei cervelli erano stati fatti prigionieri. Nessuno di essi fu usato per uno scambio di prigionieri: non vissero abbastanza. Ma quelli delle Ricerche psichiche poterono disporre di campioni vivi da studiare, perciò ritengo che l’Operazione Nobiltà sia stata un successo. Il mio sergente di squadrone ottenne un avanzamento di grado per meriti di guerra. A me non fu offerto (e comunque non avrei accettato), ma non fui sorpreso quando seppi della sua promozione. Il capitano Blackstone mi aveva detto che mi era toccato il “miglior sergente di tutta la flotta”, e non avevo mai messo in dubbio la sua opinione. Conoscevo già il mio sergente, perché l’avevo incontrato in precedenza. Credo che nessuna guardia nera lo sapesse, di certo io non ne avevo mai parlato. Credo che lo stesso Blackie lo ignorasse. Ma io conoscevo il mio sergente di squadrone fin dal primo giorno di vita militare.

Si chiamava Zim.


Quanto al mio ruolo in quell’operazione, non lo reputavo certo un successo. Rimasi sull’Argonne per oltre un mese, come ferito e, poi, convalescente, prima di essere sbarcato a Sanctuary insieme a pochi altri. Ebbi tempo di riflettere, un po’ sulle perdite subite, un po’ sulla bella occasione sprecata di distinguermi come comandante di squadrone. Non avevo tenuto d’occhio ogni cosa come faceva il tenente Rasczak. Non ero rimasto nemmeno ferito in combattimento: mi ero lasciato semplicemente colpire in testa da un masso. Riguardo alle perdite, non sapevo nemmeno quante fossero state. Sapevo soltanto che di sei pattuglie me ne erano rimaste quattro. E chissà quanti altri erano morti prima che Zim riportasse gli uomini alla superficie e le guardie nere ricevessero il cambio.

Non sapevo nemmeno se il capitano Blackstone era ancora vivo. Lo era; anzi, seppi poi che aveva ripreso il comando mentre io mi trovavo nel sottosuolo. Non so bene come sarebbero andate le cose nel caso che il sottotenente provvisorio fosse rimasto vivo e l’ufficiale al comando fosse morto. Ma sentivo che il modulo 31 (quello con il giudizio dell’esaminatore) mi avrebbe rispedito di corsa tra i sergenti.

Ormai mi sembrava senza importanza il fatto che i miei libri si trovassero su un’altra astronave.

Tuttavia, appena mi alzai dal letto, presi in prestito i testi di matematica da uno degli ufficiali più giovani e mi misi a studiare. La matematica è una materia difficile, tiene la mente occupata e in fondo vale sempre la pena di impararla. Non importa quale sia il proprio grado, nella matematica si possono trovare tutte le cose importanti.

Quando finalmente tornai alla Scuola ufficiali e restituii le stellette, seppi che ero ancora allievo ufficiale e non sergente. Blackie mi aveva concesso il beneficio del dubbio.

Il mio compagno di stanza, Angelo, era in camera sua con i piedi sulla scrivania: mi aspettava, e aveva davanti a sé il mio pacco di libri di matematica. Mi guardò e si finse sorpreso. — Ehi! Credevamo che ci avessi lasciato le penne!

— Io? I ragni non mi hanno preso tanto sul serio. Tu, quando vai in missione?

— Ci sono già stato — rispose. — Sono partito il giorno dopo di te, ho fatto tre lanci e una settimana dopo ero di ritorno. Tu come mai sei stato via tanto tempo?

— Sono tornato a casa facendo un giro un po’ lungo. Ho passato un mese a bordo di un’astronave come passeggero.

— Il solito fortunato. Quanti lanci hai fatto?

— Nessuno — ammisi.

Mi fissò. — Sei proprio fortunato!

Forse Angelo aveva ragione: alla fine ebbi i gradi. Ma parte del merito fu suo, per avermi aiutato in matematica. La mia fortuna è stata in gran parte quella di avere incontrato sempre gente in gamba: Angelo, Gelatina, il tenente Rasczak, Carl, Blackie, Brumby, Ace… e naturalmente il sergente Zim. Capitano al merito di guerra Zim, adesso, con il grado permanente di comandante di squadrone. Non sarebbe stato giusto avere un grado superiore al suo solo per il fatto di essere stato ferito.

Mi trovavo con Bennie Montez, un mio compagno di corso, allo spazioporto il giorno dopo la prima nomina, in attesa di raggiungere le nostre rispettive navi. Eravamo sottotenentini talmente in erba da sentirci imbarazzati nel vederci salutare di continuo. Così, per darci un contegno leggevamo la lista delle astronavi in orbita attorno a Sanctuary, talmente lunga da far pensare che ci fossero grandi novità nell’aria, anche se nessuno ci aveva fatto l’onore di parlarcene. Mi sentivo emozionato. Si erano esauditi due dei miei più forti desideri, ero stato assegnato, infatti, alla mia vecchia compagnia, dove si trovava ancora mio padre. Inoltre, mi sarei potuto vantare di avere fatto la gavetta sotto il tenente Jelal, con alcuni importanti lanci di fronte.

Non riuscivo a crederci, tanta era la gioia, e così studiavo la lista. Tanta gente, quante astronavi!

Erano elencate per tipologia, erano troppe per individuarle in altro modo. Iniziai a leggere i nomi delle navi che trasportavano i fanti, le uniche che interessano a un membro della Fanteria spaziale mobile.

C’era la Mannerheim! Chissà se avrei avuto la possibilità di incontrare Carmen. Probabilmente no, ma potevo inviare un dispaccio e scoprirlo.

Grandi navi: la nuova Valley Forge e la nuova Ypres, e poi Marathon, El Alamein, Gallipoli, Marne, Tours, Gettysburg, Hastings, Alamo, Waterloo, e la Rodger Young. Tutti nomi di luoghi dove i fanti avevano fatto risplendere i loro nomi.

Piccole navi, quelle che avevano preso il nome dai condottieri: Horatius Alvin York, Swamp Fox, la stessa Rog, benedetta di tutto cuore, Colonnello Bowie, Devereux, Vercingetorige, Sandino, Aubrey Cousens, Kamehmeha, Audie Murphy, Xenophon, Aguinaldo.

Dissi: — Dovrebbe essercene una che si chiama Magsaysay.

Bennie mi guardò: — Cosa?

— Ramon Magsaysay — spiegai. — Grande uomo, grande soldato. Non hai studiato la storia?

— Ecco — confessò Bennie — ho imparato che Simon Bolivar costruì le piramidi, sbaragliò l’Armada e fece il primo viaggio sulla Luna.

— Hai dimenticato che sposò Cleopatra.

— Oh, be’, particolari secondari. E poi sono convinto che ogni paese adotti una sua versione della storia.

— Ci puoi scommettere.

Aggiunsi qualcosa che non suonò chiaro, e Bennie chiese: — Che cos’hai detto?

— Scusami. Era un vecchio adagio nella mia lingua d’origine. Si potrebbe tradurlo pressappoco così: “La casa è dove sta il cuore”.

— Qual è la tua lingua?

— Il tagalog.

— Non si parla l’inglese standard dove sei nato tu?

— Certo. Negli affari e a scuola. In casa, però, usiamo la nostra vecchia lingua. È una tradizione.

— Capisco. Anche i miei vecchi parlano sempre spagnolo fra loro. Ma tu dove sei…

L’altoparlante cominciò a trasmettere le note di Meadowland. Bennie mi sorrise: — Ho un appuntamento con un’astronave. Ci vediamo, amico. Buona fortuna!

— Attento ai ragni! — Ricominciai a leggere i nomi delle astronavi: Montgomery, Tchaka, Geronimo…

Poi, mi giunse il suono più dolce del mondo: “…splenda il nome di Rodger Young!”.

Afferrai la mia sacca e mi affrettai. “La casa è dove sta il cuore”, e io stavo andando a casa.

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